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Giorgia Meloni, una vittoria senza trionfo

26 Settembre 2022 10 min lettura

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Giorgia Meloni, una vittoria senza trionfo

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di Jacopo Tondelli (pubblicato su Gli Stati Generali)

Quello che doveva succedere da tempo, infine, è successo. E avviene però con una misura, una prudenza, una certo timore tutto italiano – a guardare bene nelle pieghe della fotografia – che meritano di essere sottolineati mentre analizziamo l’esito scontato che tutti conoscevamo dall’inizio: cioè l’affermazione della coalizione di destra, guidata da Giorgia Meloni e dai suoi Fratelli d’Italia. Che vince ampiamente in termini di seggi, conquistando – grazie al suo partito che traina la coalizione – una soddisfacente maggioranza di seggi in parlamento, a fronte di una quantità di voti pari a circa il 45%. Epperò, questa vittoria, pur ampia, è abbastanza lontana dalla favoleggiata soglia dei due terzi  dei membri del parlamento, che avrebbe consentito alla destra – sempre ammesso che davvero volesse, e fosse in grado di farlo – di cambiare la costituzione da sola. Non è così. C’è inoltre un dato “minore” che però merita di essere annotato: l’incredibile e soprannaturale tenuta di Forza Italia, unita al dimezzamento dei consensi della Lega salviniana rispetto a cinque anni fa, rende indispensabile l’apporto del partito di Berlusconi per la nascita e la tenuta di una maggioranza di governo. Gli “amici di Orban, Le Pen e Vox”, da soli, non hanno i numeri. Sempre per smentire gli incubi e rassicurare le paure che popolavano le vigilie di chi, sinceramente, si preoccupava dei destini della democrazia. Se questo è il fotogramma principale, ci sono tante immagini che meritano di essere guardate da vicino, per capire di quale film siamo le comparse. O a quale sceneggiatura, visto che siamo in democrazia e in democrazia siamo anche elettori, abbiamo contribuito.

La vittoria del centrodestra è netta. Ma è una vittoria che non vede neanche da lontano la maggioranza assoluta dei voti espressi, peraltro a fronte del più alto astensionismo della storia elezioni politiche. Si attesta attorno a una solida maggioranza relativa, attorno al 45%, che è poi sempre stato il “margine alto” del centrodestra berlusconiano nei suoi anni d’oro, cioè sul finire del Novecento e nel primo decennio del nuovo millennio. Il riferimento sembra preistorico, e per certi verso davvero lo è. Eppure, il perimetro disegnato in un altro mondo da Silvio Berlusconi resta sostanzialmente lo stesso, anche se è cambiato il mondo e sono sicuramente diversi gli interpreti. Alcuni, per dire, nel 1994 non avevano ancora raggiunto la maggiore età né il diritto di voto.  È il caso di Giorgia Meloni, e del suo partito che ha una fiamma che arde in omaggio a Mussolini nel mezzo del simbolo, a proposito di passato che fatica a passare. Il 26%  abbondante di consensi espressi che ottiene è una soglia inimmaginabile pochi anni fa per l’area politica che rappresenta. Resta un voto del tutto sconvolgente, se si risale più indietro nel tempo, e rappresenta un successo innegabile. Eppure – contemporaneamente – è anche il segnale di una certa freddezza degli elettori italiani sottoposti all’ennesimo tentativo di plebiscito. Mettere i numeri del primo partito italiano di oggi in relazione col passato recente e prossimo aiuta. Il quarto abbondante di voti che ha preso FdI oggi è sensibilmente meno di quelli ottenuti, per esempio, da 5 Stelle appena cinque anni fa che arrivarono addirittura a sfiorare il 33% dei consensi. Risalendo alle elezioni del 2013, il Pd di Bersani – universalmente ritenuto il grande sconfitto – prese il 25% abbondante, proprio come i 5 Stelle che entravano allora per la prima volta in parlamento per aprirlo come una scatoletta di tonno. Preistoria. Ancor più remoti sono gli episodi elettorali dei primi anni duemila e degli anni Novanta: per brevità diciamo che nel 2008 il neonato Partito Democratico di Veltroni superò il 33% alla Camera, e fu considerato a ragione il grande sconfitto, perchè di fronte aveva il Popolo delle Libertà di nuovo conio berlusconiano, che superò il 37%, peraltro in una coalizione capace di raggiungere il 46%.

I temi cambiano radicalmente, si sa, ma i dati costanti vanno registrati: un partito che prende poco più di un quarto dei voti raramente è considerato il trionfatore. Questa volta succede perchè è il partito trainatore di una coalizione ricomposta giusto in vista delle elezioni, e con alleati che si trovano in condizione di oggettiva minoranza, seppure soggettivamente assai diverse.

La Lega di Matteo Salvini, tra gli alleati, paga lo scotto di chi aveva abituato il proprio mondo a un successo troppo ampio e rapido, rispetto alla fatica che aveva fatto per maturarlo. A differenza di Giorgia Meloni, la pazienza non è evidentemente la qualità principale del già Capitano, che ora sente sul collo il fiato di chi lo vorrebbe spedire in panchina. Questo 9% circa di voti sono proprio lì a testimoniarlo: quando prese in mano un partito devastato, senza missione e senza credibilità, partiva dal 3%. Più o meno i primi consensi raccolti da Giorgia Meloni, ironia della sorte. A distanza di un decennio, dopo aver comunque portato i suoi due volte al governo, stabilmente in doppia cifra e appena cinque anni fa a celebrare come un trionfo il suo 18%, all’interno di una coalizione che si fermava peraltro al 37%, si trova spiaggiato nella terra di nessuno in cui si trova chi dovrà fare quel che dicono gli altri. Di chi, anzi, ha già iniziato a farlo. Lo ha fatto sostenendo il governo di Draghi, eroe di quella moneta unica, l’Euro, che era stato il suo nemico fondativo. Lo farà domani alla nascita di un governo Meloni, in cui siederà in qualche modo, ma da azionista di minoranza, e dopo che proprio Fratelli d’Italia ha eroso il consenso leghista non solo al sud, ma in quel Nord Italia in cui – inizialmente – la Lega proclamava che i padroni dovevano essere padroni, perché a casa loro. E lo farà anche dopodomani, quando i suoi compagni di partito gli diranno che la sua leadership giovane è invecchiata in meno di un decennio, come capita in questi anni. Potremmo perfino dire che sarebbe un finale troppo severo per lui, visto che dopo tutto il 9% è un buon risultato, almeno per la media storica della Lega. E però, l’aver inventato un partito nazionale, abbandonando la radice nordista, per poi trovarsi oggi nelle ridotte della Padania che fu, avendo perduto tutti i voti conquistati al sud, e senza nemmeno aver cambiato linea politica, è un problema non da poco. Un problema che un partito vero – e la Lega innegabilmente lo è – affronta sciogliendo i nodi che riguardano la linea, e la leadership che l’ha incarnata.

Sono tutti problemi – a proposito di prospettiva – che non ha Forza Italia, e non ha Silvio Berlusconi. Il partito attorno al quale si è costruita nei fatti la Seconda Repubblica sopravvive, e supera sempre le aspettative e i mille necrologi già scritti. Intendiamoci, il suo 8% è davvero l’ultimo respiro di una storia antica, ormai archiviata. Ma in pochi avrebbero scommesso sul fatto che, trent’anni dopo, dopo le condanne, dopo le scissioni, dopo lo sbarco su TikTok come fosse la luna, dopo il Monza fingendo che sia il Milan, Silvio Berlusconi, Marta Fascina e tutti gli altri, potessero ancora essere decisivi in parlamento. Lo saranno. Svanito il sogno del sorpasso ai danni della Lega, resta la realtà dei numeri: Silvio garante della maggioranza di centrodestra, e di ogni altra possibile e ipotizzabile maggioranza parlamentare. Finchè morte non ci separi.

E sulle cose ultime della vita e della politica, per l’ennesima volta, sarebbe invece chiamato a riflettere il centrosinistra italiano, a cominciare dal Partito Democratico. È un esercizio stanco e ritrito, quello della critica al principale partito progressista italiano. Lo svolgiamo in tanti e da così tanti anni che la speranza che serva a qualcosa rischia di diventare testimonianza della stupidità di continua a svolgerlo, cioè noi. Eppure questo episodio, al di là del dettaglio su cui poi necessariamente ci soffermeremo, è solo l’ennesima microvariazione su uno spartito esangue, antico, sempre uguale a se stesso da troppo tempo. Il fatto che il Pd di Enrico Letta, suo arcinemico, prenda qualcosa in più del Pd di Renzi, è plastica testimonianza di tutto quanto scritto. Un partito che non intercetta le fragilità sociali, che viene votato solo dai segmenti più ricchi e garantiti, dai territori più vocati alla rendita economica travestita da mercato. Un partito che esiste solo per andare a governare, senza mai vincere le elezioni. Un partito che, incredibilmente, viene trattato come fosse sovietico da qualche invasato e per dimostrare che sovietico non è candida economisti del rigore e ultraliberisti, che riesce a distinguersi solo sui diritti civili e continua a parlare una lingua ostile e aliena, anche adesso: dopo una pandemia, con una guerra alle porte, un’inflazione sudamericana. Dire che con la destra al governo sarà peggio per i poveri è servito a poco in campagna elettorale, e non servirà a niente adesso. Cosa servirebbe davvero in realtà è difficile a dirsi: ma difficilmente sarà utile un nuovo bagno di sangue paracongressuale che veda schierati un governatore centrista come Bonaccini contro un tentativo di leadership socialdemocratica alla Provenzano, o movimentista, alla Schlein. Servirebbe riconoscere che dietro c’è il deserto che han creato questi decenni, e davanti quello che si trovano tutte le socialdemocrazie del mondo. Per dire che non è facile per nessuno, naturalmente, e che si fa in fretta a criticare, ma certo, se questo partito vuole avere un ruolo nel futuro del paese deve prendere sul serio il mandato che gli italiani gli hanno affidato – fare opposizione – e usarlo anche per rinascere, o per rinunciare una volta per tutte. Del resto, la storia che è stata appena scritta può servire da monito, ce ne fosse bisogno: arrivato appena a giugno con una strategia già scritta, cioè il campo largo coi 5 Stelle, in un quarto d’ora l’ha cancellata per l’intemperanza dei supposti alleati. Il piano b era un’alleanza coi moderati di Calenda, ma anche lì ha subito le decisioni di altri, Così, il campo largo è diventato un giardinetto di qualche metro quadro, e senza mai dare l’impressione che fosse il Pd a decidere la strada da percorrere. Piuttosto, tutto attorno altri decidevano per lui. Difficilmente chi non decide convince altri ad affidargli le sue sorti. E infatti.

A ben guardare, del resto, l’importanza di decidere è stato proprio il punto di forza di un ex alleato che sembrava morto, e che invece – date le premesse – se la passa piuttosto bene. I 5 Stelle di Conte hanno individuato, coltivato e cavalcato uno spazio politico e sociale preciso. Opportunistico e incredibilmente trasformistico, per altro in coerenza con la loro storia nella legislatura che si chiude, eppure efficace nel consolidare consenso e fiducia in pezzi precisi di società italiana, su parole d’ordine precise. È così dunque, che uno sconosciuto avvocato catapultato a Palazzo Chigi appena cinque anni fa per guidare un governo che aveva in Salvini il vero gestore politico, si trova cinque anni dopo a essere eroe della sinistra, facendo leva sul simbolo – molto di più che sulla sostanza – di quel reddito di cittadinanza che fece approvare proprio dalla maggioranza formata coi leghisti, mentre la sinistra faceva opposizione parlamentare durissima, meno di un anno prima di trovarsi al governo con lui, a fronteggiare una pandemia.  Cosa resterà di questa storia è difficile a dirsi, oggettivamente, attraverso quali volute passerà ancora il Movimento, e quali futuri lo aspettano in questa legislatura è misterioso. Ma certo, il solo fatto di esistere, e di poter contare su una ridotta parlamentare significativa, restituisce l’immagine precisa di un intuito politico innegabile, e di una connessione con pezzi di società del meridione d’Italia che aspettavano solo di essere rappresentati, e hanno trovato referenti stabili come non capitava dai tempi della Democrazia Cristiana.

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Un posticino nella società lo ha trovato anche il terzo polo di Carlo Calenda e Matteo Renzi. Solo la sostanziale irrilevanza della loro truppa parlamentare, unità alle poco avvedute affermazioni di chi sosteneva che sotto il 10% si sarebbe trattato di un fallimento, porteranno a considerare il 7% abbondante come un insuccesso. Non lo è, in realtà, come sa chiunque osservi i risultati di chi, dal 1994 in poi, ha provato ad avventurarsi fuori dai poli alle elezioni politiche. Non è una sconfitta prendere questi voti, è velleitarismo pensare di poter prendere di più. Certo, resta che il quasi 8% conquistato in solitaria e senza una strategia di alleanza serve a poco o niente, se non a garantire a un piccolo gruppo di generali senza truppe di tornare in parlamento. Certo, stride questo piccolo risultato con la grancassa mediatica che ha accompagnato l’operazione, o con l’impolitica convinzione che l’apprezzamento registrato nei sondaggi da Draghi diventasse consenso per la strana coppia formatasi sull’asse Parioli-Pontassieve. Ma è un altro discorso, che riguarda soprattutto chi fa il mestiere del giornalista, e non quello del politico. Comunque sia, la scommessa, per contare qualcosa, è che tutto vada molto male, e Matteo Renzi possa tornare a giocare le partite che legge con più successo: quelle tattiche e spregiudicate nel ventre del palazzo. Non sarà facile che accada, non nel breve: e comunque molto, quasi tutto, dipende da chi deciderà di essere Giorgia Meloni.

Già, torniamo a lei, come ovvio, in questo momento. È lei che ha in mano il pallino, il mazzo delle carte. È lei che deve decidere se seppellire o comunque ibernare a tempo indeterminato la leadership estremista e sguaiata degli inizi, ma anche quella urlante e populista di pochi mesi. È lei che deve decidere se crede davvero alle parole pacate pronunciate nelle ultime settimane, o anche dal palco del suo comitato elettorale poche ore fa, riconoscendo la vittoria e calcando però la mano sul bisogno storico di collaborazione e pacificazione, in uno dei momenti più bui degli ultimi decenni. È lei che deve mostrare il suo vero volto nel campo delle scelte economiche, della formazione del governo, dei grandi ideali civici e sociali, dei diritti civili, e di molte altre cose. È lei, in definitiva, che può decidere se fare la fine di Salvini, o fondare davvero una destra conservatrice stabile, affidabile  e davvero democratica, nel nostro paese. Chiunque vuole bene all’Italia, non può che augurarselo.

Immagine in anteprima via ANSA

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