Dalle crisi globali alle tensioni internazionali: cosa c’è in gioco con le elezioni europee
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Questa settimana elettori ed elettrici saranno chiamati alle urne per il rinnovo del Parlamento Europeo per il quinquennio 2024-2029. Le elezioni europee di questo fine settimana rappresentano un appuntamento di vitale importanza per il futuro dell’Unione Europea sotto vari punti di vista. Se si rivolge lo sguardo al passato, in particolare alle precedenti due elezioni, la situazione non solo interna all’Europa ma che pervade l’intero globo appare profondamente mutata: dalla crisi indotta dalla diffusione della pandemia di Sars-CoV-2, con le sue implicazioni socio-economiche, fino alle odierne tensioni internazionali che si legano all’invasione russa dell’Ucraina e agli attacchi di Israele nella Striscia di Gaza in risposta agli attentati del 7 ottobre. Non solo: anche un rapido sguardo ai paesi dell’Unione Europea e al loro panorama politico fa capire l’importanza che rivestono queste elezioni per il futuro dei cittadini e delle cittadine dell’Unione e per l’Europa in se stessa.
È importante quindi sottolineare quali aspetti rendono queste elezioni più importanti, rispetto alle precedenti, con uno sguardo che va dal locale fino al ruolo globale dell’Europa. Questo, ovviamente, sempre tenendo presente che solo con il conteggio dei voti nei prossimi giorni si potranno fare analisi più approfondite su quale rotta prenderà l’Europa.
Di cosa parliamo in questo articolo:
Sta arrivando l’onda nera?
Il primo aspetto su cui è necessario soffermarsi è l’affermazione che, stando ai sondaggi e ai risultati delle precedenti elezioni nazionali, potrebbero avere i partiti di destra e destra radicale, in particolare quelli del gruppo dei Conservatori e Riformisti (ECR) e del gruppo Identità e Democrazia (ID). Finora, infatti, il Parlamento Europeo si è retto su una maggioranza di larghe intese: quella tra i popolari del Partito Popolare Europeo (PPE), che rappresentano ormai da varie elezioni il partito più rappresentato all’interno del parlamento; i socialisti del Partito Socialista Europeo (PSE) e dei partiti affiliati nell’Alleanza dei Socialisti e Progressisti; i liberali di Renew Europe (RE), che al suo interno contengono sia l’ALDE sia il PDE sia i parlamentari di Renaissance , ovvero il partito del Presidente della Repubblica Francese, Emmanuel Macron.
Già nel 2014 si era assistito a una netta affermazione dei cosiddetti partiti populisti, con la vittoria di Marine Le Pen e, al tempo, del Front National, in Francia, e quella dell’UKIP, all’epoca guidato da Nigel Farage, nel Regno Unito - nel frattempo uscito dall’Europa. Questa affermazione non aveva però portato a grandi scombussolamenti all’interno del Parlamento e nelle istituzioni europee, tra cui la Commissione, in quanto a livello nazionale i partiti populisti non avevano ancora preso parte a Governi - che nominano i membri della Commissione Europea che dovranno poi essere approvati dal Parlamento europeo. Nel 2019 l’onda nera dei partiti di destra non si era arrestata, ma era rimasta ben al di sotto delle aspettative, grazie anche all’ottimo risultato dei partiti verdi sospinti dalle manifestazioni per il clima che caratterizzavano il periodo.
La situazione odierna è invece differente. I sondaggi, come detto, danno in crescita i partiti di destra, in particolare quelli afferenti al gruppo dell’ECR, di cui fa parte anche il partito Fratelli d’Italia della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Secondo quanto riporta il sito Politico, questo gruppo si attesterebbe al terzo posto per numerosità al parlamento europeo, superando i liberali di Renew Europe. Per il gruppo Identità e Democrazia, di cui fa parte la Lega di Salvini, si assisterebbe invece a una contrazione. Dietro questo risultato si cela la sospensione del partito tedesco Alternative für Deutschland (AfD), partito di destra radicale tedesco che negli ultimi mesi si è reso protagonista di vari scandali. In particolare, durante un’intervista con la corrispondente per la Germania de La Repubblica Tonia Mastrobuoni, il capolista del partito Maximilian Krah ha sostenuto che non tutti i membri delle SS fossero stati dei Criminali. Lo stesso Krah in passato era stato accusato per i suoi rapporti con il regime russo e quello cinese, così come l’AfD aveva alle sue spalle una storia di dichiarazioni fortemente razziste e negazioniste riguardo la storia tedesca.
Questa tendenza deve essere vista in linea con una maggior apertura da parte dei partiti conservatori verso la collaborazione con la destra radicale. A lungo, infatti, i partiti di destra radicale non sono stati considerati nemmeno come eventuali interlocutori nel formare un governo, per via delle loro posizioni estreme. Nel corso di questi anni, però, abbiamo visto non solo la vittoria di partiti di destra radicale in vari paesi, tra cui l’Italia, ma anche l’intenzione da parte dei partiti di centrodestra di collaborare con loro. Sotto questo aspetto il nostro paese rappresenta uno dei primi esperimenti: nel 1994, Silvio Berlusconi portò al governo il partito di destra radicale Alleanza Nazionale, guidato da Gianfranco Fini.
Nel corso degli ultimi anni, questa tendenza italiana si è diffusa anche nel resto d’Europa. In Spagna, come avevamo spiegato, la destra moderata del Partito Popolare ha stretto vari accordi, a livello locale, con il partito nostalgico del franchismo Vox. In paesi come la Francia, invece, i partiti di governo si sono spostati nettamente a destra per frenare l'emorragia di voti, su temi come l’immigrazione e l’integrazione, ma recentemente questa si è rivelata una strategia fallimentare, con il partito di Macron tallonato nei sondaggi dal Partito Socialista (PS) e da Place Publique (PP), guidati dal leader di quest’ultimo Raphaël Glucksmann, che sta raccogliendo proprio gli scontenti di centrosinistra dell’esperienza Macron.
Questo spostamento a destra potrebbe avvenire anche tra Bruxelles e Strasburgo, le due sedi principali del Parlamento Europeo. A preconizzarlo c’è un recente articolo del settimanale britannico The Economist, che in copertina rappresenta Ursula Von der Leyen, attuale Presidente della Commissione Europea alla ricerca di un secondo mandato, la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni e la leader de facto del Rassemblement National, Marine Le Pen. Secondo il settimanale britannico, le tre leader rappresenterebbero tre modi diversi di approcciarsi al populismo. Se Von Der Leyen è considerata una conservatrice razionale tedesca, lontana dal populismo, Meloni è invece vista in una luce diversa rispetto a Marine Le Pen. La presidente del Consiglio italiana ha mostrato una reciproca convergenza con la Presidente della Commissione nel corso degli ultimi mesi. A giocare un ruolo c’è sicuramente il riposizionamento del suo partito in politica estera: il partito di Giorgia Meloni e in generale l’ECR hanno abbandonato le posizioni pro Russia che li avevano contraddistinti in passato.
Non c’è motivo, secondo il The Economist, di tenere al di fuori della politica mainstream Giorgia Meloni e alcuni pezzi dell’ECR. Questo servirebbe, secondo il settimanale, a isolare invece il populismo ben più spinto di Identità e Democrazia di Marine Le Pen (e Matteo Salvini), che invece ha assunto posizioni più ondivaghe riguardo al conflitto in Ucraina. In realtà, dietro a questa riabilitazione della destra di Meloni, c’è anche una maggior sintonia su certi temi, a partire da quello della transizione ecologica e immigrazione, con le frange più estreme del PPE, che potrebbero quindi cercare una maggior collaborazione con la destra. Inoltre, come sottolinea a Politico Hans Kundnani, autore di Eurowhitness e ricercatore in Relazioni Internazionali al Royal Collegge di Londra, c’è un altro aspetto da considerare: la destra potrebbe vincere non tanto collaborando con il PPE, ma spostandolo verso le proprie posizioni. D’altronde è da tempo che i partiti di centrodestra europea si stanno spostando su posizioni più nette su certi temi, come dimostra il caso francese discusso prima.
Ovviamente si tratta di una questione di equilibri che potrebbero non reggere. Finora i sondaggi sottolineano come l’attuale maggioranza al Parlamento Europeo riuscirebbe a reggere, magari grazie all’aiuto dei Verdi o di non affiliati. Più difficile è invece un coinvolgimento della destra di Meloni all’interno della maggioranza al Parlamento Europeo. A porre un veto sarebbero infatti i socialisti e probabilmente anche certe frange, quelle più progressiste, del gruppo Renew Europe. Non sono poi da sottovalutare le tensioni interne agli stessi partiti di destra radicale, come fa notare sul Guardian Cas Mudde, uno dei più importanti esperti di populismo. Se ad esempio il partito di Orbán, Fidesz, dovesse entrare nell’ECR come ci si aspetta, il rischio è che le sue posizioni sulla Russia non siano ben accette da partiti come i Democratici Svedesi, che hanno minacciato di lasciare il gruppo.
L’economia non è scomparsa, sono scomparsi i cittadini
C’è un secondo aspetto interessante di queste elezioni europee: il tema dell’economia è praticamente scomparso dal dibattito pubblico, inglobato da quelli delle tensioni geopolitiche e di difesa. Una delle ragioni è il cambio d’approccio seguito dall’Europa nel corso dell’emergenza economica causata dalla diffusione del Sars-CoV-2. Durante la crisi dei debiti sovrani del decennio precedente, l’Europa aveva optato per una strategia votata all’austerità, che aveva contribuito all’aggravarsi della crisi e alla crescita di disuguaglianze e disagio economico. Con la pandemia, dopo una prima fase di tentennamento, la risposta dell’Europa è stata decisa, supportando gli Stati membri in difficoltà come consigliato dall’ex Presidente della Banca Centrale Europea e del Consiglio Italiano, Mario Draghi: l’erogazione di SURE per contrastare la disoccupazione, l’ombrello della Banca Centrale Europea con il Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP) che dava ossigeno agli Stati nel mobilitare le risorse finanziarie necessarie. E infine il Next Generation European Union (NGEU), un piano per affrontare le sfide di domani come la transizione ecologica e digitale.
Nonostante ciò, come avevamo già spiegato, l’Europa è rimasta indietro rispetto ai competitor, in particolare con Cina e Stati Uniti. Il capitolo Cina è forse quello più importante: una parte consistente della supply chain dei prodotti necessari per la transizione verde è in mano proprio a Pechino. Non a caso uno dei capitoli più dibattuti nel corso di questi mesi è proprio l’impatto che avrà, negli anni a seguire, l’importazione di auto elettriche cinesi nel mercato europeo. A differenza di quelle europee, infatti, queste presentano dei prezzi molto più competitivi, anche rispetto alle vetture più abbordabili come quelle francesi. I piani per incentivare l’acquisto di auto elettriche- ma anche quelli riguardanti la produzione di pannelli fotovoltaici- se da una parte sono necessari per la transizione ecologica, dall’altra rischiano di legare l’Europa alla Cina. Per questo è necessario discutere di misure protezionistiche per difendere l’industria europea mentre si accelera sulla transizione verde. D’altronde, gli Stati Uniti hanno già cominciato a farlo: l’Inflation Reduction Act di Biden ha sì dato incentivi per veicoli elettrici ed energia rinnovabili, ma a condizione che i prodotti fossero “Made in USA”, per potenziare l’industria americana.
L’Europa ha risposto ad alcune di queste sfide, ad esempio con il Critical Raw Materials Act che garantisce la fornitura di materiali cruciali per la transizione ecologica per raggiungere gli obiettivi climatici. Ma questo potrebbe non essere abbastanza. Per affrontare queste sfide, come ha giustamente sottolineato Mario Draghi, è necessaria un’Unione più coesa, in grado di sfruttare l’economia di scala per poter competere con giganti come Stati Uniti e Cina, con l’ombra di un ritorno al potere di Donald Trump che metterebbe a serio rischio i rapporti economici con l’Europa. Su come intraprendere questa maggior coesione tra paesi europei, però, non c’è stato un vero dibattito. È innegabile che, rispetto agli Stati Uniti, l’Europa manchi di una coesione anche dal punto di vista fiscale, che permetterebbe maggiori investimenti atti a garantire il pieno sviluppo delle industrie e delle aziende europee. Se e come questo verrà implementato nella prossima legislatura non ci è dato saperlo.
Per ora, quello che sappiamo è che la commissione Von der Leyen ha affidato a due ex presidenti del Consiglio italiani, Mario Draghi ed Enrico Letta, due importanti report sulla competitività e sul mercato unico europeo. Se queste rimarranno soltanto parole su carta o se invece si procederà su una via di maggiore cooperazione dipenderà anche dalla composizione della nuova maggioranza. Nel caso remoto, ma possibile, di un ingresso in maggioranza dell’ECR questa maggior coesione rischia di rimanere soltanto una bella idea: a differenza di Fratelli d’Italia che non si fa alcun problema a finanziare buona parte della manovra a debito, il gruppo è fortemente rigorista in campo fiscale, oltre a non essere disposto a una maggior cooperazione europea e a uno scetticismo nei confronti delle politiche climatiche.
Ma il problema di trattare il tema economico solamente in un’ottica di tensioni geopolitiche è proprio quello di dimenticarsi delle persone. L’Europa condivide con gli Stati Uniti l’assetto democratico delle sue istituzioni, ma per lungo tempo si è altresì contraddistinta per un livello di welfare superiore rispetto a oltreoceano. Quest’idea di Europa solidale e socialdemocratica è stata totalmente ignorata all’interno del dibattito- al di fuori di una direttiva europea sul salario minimo e il lavoro povero. Ci sarebbe molto da discutere riguardante, ad esempio, la tassazione dei capitali mobili che potrebbero fornire risorse cruciali per le sfide che l’Europa si trova ad affrontare e alle eventuali manovre di tipo redistributivo necessarie per compensare gli effetti iniqui - che andrebbero quindi a pesare sulle fasce più vulnerabili della popolazione - di alcune politiche di contrasto alla crisi climatica. Questo scarsa considerazione all’aspetto sociale delle politiche rischia di portare acqua al mulino dei partiti populisti di destra, che sfrutterebbero le iniquità che si sono create in Europa.
Il futuro dell’Europa e dell’Italia
La posta in gioco di queste elezioni è quindi altissima: il rischio è che l’Europa diventi sempre meno rilevante all’interno del contesto globale. Per farlo abbiamo bisogno di una maggior integrazione europea, che non può però esser raggiunta attraverso una collaborazione con la destra radicale, che ha invece un’idea di Europa molto più segmentata mettendo anche a rischio, in alcuni casi, lo Stato di diritto, come dimostrano il caso polacco - fermato alle ultime elezioni grazie a una coalizione larghissima – e ungherese, a cui si aggiunge quello slovacco dove governa invece un partito di sinistra conservatrice - che potrebbe essere alleato del Movimento 5 Stelle assieme a quello di Sahra Wagenknecht. A lungo Wagenknecht è stata uno dei nomi di punta del partito di sinistra radicale Die Linke, ma nel 2023 ha lasciato il partito accusandolo di pensare troppo ai diritti civili e troppo poco ai diritti sociali per lanciare un suo partito personale che punta ad andare oltre divisioni come destra e sinistra, raccogliendo i voti degli elettori di AfD e dell’est del paese.
È proprio sulle possibili implicazioni per lo scenario politico del nostro paese che vale la pena spendere le ultime parole, concentrandoci particolarmente sul Campo Largo e sull’alleanza di Destra di governo. Nel primo caso, la possibile alleanza citata in precedenza di Conte con forze dai contorni euroscettici e pro Russia, rischia di mettere in seria discussione l’idea di un’alleanza con il Partito Democratico e Alleanza Verdi Sinistra, che potrebbe invece porsi come alternativa - magari con la partecipazione di Azione di Calenda - alla destra di governo. La decisione del Movimento 5 Stelle sembra in realtà motivata da una situazione irrisolvibile: dopo aver provato a entrare in vari gruppi al Parlamento Europeo, per evitare di non avere alcuna rappresentanza e finire tra i non affiliati - sta provando a giocare la carta di un’alleanza con forze che rischiano di porre il Movimento 5 Stelle in una posizione difficile riguardo eventuali alleanze in Italia.
A destra, la situazione è ancora più complessa. Il motivo è semplice: si chiama Salvini Matteo. Il leader della Lega vive infatti da anni una crisi dovuta allo spazio che si è via via ridotto in Italia per la sua proposta politica. In un primo momento, Salvini era riuscito a risollevare una Lega annientata dagli scandali della famiglia Bossi, traghettandola da un partito etnoregionalista a uno di destra radicale sulla falsariga del Front National di Marine Le Pen. Poi però, dopo il tentativo di forzare la mano al governo e andare alle urne, quando aveva il vento in poppa nell’agosto del 2019, la sua popolarità è andata calando, con gli elettori che si sono sempre di più rivolti a Fratelli d’Italia. Per questo Salvini ha tentato di giocare la carta del moderato, entrando nel governo Draghi e poi presentandosi come un ministro del “fare” nel governo Meloni. Con la campagna elettorale per l’Europee, Salvini sta provando a giocarsi di nuovo la carta dell’anti-europeismo, con una campagna che ha come slogan “Meno Europa, più Italia”. Questo va in netta controtendenza con i suoi partner di governo, come Forza Italia e Fratelli d’Italia. Per capire se queste divergenze diventeranno insormontabili - e ciò dipende anche dal futuro di Salvini, ovvero se sarà o meno ancora leader della Lega - bisognerà però attendere.
Immagine in anteprima: European Parliament via Flickr.com