“Dote” ai 18enni: non facciamo parti uguali fra disuguali
7 min letturaOgni volta che ti trovi in autobus o in treno al mattino, e ti scontri con dei gruppi di ragazzini delle scuole medie che salgono in fretta con i loro zaini e i loro cellulari all’ultima moda, le cuffie piene di musica e le magliette corte, pensa che statisticamente uno su otto di loro proviene da famiglie con un reddito insufficiente a coprire le loro necessità di base. Si chiamano working poors, mentre si definiscono low-wage poors i lavoratori che percepiscono un reddito inferiore al 60% del reddito disponibile mediano nazionale. Mediano, non medio, cioè il reddito più frequente. Nel 2019, riporta Disuguitalia 2022 di Oxfam, l’11,8% dei lavoratori italiani era a rischio di povertà, Tra i dipendenti part-time, come le mamme single in più occasioni, la povertà raggiunge il picco del 19,4%.
Le statistiche mentono. Così come mentono i trend dei social media. Mentono i video virali di Tiktok che ci parlano di giovanissimi tutti ricchi di competenze e di attenzione verso i problemi globali, e rapidi nel cambiare le cose; mentono i profili blasonati di Instagram che tendono a uniformare le generazioni.
I diciottenni non sono tutti uguali. Forse la grossa parte ha i medesimi gusti, più o meno indotti, quanto a vestiti o musica, e segue gli stessi miti, come è sempre stato. Ma sicuramente quanto a reali opportunità non è così. I periodi all’estero costano. Per due settimane di soggiorno si parla di circa 2.000 euro per viaggio, alloggio e tutto ciò che ruota intorno all’esperienza. Costano i campi estivi formativi, costano i corsi di lingue. E costano anche le care e vecchie ripetizioni.
Il 22 luglio 2022 la Banca d’Italia ha pubblicato l’Indagine sui bilanci delle famiglie italiane. Nel complesso, il 30% delle famiglie italiane ha un reddito familiare medio di 13mila euro, il 60% inferiore a 30mila euro, a fronte di un 13% di famiglie con più di 55mila euro di reddito e, tra queste, quasi un 4% con redditi superiori a 150 mila euro. In altre parole oltre il nono decile (il decimo decile sono i ricchissimi) si spartisce il 33,7% della ricchezza delle famiglie. Fra i dipendenti, una famiglia operaia ha un reddito di poco più di 29 mila euro lordi annui, una famiglia di impiegati 39 mila euro e una famiglia di dirigenti 86 mila euro. Il reddito pro capite di una famiglia operaia è di 12.985 euro, quello di una famiglia impiegatizia è di quasi 20 mila euro e quello di una famiglia molto benestante supera i 35 mila euro.
C’è a chi una “dote” - come l'ha chiamata il segretario del Partito Democratico Enrico Letta che ha proposto di dare una somma ai 18enni in base all'ISEE, aumentando la tassa di successione per i patrimoni oltre i 5 milioni di euro - potrebbe fare la differenza. Il punto è individuare i ragazzi più svantaggiati, assumendo un criterio realistico che sia davvero di aiuto a chi ha minori opportunità, riducendo o eliminando i gap di reddito sistemici.
Il lavoro esecutivo. Insomma, gli operai
Se sullo stesso autobus sale un gruppo di liceali, uno su 8 proviene da famiglie che lavorano “nell’esecutivo”; se sale un gruppo di otto studenti di liceo classico, statisticamente nessuno avrà genitori operai.
Una volta si parlava di “operai” per indicare la comunanza di condizione professionale, di istruzione e di reddito. Erano gli anni in cui un pioniere dell’istruzione come Don Lorenzo Milani scrisse nero su bianco: “Non c'è nulla che sia ingiusto quanto far le parti eguali fra disuguali”. Oggi si parla poco di “operai” usando proprio questo termine, anche se sono moltissimi. Nel 2019 INPS li ha contati: 8,7 milioni di lavoratori, il 55% della forza lavoro privata dipendente, contro il 36,6% degli impiegati, il 3,8% degli apprendisti, il 3% dei quadri e lo 0,8% dei dirigenti. Sono dati pre-pandemici, ma ci danno un ordine di grandezza. Certamente non se ne parla quasi più negli articoli di giornale, in particolare riguardo a che cosa significa oggi per un ragazzino crescere in un contesto operaio.
La “coscienza di classe” oggi è presente solo nelle fasce dell’alta dirigenza, più omogenee nei redditi e nelle opportunità da dare ai figli. Alla base della piramide la situazione è più confusa. Oggi nel mare dei “lavoratori atipici” troviamo laureati e persone senza diploma. Gli operai assunti da grandi aziende possono usufruire per esempio di sistemi di welfare che permettono loro di stare mediamente “meglio” quanto a benefit e premi di produzione, rispetto a “impiegati” con contratti di lavoro atipico.
Non sono dunque “gli operai” a essere i poveri, ma sicuramente la probabilità di incontrare un working poor fra la classe del lavoro esecutivo è molto maggiore rispetto a incontrarlo nella classe elevata.
Come fare quindi per intercettare i gap di classe? Interessante è il modo di misurare di Almalaurea e Almadiploma, che raccolgono moltissimi dati sui diplomati e i laureati, distinguendo quasi per tutti gli indicatori i risultati a seconda della classe sociale delle famiglie e del titolo di studio dei genitori. Si parla di Classe del lavoro esecutivo (operai, subalterni e assimilati e impiegati esecutivi), Classe media autonoma (lavoratori in proprio, coadiuvanti familiari, soci di cooperative, imprenditori con meno di 15 dipendenti), Classe media impiegatizia (impiegati con mansioni di coordinamento, direttivi o quadri, intermedi, insegnanti esclusi i professori universitari) e infine di Classe elevata (liberi professionisti, dirigenti, imprenditori con almeno 15 dipendenti).
La classe operaia va al professionale
Anche oggi dobbiamo stare attenti a non fare parti uguali fra disuguali. I diciottenni che scelgono i blasonati Licei Europei e Internazionali sono lo 0,5%, cioè uno su 200 ragazzi, e provengono da famiglie benestanti o comunque con genitori laureati (dati Almadiploma 2021).Lo stesso liceo classico è ancora una scelta di classe. Il 9,6% dei diplomati è figlio di operai, la metà è figlio di dirigenti e il 27% di quadri o direttivi.
Il gap è ancora maggiore se consideriamo il titolo di studio dei genitori, al netto della professione. I figli di persone senza un diploma al liceo ci vanno pochissimo. E ricordiamoci che il 40% degli italiani maggiorenni oggi non ha il diploma.
Il tema non è che i ragazzi debbano scegliere più i licei e meno i professionali. Quello che ci deve interessare è che oggi come ieri i bambini e i ragazzini che provengono da famiglie svantaggiate a livello economico ottengono titoli di studio più bassi, hanno risultati peggiori in termini di apprendimento e hanno meno probabilità di migliorare la propria condizione rispetto a quella dei loro genitori.. Su questo la statistica, come media, non mente. Coloro che pur essendo nati in contesti meno agiati tenacemente studiano, per iscriversi all’università per intraprendere una carriera professionale, magari provenendo dalle periferie lontane dai centri universitari – quello che un’espressione infelice chiama ascensore sociale – fanno indubbiamente più fatica rispetto ai figli di persone con reddito medio-alto che vivono in centri urbani. Il 34% dei figli con genitori laureati ha frequentato almeno un soggiorno di studio all’estero durante le scuole superiori, più del doppio rispetto a chi non ha i genitori diplomati. Che chi frequenta i professionali abbia vissuto meno opportunità di studio all’estero è comprensibile se pensiamo alle offerte scolastiche. Il 25,6% dei diplomati del 2021 ha frequentato almeno un soggiorno di studio all’estero durante il corso di studio: il 17,6% partecipando a programmi di studio organizzati dalla scuola e l’8% su iniziativa personale, con un gap che va dal 31% dei diplomati liceali ai 9,9% dei diplomati professionali.
I numeri dell’abbandono scolastico
Nel febbraio 2021 il Consiglio Europeo ha fissato come obiettivo per il 2030 che i giovani europei tra 18 e 24 anni senza diploma superiore (o qualifica professionale) siano meno del 9%. In Italia siamo intorno al 13,5% del 2019, con percentuali vicine al 20% al Sud. Non sappiamo però esattamente quanti ragazzi perdiamo ogni anno. O meglio, non lo monitoriamo con costanza. L’ultima rilevazione MIUR, a nostra conoscenza, risale al passaggio tra il 2016/2017 e il 2017/2018. L’1,17% dei ragazzi ha abbandonato le medie, mentre il 3,8% non ha concluso un anno delle scuole superiori. I tassi sono molto più alti fra i professionali, con dal 7% al 9% di studenti che si ritira prima del diploma, in particolare al sud. Nei licei siamo sotto il 2% di abbandono scolastico. Il gap è chiaro: dove vi sono maggiori disuguaglianze nel reddito, con un elevato rischio di povertà e di deprivazione materiale il tasso di dispersione risulta alto. Più è elevato il tasso di occupazione, più è basso il tasso di abbandono scolastico.
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Differenze nei risultati sin dalle elementari
La letteratura scientifica – parliamo di grandi studi epidemiologici condotti negli ultimi 50 anni come quelli coordinati da Sir Michael Marmot nel Regno Unito – ha evidenziato che già in tenera età si genera un gap di competenze a seconda dei livelli di istruzione dei familiari. Tanti dati si trovano nel suo libro La Salute Disuguale. La sfida di un mondo ingiusto (Il Pensiero Scientifico, 2016). «Ai bambini di genitori professionisti vengono rivolte 30 milioni di parole in più rispetto ai loro coetanei appartenenti a famiglie in carico ai servizi sociali. Una differenza di 20 mila parole al giorno». I dati evidenziano che i bambini cresciuti in famiglie con deprivazione materiale presentano uno sviluppo peggiore rispetto ai coetanei di famiglie benestanti. Un altro studio – il Millennium Birth Cohort avviato nel 2000 - citato da Marmot ha mostrato che i bambini con migliore punteggio socio-emotivo in determinati test, erano quelli che provenivano da famiglie dove entrambi i genitori avevano un lavoro retribuito e vivevano nella stessa casa. In particolare, sembra siano le ragazze figlie di madri sole le più svantaggiate.
Le statistiche di Invalsi 2022 evidenziano che già a partire dalle scuole elementari, la percentuale di chi non raggiunge le competenze base richieste in italiano, matematica e inglese è molto maggiore fra chi proviene da famiglie svantaggiate economicamente. Invalsi usa un indicatore chiamato ESCS – Economic, Social and Cultural Status, che definisce lo status sociale, economico e culturale delle famiglie, comprendendo il reddito e il titolo di studio dei genitori. Fra le famiglie più benestanti gli allievi eccellenti sono il doppio rispetto ai figli di nuclei meno favoriti, e addirittura dieci volte di più rispetto a quelle di cui non si dispone delle informazioni circa il background di provenienza. Se si considera chi non arriva ad apprendere le conoscenze e le abilità ritenute indispensabili per la classe successiva, non raggiunge l’obiettivo il 12% dei ragazzi provenienti da famiglie svantaggiate e il 5% di chi cresce in contesti senza problemi di reddito.
La buona notizia è che gli studi di Marmot e colleghi ci dicono anche un’altra cosa: se si lavora sulla povertà per eliminare i gap di reddito, e quindi occupazionali, la perdita di sviluppo sembra venire ricalibrata. La povertà non è un destino, ma sicuramente è questione di sistema.
Immagine in anteprima via wired.it