Elezione diretta del premier: la traballante riforma costituzionale annunciata dal governo Meloni
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Per commentare la proposta di riforma costituzionale è necessario partire dalle dichiarazioni rese da Giorgia Meloni nella conferenza stampa successiva al Consiglio dei ministri che ne ha deliberato il testo.
La riforma, ha detto Meloni, “introduce l'elezione diretta” del presidente del Consiglio, il cui incarico è fissato in cinque anni. Essa garantirebbe “due grandi obiettivi”: da un lato, “il diritto dei cittadini a decidere da chi farsi governare, mettendo sostanzialmente fine alla stagione dei ribaltoni, alla stagione dei giochi di palazzo, alla stagione del trasformismo, delle maggioranze arcobaleno e dei governi tecnici”; dall’altro lato, la “stabilità del governo”, perché “chi viene scelto dal popolo” avrà “cinque anni per realizzare il proprio progetto”. Inoltre, secondo Meloni, sarebbero preservate “al massimo grado le prerogative del Presidente della Repubblica”.
Può essere utile fare una valutazione preventiva dei punti salienti della riforma, per accertare non solo la fondatezza di quanto detto dalla presidente del Consiglio, ma anche l’impatto che potrà avere nel nostro ordinamento.
Una premessa. Nella conferenza stampa, Meloni ha contrapposto i “nove Presidenti del Consiglio con dodici governi diversi”, che si sono avuti in Italia tra il 2002 e il 2022, con i “quattro Presidenti della Repubblica” che invece ci sono stati in Francia e i “tre Cancellieri” della Germania. Ciò evidentemente al fine di rimarcare la validità del sistema istituzionale dei due paesi citati. Ma la proposta di intervento costituzionale non si rifà né al sistema francese né a quello tedesco.
Di cosa parliamo nell'articolo
“Il diritto dei cittadini a decidere da chi farsi governare”
Non è del tutto vero che i cittadini scelgono chi sarà presidente del Consiglio per i cinque anni successivi al voto. Il candidato vincitore dovrà governare, pena lo scioglimento delle Camere, ma non è corretto dedurne che rimarrà in carica per l’intera legislatura. La sua sostituzione potrebbe anche avvenire dopo poco tempo. Infatti, la riforma prevede che, in caso di dimissioni, impedimento o sfiducia delle Camere, il presidente del Consiglio in carica “possa essere sostituito solo da un parlamentare della maggioranza e solo al fine di proseguire nell’attuazione del medesimo programma di governo”, come afferma il comunicato stampa successivo al Consiglio dei ministri. È il cosiddetto meccanismo “antiribaltone”.
In altre parole, la volontà degli elettori viene rispettata solo al momento del voto. Poi sulla loro scelta potrà prevalere quella del Parlamento. Infatti, i partiti di maggioranza – attraverso accordi al loro interno - potrebbero sfiduciare il presidente del Consiglio eletto dai cittadini in qualunque momento, qualora reputassero che egli non stia realizzando i loro “desiderata” o anche solo perché decidono che, per qualunque motivo, vada sostituito con un premier più gradito.
Bisognerebbe essere chiari con gli elettori circa l’effettivo valore del loro voto. Perché il tentativo di riportarli alle urne presentando come caposaldo della riforma il loro potere di decidere chi sarà al governo per i successivi cinque anni, mentre questo può non essere vero, potrebbe essere percepito come un inganno. Ciò amplificherebbe la disaffezione per il voto, già consistente da diversi anni: i cittadini disertano le elezioni sentendo di non contare nulla, poiché i governi si fanno e si disfano al di sopra della loro volontà. Questa riforma rischia non solo di riprodurre, ma addirittura di rafforzare il medesimo sentimento. Più del voto espresso alle elezioni, infatti, conterebbero le manovre di palazzo ordite per far cadere il premier eletto.
“Il presidente del Consiglio eletto a suffragio universale”
Nel comunicato stampa di presentazione della riforma, si dice che essa “introduce un meccanismo di legittimazione democratica diretta del presidente del Consiglio dei ministri, eletto a suffragio universale con apposita votazione popolare”. Sebbene la legittimazione popolare dovrebbe teoricamente rafforzarne la posizione, nei fatti così non è. Infatti, l’elezione del premier in via diretta si innesta in una forma di governo - la nostra - che rimane parlamentare, e di conseguenza si genera un sistema ibrido che continua a fondarsi sulla fiducia parlamentare. Per questo motivo, il presidente del Consiglio potrà essere sostituito da un parlamentare individuato dalla maggioranza attraverso un accordo al suo interno, come detto. Insomma, il premier è votato dalla gente, ma non per questo gode di maggiore solidità, e quindi non è più solido nemmeno il suo governo, benché Meloni affermi l’opposto. Non c’è maggiore stabilità anche perché il presidente del Consiglio non avrà più poteri di quanti ne abbia oggi: ad esempio, quello di revocare i suoi ministri - che non può nemmeno nominare, dovendoli solo indicare al Presidente della Repubblica, il quale poi procede alla nomina - o di proporre lo scioglimento delle Camere.
A ciò si aggiunga che, pur essendo il presidente del Consiglio eletto direttamente dai cittadini, il sistema ibrido di cui si è detto comporta che egli debba comunque presentarsi insieme al suo governo in Parlamento, per ottenerne la fiducia. Per un verso, ciò rappresenta una sorta di doppione, e comunque dimostra che la legittimazione ottenuta dai cittadini stessi evidentemente non è sufficiente. Basti pensare che invece i sindaci, una volta eletti direttamente alle urne, non necessitano di ulteriori riconoscimenti per iniziare a operare. Per altro verso, si dubita che il Parlamento negherà la fiducia a un presidente del Consiglio eletto dal popolo, per cui la fiducia stessa si tradurrà nella mera attestazione dei risultati delle urne.
Se invece la fiducia gli fosse davvero rifiutata dalle Camere - la realtà a volte supera la fantasia, non può non tenersene conto - ciò concreterebbe l’ennesima incongruenza del sistema delineato dalla proposta: pur essendo stato eletto dai cittadini, il presidente del Consiglio non potrebbe entrare in carica. Il presidente della Repubblica dovrebbe rinnovargli il mandato ma, in caso di nuovo diniego della fiducia, sarebbe tenuto a sciogliere le Camere.
Un ultimo paradosso. Il premier uscito vincitore dalle urne, che secondo gli autori della riforma dovrebbe essere più forte godendo della legittimazione popolare, di fatto avrà una forza minore di quello che potrebbe subentrargli. Il primo, infatti, può trovarsi in balia dei ricatti della maggioranza da cui è tenuto in vita, senza la possibilità di controllarla attraverso la minaccia dello scioglimento delle Camere. Per il suo sostituto, invece, il rapporto di forza sarebbe del tutto capovolto: se cadesse lui, si scioglierebbe il Parlamento e si tornerebbe al voto, date le rigidità previste dal nuovo meccanismo costituzionale.
Le competenze del presidente della Repubblica
«Abbiamo deciso di non toccare le competenze del Presidente della Repubblica» - ha detto Meloni - «salvo ovviamente per quello che riguarda l'incarico che si dà rispetto a un presidente del Consiglio che in questo caso viene eletto direttamente dai cittadini». Anche su questo punto le cose non stanno esattamente così.
Va innanzitutto detto che un capo dello Stato eletto dal Parlamento è inevitabilmente meno forte di un presidente del Consiglio eletto direttamente dai cittadini. Nelle dinamiche tra le due figure, questo elemento di disequilibrio non potrà non contare.
Il Quirinale avrà il potere di “conferire l’incarico” al premier votato dai cittadini, e non più di nominarlo, com’è attualmente. Non si tratta di una modifica solo semantica. Infatti, tale conferimento si sostanzierà nella mera presa d’atto del risultato elettorale, a differenza del sistema attuale, che invece calibra la discrezionalità del presidente della Repubblica in base all’esito del voto. La discrezionalità del Colle oggi si espande in caso di esiti non del tutto chiari, cioè che possano portare a diverse soluzioni, come ad esempio per la nomina di Giuseppe Conte all’epoca del suo primo governo; mentre è assolutamente limitata ove il risultato delle votazioni sia netto, come per la nomina di Giorgia Meloni, il cui partito era indiscutibilmente il vincitore uscito dalle urne.
Occorre, poi, considerare che la discrezionalità del Capo dello Stato attualmente viene esercitata anche al momento della nomina del presidente del Consiglio in corso di legislatura, e sotto questo profilo le sue prerogative risulteranno ridotte dopo la riforma. Infatti, la scelta del premier successivo al primo sarà vincolata, dovendosi trattare necessariamente di un parlamentare della maggioranza. E sarà esclusa la possibilità di governi “tecnici”. Dunque, i poteri del Quirinale nella gestione delle crisi di governo risulteranno compressi, poiché il percorso che egli dovrà seguire è tracciato dagli automatismi previsti dal nuovo testo costituzionale.
Il potere di scioglimento delle Camere resta al presidente della Repubblica, ma viene ristretto alle ipotesi rigorosamente indicate dal nuovo testo costituzionale. Il venire meno del sostituto del presidente del Consiglio eletto, infatti, “determina lo scioglimento delle Camere”, e si torna al voto.
Infine, il Quirinale non potrà più nominare senatori a vita. Giorgia Meloni ha affermato che la cancellazione di queste figure dipende dal fatto che, dopo il taglio del numero dei parlamentari, “l'incidenza dei senatori a vita è molto aumentata rispetto al numero dei parlamentari che oggi c'è”. In passato, il voto di tali categorie di senatori ha per certi versi salvato alcuni governi. Di fatto, la loro eliminazione oggi comporta anche l’eliminazione di un potere del presidente della Repubblica.
La fine della “stagione dei ribaltoni”
Il meccanismo “antiribaltone” – in base a cui, se viene meno il premier eletto direttamente dai cittadini, il mandato a formare un nuovo governo è affidato a un parlamentare a lui collegato, che ne realizzi il programma di governo - potrebbe esasperare la competizione interna tra i leader dei partiti che compongono la maggioranza. Quelli non eletti potrebbero accordarsi per far cadere il premier uscito vincitore alle urne e sostituirlo. Pertanto, nel mentre si afferma di voler rafforzare la governabilità, attraverso la stabilità, con la scelta del premier da parte dei cittadini, si consente che egli sia ribaltato in Parlamento. Un vero e proprio paradosso.
Inoltre, l’impegno ad attuare il (“solo”) programma politico del premier eletto, uno dei paletti per colui che potrà sostituirlo, si presenta di fatto come molto evanescente e opaco. Prima di tutto, va detto che lo stesso governo Meloni non sta attuando ciò che aveva indicato nel proprio programma, a partire dall’elezione diretta del Presidente della Repubblica (vedi punto 3. dell’Accordo quadro di programma per un Governo di centrodestra). In altre parole, proprio il governo che vuole rendere vincolante il programma iniziale per tutti e cinque gli anni della legislatura non si attiene al proprio programma. In secondo luogo, a fronte di urgenze contingenti e di istanze politiche che emergono a fronte di una realtà in trasformazione, non sembra una buona idea ingessare l’azione del governo a scapito delle esigenze concrete dei cittadini. Non sono chiari, inoltre, gli effetti di una simile limitazione. Laddove, ad esempio, il Governo adottasse un provvedimento in senso difforme dal programma elettorale o su un tema non incluso nello stesso, e ciò avvenisse d’intesa con il Parlamento, si dubita che la Corte Costituzionale possa censurare tale provvedimento. L’attuazione del programma, infatti, attiene al piano politico, a cui è estranea la valutazione della Corte.
La maggioranza che sosterrà il secondo premier potrebbe essere diversa da quella di cui il primo è espressione. La riforma, infatti, pone solo i vincoli che debba trattarsi di un parlamentare eletto con la maggioranza e che ne attui il programma. Anche per questo si reputa l’intervento sulla Costituzione non intacchi l’art. 67, cioè la libertà di mandato.
Conclusioni: a chi giova questa riforma?
Si potrebbe ancora parlare del premio, assegnato su base nazionale, che assicuri al partito o alla coalizione di partiti collegati al Presidente del Consiglio il 55% dei seggi parlamentari, in modo da assicurare la governabilità. Senza la fissazione di una soglia minima, chi ottenesse una percentuale anche non elevata dei consensi, ma comunque superiore a quella dei suoi concorrenti, acquisterebbe un peso rilevante in Parlamento grazie al premio previsto, in spregio al principio democratico di rappresentatività del Parlamento stesso. Nel 2014 il Porcellum fu annullato dalla Corte Costituzionale proprio per questo motivo. Come chiarito dalla Corte (sentenza 1146/1988), “la Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali”.
Si potrebbe inoltre parlare del Parlamento, che diviene ancora più irrilevante di quanto già non sia. Da anni, infatti, il ruolo normativo del governo si espande a discapito delle Camere, per l’abuso della decretazione d’urgenza e dei voti di fiducia, tenendo queste ultime per lo più impegnate nella conversione dei decreti-legge del governo. Il cosiddetto monocameralismo alternato, inoltre, testimonia un mal funzionamento dell’organo titolare del potere legislativo. La riforma non solo non incide su tutto questo, ma rende pressoché irrilevante il Parlamento anche in caso di crisi di governo.
Dunque, se il presidente del Consiglio eletto dal popolo non è più forte, nonostante l’investitura popolare, se il presidente della Repubblica svolge un ruolo assimilabile a quello di un notaio, se il Parlamento risulta ancor più depotenziato rispetto a quanto già non sia e se i cittadini possono vedere ribaltata la volontà espressa al voto, a chi giova questa riforma costituzionale?
Immagine in anteprima: frame video Palazzo Chigi via YouTube