Iran, la vittoria in salita del presidente riformista Masoud Pezeshkian
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Poteva andare peggio. È stato sicuramente il primo pensiero, alla notizia della vittoria del riformista Masoud Pezeshkian al ballottaggio per le presidenziali in Iran del 5 luglio, tra quanti hanno a cuore non solo la democrazia e il rispetto dei diritti dei cittadini iraniani, ma anche la possibilità che si fermi quella pericolosa spirale di tensioni innescata in tutto il Medio Oriente dall’attacco di Hamas a Israele e dalla guerra a Gaza: una spirale in cui Teheran gioca una parte cruciale.
Ma ora la partita del nuovo presidente, il primo riformista a capo del governo dopo i due mandati di Mohammad Khatami conclusisi nel 2005, è tutta da giocare. La vittoria al secondo turno sul deputato ultraconservatore Saeed Jalili, e la conquista di una quota determinante dell’elettorato tra quanti avevano scelto di non votare al primo turno, è stato solo il primo passo. Ora Pezeshkian, per realizzare le sue promesse, dovrà guadagnarsi il consenso di un Parlamento dominato dai conservatori e garantirsi il via libera non solo della Guida Suprema Ali Khamenei, ma anche di quel blocco di poteri non eletti e di gruppi di interesse che da tempo svolgono un ruolo determinante, da dietro le quinte, nella politica interna ed estera della Repubblica Islamica.
Comunque vada a finire, in questa partita che si dovrà ora giocare nelle dinamiche interne al complesso sistema di potere (nezam) della Repubblica Islamica, il voto di ieri avrà avuto il merito di aprire una finestra di speranze e di nuove opportunità rispetto agli scenari plumbei, sia interni che internazionali, che potevano cadere sull’Iran con una vittoria di Jalili. Una finestra in cui sono destinati a svolgere un ruolo significativo anche altri attori internazionali, a partire da Israele e dagli Usa, protagonisti principali nella tragica guerra in corso a Gaza e del sempre più presente rischio di un suo allargamento.
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Il riformista eletto anche da chi alla fine scelto “il meno peggio”
Ma procediamo con ordine. In Iran si è votato con un anno di anticipo per la morte improvvisa del presidente Ebrahim Raisi, vittima dell’incidente aereo del 19 maggio scorso, quando a perdere la vita - tra i rottami del suo elicottero che lo riportava a Teheran dopo una visita ufficiale nel vicino Azerbaijan – era stato anche il ministro degli Esteri Hossein Amir-Abdollahian.
Nella giornata del 5 luglio, quando l’apertura delle urne è stata prolungata fino a mezzanotte come spesso accade in Iran per favorire un maggiore afflusso alle urne, la quota dei votanti è passata dal 40 al 50% circa degli aventi diritto rispetto al primo turno del 28 giugno. Una settimana prima – quando la sfida si giocava tra quattro dei sei candidati alla presidenza che avevano passato la selezione del Consiglio dei Guardiani (gli altri due avevano ceduto il passo) – si era recato alle urne il 39,92% per cento: un record negativo nella pur discendente tendenza degli ultimi anni in Iran, invertito da una risalita al 49,8% dei votanti, su un totale di 61 milioni di elettori potenziali, al secondo turno. Certamente è stata proprio questa più ampia partecipazione a determinare la vittoria di Pezeshkian, eletto con 16,3 milioni di voti contro i 13,5 del rivale ultraconservatore Saeed Jalili.
Al primo turno ne aveva ottenuti a sorpresa solo 3,3 milioni Mohammad Baqer Qalibaf, il candidato conservatore dato per vincente da molti analisti, grazie anche ai suoi forti legami con il potente Corpo militare dei Guardiani della Rivoluzione, che tiene anche le redini di vasti settori dell’economia e gioca un ruolo importante negli indirizzi politici del nezam. Cruciale è stata dunque, in questa vittoria del candidato riformista, la scelta di votare da parte dei tanti che avevano scelto di boicottare le elezioni. A pronunciarsi per il boicottaggio anche stavolta, come nel voto per il nuovo Parlamento del marzo scorso, era stata in particolare la Premio Nobel Narges Mohammadi, dissidente e attivista per i diritti umani che dal carcere (dove sta scontando una lunga pena detentiva) aveva fatto sapere che non avrebbe partecipato “alle elezioni illegali del governo corrotto e illegittimo della Repubblica islamica", con il chiaro intento di negarne appunto la legittimità. La sua scelta era stata condivisa, sia in Iran che all’estero, da molti sostenitori del movimento ‘Donna Vita Libertà’, nato dalla morte di Mahsa Amini mentre era detenuta dalla polizia morale, il 16 settembre 2022, e duramente represso nel sangue nei mesi successivi. Ma alla fine molti hanno evidentemente preferito andare a votare per Peseshkian, pur convinti che ormai l’epoca del riformismo si era definitivamente chiusa e che poco o nulla poteva cambiare con il voto, piuttosto che vedere l’Iran finire nelle mani di una figura considerata tra i peggiori fondamentalisti nel Paese.
“Sia quelli che hanno eletto il dottor Pezeshian – ha scritto l’ex deputata riformista Parvaneh Salahshouri - sia quelli che non hanno votato, sono tutti alla ricerca di un Iran orgoglioso, prospero e sviluppato, che persegua i diritti di cittadinanza e le libertà individuali e sociali”. Per il boicottaggio si erano invece schierati anche, in particolare, l’attivista irano-americana Masih Alinejad e il principe in esilio Reza Pahlavi, leader della fazione monarchica dell’opposizione iraniana all’estero, mentre sui social sono apparsi vari video che documentavano le parole e i modi molto aggressivi usati da alcuni elementi dell’opposizione delle diaspora per scoraggiare i loro connazionali che si recavano a votare nei consolati.
La partita che si apre ha molti giocatori, Pezeshkian è solo uno e non ha l’ultima parola
Tuttavia, con l’evidente intento di evitare il peggio, una parte degli elettori più scettici e degli oppositori della Repubblica Islamica ha scelto di votare, permettendo così al leader Ali Khamenei di rallegrarsi per l’affluenza, ringraziare i candidati per aver partecipato alla corsa e accusare i “nemici” del paese di aver orchestrato la campagna per il boicottaggio del voto. Di certo, tuttavia, nell’esito di quest’ultima elezione hanno pesato anche le annose e profonde divisioni nel campo dei conservatori, che esprimevano cinque dei sei candidati inizialmente in corsa e non hanno saputo puntare su uno soltanto di loro per assicurarsi la vittoria.
Pezeskian, da parte sua, ha ringraziato gli iraniani per la fiducia. "Caro popolo iraniano – ha scritto il cardiologo, formatosi anche all’estero, che già era stato ministro della Salute con il presidente Khatami - le elezioni sono finite e questo è solo l'inizio del nostro lavoro insieme. Ci aspetta una strada difficile. Può essere liscia solo con la vostra cooperazione, empatia e fiducia". Aggiungendo: “Ti tendo la mano e giuro sul mio onore che non ti abbandonerò su questa strada. Non abbandonarmi.".
Ma qui, come si diceva, si apre la vera partita. Il deceduto conservatore Raisi – ha scritto Mehran Haghirian della Fondazione basata a Londra Bourse & Bazaar – è stato “un presidente debole, a capo di un sistema in cui i poteri dell’esecutivo sono ridotti. Gli organismi non eletti e i gruppi di interesse godono di un’influenza significativa sulla politica del governo in Iran e la Guida Suprema stabilisce le linee rosse. Gli elettori non si fanno illusioni sui limiti del potere del presidente iraniano”.
Tuttavia, vi sono state significative differenze nella politica interna ed estera dei diversi presidenti. E se Jalili - da un decennio parte di un “autoproclamato governo-ombra” – sostiene la visione di un Iran svincolato dall’influenza occidentale”, si oppone a qualsiasi impegno con gli Stati Uniti e l’Europa e, da membro del Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale, “ha usato il suo potere per ostacolare la ripresa dell’accordo sul nucleare iraniano”, fino a far temere un futuro ritiro di Teheran dal Trattato di non proliferazione nucleare, con questo nuovo presidente riformista si aprono nuovi scenari.
Pezeshkian ha infatti affermato che la sua politica estera sarà basata sull’“impegno con il mondo”, compresa la ripresa dei negoziati per la revoca delle sanzioni che, nonostante le scelte autarchiche e il rafforzamento della cooperazione con i paesi non allineati con l’Occidente, ancora pesano sull’economia del paese. A Pezeshkian – appoggiato nella sua campagna elettorale dell’ex ministro degli Esteri Javad Zarif, artefice dell’accordo sul nucleare del 2015 abbandonato tre anni dopo dal presidente Trump - potrebbe essere dunque consentito di riavviare i colloqui sul rilancio di quell’accordo, finora infruttuosi nonostante il dichiarato intento di ripristinarlo dell’uscente presidente Biden. Ma, ricorda Haghirian, il Parlamento appena rinnovato è dominato da estremisti delle fazioni conservatrici che renderanno difficile per Pezeskhian la nomina dei suoi ministri. Senza un intervento della Guida Suprema per incoraggiare l’unità post-elettorale, dunque, la paralisi politica potrebbe rivelarsi ancora peggiore rispetto agli ultimi anni dell’amministrazione del conservatore moderato Hassan Rouhani, presidente dal 2013 al 2021.
“Pezeshkian ha sottolineato l’unità con la Guida Suprema e gli altri principali centri di potere in Iran”, ricorda da parte sua il National Iranian American Council, organizzazione che ha sempre sostenuto la diplomazia con l’Iran pur criticando duramente le politiche repressive della Repubblica Islamica. Se questi fossero aperti a un cambiamento, ciò potrebbe favorire un successo del neo-presidente sia sul fronte interno che su quello estero. Se saranno inflessibili, Pezeshkian – attento anche alle istanze delle minoranze etniche emarginate – “ha effettivamente promesso di essere una voce contro alcune delle politiche esistenti delle istituzioni non elette dell’Iran, come la dura applicazione delle leggi obbligatorie sull’hijab e le restrizioni su Internet. Se e come perseguirà queste promesse potrebbero portarlo a uno scontro con quei centri di potere, o a deludere i milioni di iraniani” che lo hanno eletto.
Immagine in anteprima: frame video AlJazeera via YouTube