Don’t Look Up: la catastrofe che non sappiamo guardare
7 min letturaA meno che non abbiate evitato i social network negli ultimi giorni, è probabile abbiate sentito i vostri contatti parlare del film Don’t Look Up, del regista Adam McKay. Interpretato, tra gli altri, da Leonardo DiCaprio, Jennifer Lawrence e Meryl Streep, il film immagina due astronomi (DiCaprio e Lawrence) scoprire una cometa “ammazzapianeti” in rotta di collisione verso la Terra. Ci sono sei mesi e mezzo a disposizione per salvare il pianeta, così i nostri eroi si mobilitano immediatamente per far arrivare la notizia alla Casa Bianca (da qui in poi seguiranno spoiler).
Potrebbe sembrare la trama dell’ennesimo film catastrofico: in fondo tanto quel genere di film quanto Don’t Look Up iniziano con un allarme lanciato da scienziati. Tuttavia, rispetto ai sicuri argini del cinema di genere, McKay ha piani diversi per i suoi personaggi e per lo spettatore. DiCaprio e Lawrence sono infatti risucchiati in un grottesco vortice, dentro il quale incontrano presidenti degli Stati Uniti troppo presi da sé e dalle elezioni di medio termine, giornalisti e testate più interessati all’engagement o ai tormenti amorosi delle pop-star di grido che a informare davvero il pubblico e, più avanti con la storia, un magnate della Silicon Valley un po’ troppo messianico e sociopatico per poter aiutare l’umanità.
Tanto perché la deviazione rispetto ai classici di genere sia evidente, il possibile finale alla Armageddon viene sventato verso metà film. La missione eroica verso lo spazio e contro la cometa è infatti forzata a una inversione a U - letteralmente - dal guru della Silicon Valley Peter Isherwell, principale finanziatore della presidente degli Stati Uniti. Isherwell ha scoperto che la cometa è una miniera di minerali preziosi, tra cui quelli utilizzati per costruire cellulari. Trilioni di dollari che non possono certo essere fatti saltare in aria: meglio invece mettere in atto il suo piano per trivellarla facendola esplodere in parti più piccole. Un piano elaborato e che può godere di una sofisticata presentazione, ma che tuttavia ha anche visto vari scienziati scettici sul progetto venire licenziati. L’altra metà del film è una cavalcata grottesca verso il più evitabile dei disastri, con il paese diviso tra i “look up” e “don’t look up”: coloro che vorrebbero si guardasse in faccia l’inevitabile disastro e coloro convinti che i primi siano solo dei tristi uccelli del malaugurio.
La cometa può certo essere intesa in chiave allegorica come un disastro inevitabile: il fato in assenza di Dèi, la condanna di un’umanità troppo impegnata a distrarsi, o che ha rinunciato a sopravvivere come specie. Poiché il film si aggancia in modo fortemente mimetico all’attualità, la cometa può sembrare un’allegoria debole, che richiama troppo facilmente alcune minacce del nostro presente, ed è davvero difficile slegarne l’interpretazione dall’attualità. Tuttavia possiamo anche guardare a questo aspetto come a uno stilema, e quindi esplorare il valore autonomo di questa immediatezza.
Sul Guardian, ad esempio, il climatologo Peter Kalmus scrive di essersi riconosciuto nel senso di isolamento e nel bisogno di urlare verità in faccia dei due scienziati del film:
Gli scienziati sono essenzialmente soli con la loro consapevolezza, ignorati dalla società, o costretti a subirne il gaslighting. Il panico e la disperazione che sentono riflette il panico e la disperazione che molti climatologi sentono.
Il film è influenzato, per ammissione dello stesso McKay, anche dalla pandemia, da come è stata recepita dal pubblico americano attraverso politica e media; in particolare l’idea diffusa anche dal presidente Trump che si possa iniettare candeggina per curare la covid-19. Qualcosa che in effetti uno sceneggiatore non reputerebbe funzionante come trovata narrativa, ma che invece ha trovato proseliti nella realtà.
Se quindi la cometa può sembrare un dispositivo narrativo grossolano, o gestito debolmente come allegoria (rispetto anche a film come Melancholia), occorre riconoscere che attraverso il disincanto qualunque dispositivo narrativo può risultare improbabile o assurdo (un gigantesco cavallo di legno ricolmo di soldati? Ma andiamo, possibile non lo abbiano ispezionato prima di farlo entrare in città?). Se vogliamo cercare un illustre predecessore di Don’t Look Up, visto che nell’aderire al presente si rivolge soprattutto a un pubblico americano od occidentale, possiamo trovare un modello in The Network di Sidney Lumet (in italiano Quinto potere). Lì la commistione tra dramma, satira, grottesco e verità urlate durante sbrocchi memorabili prendeva di mira la spettacolarizzazione del giornalismo, fino ad arrivare a un finale per fortuna assurdo anche per i nostri tempi, con il conduttore televisivo che diventa “il primo caso conosciuto di uomo che fu ucciso perché aveva bassi indici di ascolto”.
McKay ha un problema non indifferente rispetto a Lumet: dover parlare della catastrofe in arrivo mentre ci misuriamo già con i suoi effetti e i relativi dispositivi di negazione, siano essi cognitivi o derivanti da dinamiche di potere. Un po’ come fare un film sugli zombi mentre i morti iniziano già a tornare in vita, intanto che in tivù vanno in onda dibattiti tra zombisti e antizombisti (o semplici scettici). Ecco allora il gioco postmoderno imbastito attorno al genere catastrofico, allo scopo di prendere l’America per le spalle e scuoterla, lanciare un messaggio che è un duro colpo alla rappresentazione che solitamente gli Stati Uniti sono soliti dare attraverso la settima arte e il suo soft power. In Don’t Look Up da più parti qualcosa grida: non solo noi americani non siamo in grado di salvare il mondo, non sappiamo nemmeno come salvare noi stessi e, forse, abbiamo bisogno che qualcuno ci salvi da noi stessi. È un messaggio molto potente per il pubblico americano, ma è qualcosa che riguarda anche noi, la nostra fascinazione verso gli Stati Uniti, una certa influenza che riconosciamo a uno dei principali epicentri della “civiltà occidentale”.
Ci sono due personaggi chiave di questo messaggio, la rottura parodistica di modelli consolidati. Il primo è il colonnello Ben Drask, l’eroe classico che dovrebbe salvare la situazione. Nel film è un eroe inutile, che serve solo per la narrazione propagandistica con cui dare al pubblico - e quindi agli elettori - una storia edificante mentre si salva il pianeta con qualche mese di ritardo. Il colonnello Drask (un magnifico Ron Perlman) rappresenta una tradizione di valori con cui si è rotto ogni legame nel presente; non c’è un patto di contiguità tra vecchie e nuove generazioni. Mentre lo shuttle vola il colonnello si lancia in un monologo che, negli intenti, vorrebbe essere ispirante; negli esiti è invece infarcito di stereotipi razzisti e omofobi. A fine film, quando l’umanità è condannata e la cometa sta per schiantarsi, dal giardino di casa il colonnello spara contro il corpo celeste, come l’ultimo soldato del proprio plotone, in uno sfoggio di inutile patriottismo. Una scena che ricorda il finale del Dr Stranamore, col maggiore che cavalca la bomba: solo che lì il patriottismo esaltava le responsabilità nella fine del mondo, qui il senso di impotenza.
Il secondo personaggio è la presidente degli Stati Uniti Janie Orlean, interpretata da Meryl Streep. Col suo cappellino Don’t Look Up così simile a quelli indossati da Trump con lo slogan Make America Great Again, Orlean può sembrare a prima vista il più semplicistico dei cattivi. Ma un certo pensiero del tipo “ah, certo, i repubblicani scemi e cattivi, e dove sono i democratici?”, nasconde in realtà l’abilità della sceneggiatura e dei dettagli nel giocare con l’immediatezza del nostro campo visivo. Con gli automatismi delle nostre categorie interpretative, del nostro dividerci istintivamente per fazioni. Molti elementi del personaggio infatti - il vizio del fumo su tutti - rimandano a presidenti democratici del recente passato, come Obama, o a politici come Hilary Clinton. Orlean, insomma, rappresenta la politica americana come ceto allargato, e quindi come classe, senza fare sconti. E se i suoi archetipi di riferimento sono il padre severo (per i conservatori) o il genitore responsabile (per i progressisti), la presidente Orlean è un modello che sconfessa entrambi. È piuttosto un genitore narciso e vanitoso, così preso da sé che nel fuggire dal pianeta si ricorderà di aver lasciato a terra il figlio quando ormai è troppo tardi. Come popolo e come specie, di fronte alla catastrofe siamo orfani.
Un certo senso di impunità per cui delle élite ormai fuori dal raggio di azioni di qualunque controllo democratico ci sorridono vincenti mentre inscenano distrazioni di massa, è rappresentato da un tormentone che percorre tutto il film. Kate Dibiasky (Lawrence), mentre attende di parlare con la presidente ha fame. Un generale offre a lei e al suo seguito acqua e snack, non senza prima farsi rimborsare, visto che, dice, le ha prese dalle macchinette automatiche. Dibiasky scoprirà di lì a breve che in realtà cibo e acqua sono gratis, vengono da una sala vicina. Perché, si chiederà più volte, un generale dell’esercito ha fatto la cresta, ben sapendo che sarebbe stato sicuramente scoperto? La risposta che ci sentiamo di dare è: perché non renderà mai davvero conto di quel gesto. Nella sua carriera avrà preso chissà quali decisioni costate chissà quante vite innocenti, e nessuno l’ha mai rimosso dal suo incarico. Anzi, è probabile che proprio quelle decisioni abbiano favorito la carriera.
A un certo punto Dibiasky, attorno al fuoco con alcuni skater che si raccontano le varie teorie in voga sulla cometa e l'andazzo politico (tra cui una che si dimostrerà vera) dice che quelle élite non sono abbastanza intelligenti per essere i cattivi che immaginiamo. La frase è in parte vera e in parte falsa, e incarna l’assurdità del potere odierno. Perché in effetti, scopriamo nel film, è sempre esistito un piano B, che vede l’umanità sacrificata per garantire la sopravvivenza di pochi. Solo che quel piano vede sopravvivere solo persone anziane, probabilmente incapaci di garantire continuità alla specie. Inoltre saranno divorati di lì a poco, nonostante gli algoritmi a disposizione di Isherwell avrebbero potuto prevedere quell’esito. 20mila anni prima avevano infatti predetto che la presidente sarebbe stata uccisa da un “Bronteroc”, e quando una specie di variopinto struzzo alieno le divora la testa, la reazione di Isherwell è un serafico “ah, deve essere un Bronteroc”. Se la stupidità è complicazione, Don’t Look Up raffigura il potere come il massimo grado di stupidità raggiunto dall’uomo: invece di salvare l’umanità in pochi mesi, impiega oltre 20mila anni per estinguerla definitivamente. Non è un caso che il personaggio di DiCaprio, Randall Mindy, riesca alla fine a sconfessare la morte predetta dall’algoritmo, e trascorrere gli ultimi momenti circondato dai propri cari. È un momento molto doloroso, perché se c’è qualcosa che abbiamo imparato dalla pandemia è che, nei momenti finali, pur nell’impotenza di fronte alla morte che si avvicina, vorremmo stare vicino a chi amiamo, e purtroppo ciò talvolta non avviene.
Don’t Look Up ha vari limiti. Su tutti un arco narrativo che mette troppa carne al fuoco in 2 ore e mezzo. Forse avrebbe meritato un formato più ampio, come la miniserie, senza sacrificare molti elementi che avrebbero potuto essere approfonditi (la comunità scientifica, la contro-informazione, il rapporto di Dibiasky con la famiglia). Ma Don’t Look Up ha il merito di confezionare per il largo pubblico qualcosa che, a partire dall’attualità politica, ci interroga come specie, nel nostro aver dimenticato che la sopravvivenza collettiva è qualcosa che può essere in discussione, poiché non siamo affatto né il centro del mondo né dell’universo.