Ecuador, la più grande organizzazione indigena del paese si mobilita e fa tremare il governo
7 min letturaAggiornamento 1 luglio 2022: Il governo dell'Ecuador e i gruppi indigeni hanno firmato un accordo per porre fine a 18 giorni di proteste contro l'aumento dei prezzi di cibo e carburante. L'accordo – siglato dal Ministro del Governo e della Gestione delle Politiche Francisco Jimenez, dal leader del CONAIE Leonidas Iza e da Monsignor Luis Cabrera, capo della Conferenza Episcopale in Ecuador, tra i negoziatori che hanno portato alla mediazione – prevede la riduzione dei prezzi della benzina e del gasolio, fissa limiti all'espansione delle aree di esplorazione petrolifera e vieta l'estrazione in aree protette, parchi nazionali e fonti d'acqua. L'accordo prevede, inoltre, che il governo abbia 90 giorni per fornire soluzioni alle richieste dei gruppi indigeni.
"Solo la lotta ci ha permesso di garantire i diritti!", ha twittato il CONAIE. "Abbiamo... ottenuto misure per migliorare la situazione economica, la salute e l'istruzione delle famiglie rurali e urbane vulnerabili".
Sono già passate quasi due settimane dall’inizio delle proteste e in Ecuador si mantiene ancora viva la mobilitazione nazionale. La chiamata allo sciopero, con una piattaforma di dieci punti rivendicativi, è arrivata lo scorso 13 giugno dalla Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador (CONAIE), la più grande organizzazione indigena del paese.
“Non stiamo manifestando per accedere a un tavolo di dialogo con il governo, questo l’abbiamo già fatto, ora il governo deve dare una risposta pubblica ai reclami che abbiamo presentato già da un anno”, aveva chiarito all’inizio di questa protesta - che dal primo giorno non ha fatto che estendersi e crescere di intensità - il presidente e portavoce, Leonidas Iza Salazár.
Tra le richieste, al primo posto c’è il blocco del prezzo della benzina, che è quasi raddoppiato (nel caso del diesel) dal 2020 e che era una rivendicazione della CONAIE già nell’ottobre dell'anno scorso. Altrettanto importante è la richiesta di una moratoria per i debiti bancari e finanziari delle famiglie e delle cooperative, che si sono aggravati con la pandemia della COVID-19. Si esigono inoltre il controllo dei prezzi dei beni di prima necessità, politiche destinate alla creazione di posti di lavoro, fondi per l’educazione e la salute. Si chiede che le attività minerarie e petrolifere non invadano i territori indigeni, e un’agenda governativa che non privatizzi i servizi strategici dello Stato.
La mobilitazione, convocata a tempo indefinito, inizialmente era stata pianificata su scala nazionale e organizzata a livello territoriale, con blocchi stradali in diversi punti del paese. L’arresto arbitrario del dirigente indigeno Iza, all’alba del 14 giugno, ha però avuto l’effetto di radicalizzare e far crescere la protesta. Rilasciato due giorni dopo, Iza ha poi subìto un attentato il 18 giugno, ma niente di tutto ciò ha fermato il fiume di migliaia di persone che, dai diversi territori, avevano ormai cominciato a marciare a piedi o con i camion in carovana per riversarsi nella capitale Quito proprio nei giorni precedenti al solstizio d’estate, la festa di Inti Raymi nel calendario andino.
La prima risposta del governo di Guillermo Lasso, che nel suo primo anno di mandato è tornato ad applicare in Ecuador la classica ricetta neoliberista dettata dal Fondo Monetario Internazionale, è stata la repressione. Le forze di polizia hanno già ucciso 5 persone, 166 sono risultate ferite e 108 sono state arrestate secondo il registro dell’Alianza por los Derechos Humanos. Venerdì 17, il presidente ha proposto alcune misure economiche che si avvicinano alle richieste della CONAIE, ma allo stesso tempo nelle sei regioni più colpite dalle proteste ha decretato lo Stato d’Eccezione che proibisce raduni e manifestazioni, stabilisce il coprifuoco e permette all’esercito di intervenire nelle piazze insieme alla polizia.
La dirigenza indigena che guida la mobilitazione ha però considerato insufficienti le promesse di Lasso, invitando a mantenere paralizzate le principali arterie del paese con una dimostrazione di forza che sta mettendo in seria difficoltà il governo.
Nel frattempo, domenica 19, a Quito, la polizia ha sgomberato la Casa della Cultura, accanto al parco El Arbolito che sta ospitando le principali manifestazioni urbane, e vi ha installato il proprio centro operativo, cosa che non succedeva dalla dittatura militare negli anni Sessanta. “Non permetteremo che diventi uno spazio dove si può dispiegare la repressione e la violenza statale verso la cittadinanza che sta reclamando pacificamente i suoi diritti”, ha dichiarato Fernando Cerón, presidente della Casa della Cultura, di fronte a questa occupazione. Quattro giorni dopo, il 23 giugno, Quito si è svegliata con una colonna di manifestanti che entrava nel centro culturale riprendendone possesso. Capitanato da un gruppo di donne, il corteo si è poi diretto all’Assemblea Nazionale, il palazzo del parlamento, dove è stato infine disperso dalla repressione della polizia.
Nel suo ultimo comunicato, la CONAIE esige la fine dello Stato d’Eccezione come premessa per intavolare un dialogo e riafferma che l’obiettivo resta il riconoscimento dei 10 punti alla base della mobilitazione, nonostante gli slogan nelle strade invochino sempre più frequentemente la destituzione del presidente Lasso.
Il presidente, già con le spalle al muro, ha reagito il 24 giugno con un discorso alla nazione in cui ha cercato di screditare Leonidas Iza: “È chiaro che non ha mai voluto negoziare un’agenda a beneficio dei popoli e delle nazionalità indigene. L’unica cosa che cercava era ingannare la sua base e usurpare il governo”. A Iza ha attribuito anche la perdita del controllo sulla mobilitazione, è ricorso alla solita narrativa degli infiltrati violenti e criminali per giustificare la decisione di usare tutti gli strumenti repressivi a sua disposizione contro i manifestanti.
Il dirigente indigeno Leonidas Iza, che negli ultimi mesi si è sottratto al dibattito pubblico, si è dedicato a visitare le comunità di tutto il paese: i dieci punti emersi, oggi impugnati dalla componente più povera della società ecuadoriana, non fanno parte di una piattaforma ideologica, ma sono piuttosto le garanzie minime per una vita dignitosa in un contesto di crisi economia esacerbata.
In Ecuador solo 3 persone su 10 hanno accesso a un salario minimo, il 32% vive con meno di 2,8 dollari al giorno e la pandemia ha aumentato i livelli di povertà, aggravando una crisi economica già avviata dal precedente governo di Lenin Moreno.
Dopo la vittoria al ballottaggio nelle presidenziali dell’aprile 2021, il conservatore Lasso ha mantenuto il consenso dell’elettorato per qualche tempo con una grande campagna di vaccinazione contro il nuovo coronavirus, ma ha mostrato presto i limiti del suo governo di fronte ai problemi che attanagliano l’Ecuador già da prima che si sollevasse la CONAIE.
La crisi carceraria, che ha prodotto oltre 300 vittime negli ultimi 15 mesi, è specchio di un’impennata della violenza, che ha visto duplicare il tasso di omicidi negli ultimi sei anni, con frequenti sequestri ed esecuzioni ricondotti a sicari e reti di narcotraffico.
In questa cornice si colloca il pacchetto di riforme promosso dal presidente Lasso, impresario e membro dell’Opus Dei, principale azionista della Banca di Guayaquil, seconda istituzione finanziaria del paese. Nei suoi progetti di legge sono previsti tagli alla spesa pubblica, privatizzazioni di settori come le telecomunicazioni e l’energia, incentivi agli investimenti stranieri, riduzione dei diritti sul lavoro e ampliamento delle attività di estrazione mineraria e petrolifera.
A dare il colpo di grazia alla credibilità del presidente, è intervenuta poi lo scorso 3 ottobre la pubblicazione dei Pandora Papers, dove Lasso figura fra i 300 politici e funzionari pubblici di 90 Paesi che possiedono compagnie e conti correnti in paradisi fiscali.
Infine, il partito politico Pachakutik – che al primo turno delle presidenziali aveva ottenuto un buon risultato con il candidato Yaku Pérez – in questi mesi si è in parte avvicinato alla destra di Lasso, mostrando alcune ambiguità. Si tratta del braccio politico elettorale creato dalla CONAIE, che però - come movimento indigeno con 36 anni di storia alle spalle - ha saputo riorganizzarsi sul versante extra istituzionale. La leadership di Leonidas Iza è emersa durante la rivolta del 2019. Poi, come presidente della CONAIE da metà del 2021 ha ripreso i contatti con diverse organizzazioni contadine, studentesche, sindacali con un orizzonte comune di mobilitazione.
“In un paese sostanzialmente agricolo, in cui tutto si sposta su poche grandi arterie di collegamento, il movimento indigeno è riuscito in 24 ore a bloccare le principali strade. Ci sono già supermercati in cui non arrivano certi prodotti, ci sono perdite milionarie”, spiega a Valigia Blu Daniele Benzi, docente di Relazioni Internazionali all'Instituto de Altos Estudios Nacionales di Quito. Questa è la grande forza che sta spingendo il governo a cercare una mediazione. Se nel 2019 erano stati occupati anche i pozzi petroliferi, questa volta è stato mobilitato l’esercito a proteggerli, “ma la maggior parte è stata comunque paralizzata dall’esterno”, sottolinea Benzi, mentre Quito ha convocato tra le 15 e le 20mila persone e la capitale “è stata invasa dall’altro Ecuador, quello contadino, indigeno e normalmente invisibile alla città”.
Rispetto alla rivolta del 2019 ci sono alcune importanti differenze, sia nel contesto politico che nell’estensione e nelle caratteristiche delle proteste, ma allo stesso tempo è inevitabile percepire la stessa agitazione sociale. Tra gli elementi più evidenti di questo nuovo ciclo di protesta c’è il crescente protagonismo delle donne.
In una società fortemente patriarcale, il movimento femminista ecuadoriano, soprattutto urbano e formato dalla classe media, ha portato avanti importanti rivendicazioni, e adesso sono le donne indigene che occupano la testa delle manifestazioni in Ecuador.
“Se mancano i prodotti nei centri commerciali e nei supermercati è perché noi contadini ‘pigri’ che ci svegliamo alle 4 del mattino siamo qui a ribellarci, e se non torniamo nelle campagne con un risultato qui la gente non mangia”, grida al microfono Nayra Chalán, vicepresidente della Ecuarunari, una delle organizzazioni che compongono la CONAIE.
Era il 23 giugno, dopo 11 giorni i manifestanti si dirigevano a riprendere possesso della Casa della Cultura e “questo corteo lo guidiamo noi donne!”, concludeva anticipando gli eventi della giornata che ha fatto scalare il livello della tensione e provocato la reazione del presidente, che ora affronterà anche una richiesta di destituzione formale da parte del Parlamento.
Immagine in anteprima: frame video DW