Per le donne l’accesso alla casa è più difficile
|
Caro affitti, mancanza di appartamenti, lunghe liste di attesa per gli alloggi popolari, aumento degli sfratti. Sono gli ingredienti dell’emergenza casa in Italia, che negli ultimi anni ha visto migliaia di famiglie finire in una situazione di precarietà abitativa, in particolare nelle grandi città. Le donne sono particolarmente colpite: il numero di donne che vivono sole è in crescita, soprattutto nella fascia over 65, e i dati mostrano che le loro spese sono decisamente più alte rispetto ai nuclei più numerosi. Parallelamente, le donne hanno salari e pensioni in media più bassi, il che ostacola il loro accesso alla casa, vista la difficoltà di pagare l’affitto o di ottenere un mutuo.
Il PNRR ha stanziato 2,8 miliardi di finanziamenti del PINQuA, il Programma Innovativo Nazionale per la Qualità dell’Abitare, per realizzare interventi di edilizia sociale e rigenerazione urbana in tutta Italia. Ma, nonostante la questione abitativa si interseca profondamente con la questione di genere, nel PNRR non sono forniti indicatori su chi debbano essere i beneficiari e le beneficiarie delle misure, e non è previsto nessun sostegno specifico alle donne. Nella Missione 2, hanno un ruolo di contrasto alle diseguaglianze di genere soprattutto le misure connesse all’edilizia residenziale pubblica, compresa l’estensione del superbonus 110% alle case popolari, posto che le donne sono le principali beneficiarie: la carenza abitativa si riflette differentemente su uomini e donne per via del differente ruolo familiare loro attribuito, e la maggior parte delle famiglie monoparentali sono affidate a donne.
“Il PNRR individua nella parità di genere una delle tre priorità trasversali perseguite in tutte le missioni”, afferma Giulia Sudano, presidente dell’associazione Period Think Tank, che il prossimo 6 ottobre organizzerà a Bari il convegno “Datipercontare: statistiche e indicatori di genere per un PNRR equo”, dove è previsto un tavolo di lavoro specifico su PNRR, donne e casa. “A due anni dall’avvio del Piano e data la sua rinegoziazione da parte del governo italiano con la Commissione Europea, è urgente fare il punto sull’andamento delle misure da una prospettiva di genere. I dati ad oggi disponibili non sono confortanti, e il rischio è che il PNRR finisca per acuire le disuguaglianze di genere, comprese quelle nell’accesso alla casa. Per questo motivo è fondamentale che le istituzioni, a partire dal governo fino ai comuni, indichino come le misure e i progetti previsti contribuiranno a chiudere i divari di genere indicando chiari obiettivi di genere da raggiungere”.
Di cosa parliamo in questo articolo:
Vivere da sole, i costi si moltiplicano
In Italia è in atto una trasformazione demografica e un cambiamento nella composizione dei nuclei familiari, in particolare nelle grandi città, dove è in crescita il fenomeno delle famiglie con un solo componente. A questo andamento contribuiscono vari fattori: l’invecchiamento della popolazione, il prolungato calo della natalità che fa aumentare il numero delle persone senza figli, ma anche l’aumento dell’instabilità coniugale, che determina l’aumento degli individui e dei genitori soli. Gli ultimi dati dell’Istat relativi al 2021 contano 8,5 milioni di persone che vivono sole nel nostro paese: in maggioranza sono donne e più della metà sono over 65. Tra gli uomini che vivono soli, circa uno su tre ha più di 65 anni (32,3%) mentre tra le donne il rapporto sale a oltre tre su cinque (63,1%). In futuro, il dato è destinato a crescere: le stime indicano che nel 2041 gli uomini che vivranno soli avranno un incremento del 18,4%, arrivando a superare i quattro milioni, mentre le donne sole sarebbero destinate ad aumentare ancora di più, da 4,9 a quasi 6 milioni, con una crescita del 22,4%. Di questi, il 42,5% degli uomini e il 72,2% delle donne sarebbero over 65.
Ma quanto costa vivere da sole oggi? In breve, molto più che vivere con altre persone. Secondo le stime dell’Istat chi abita da solo spende in media circa 1.800 euro al mese: si tratta del 47% in più di una persona che vive in coppia e l’87% in più di un componente di una famiglia di tre persone. La casa è la voce di spesa che pesa di più: di questi 1.800 euro, più di 800 sono destinati all’affitto o al mutuo, al pagamento delle bollette e delle spese condominiali, contro i 475 euro a testa di chi vive in coppia e i 323 di una famiglia di tre persone. Le ragioni sono diverse: vivendo da soli, bisogna farsi carico per intero di spese come l’affitto o il mutuo, oltre al fatto che il costo di case più piccole, come monolocali e bilocali, è in media superiore al metro quadro rispetto a quelle più grandi. Le bollette, inoltre, non saranno mai molto più basse per una persona sola rispetto a chi vive con altre persone, visto che alcuni costi restano fissi – ad esempio il riscaldamento o la luce accesa in cucina durante la cena.
Alla luce del progressivo aumento del costo della casa, le donne sono particolarmente svantaggiate anche perché hanno salari in media più bassi, nonché una minor cultura finanziaria che permetterebbe loro di realizzare piani di risparmio, anche sul lungo periodo. I dati Eurostat mostrano che in Italia il cosiddetto gender pay gap – il divario retributivo di genere – è del 5,5%: si tratta della differenza nella retribuzione oraria lorda tra uomini e donne. La Commissione europea evidenzia come le posizioni lavorative di gestione e supervisione sono ricoperte in larga maggioranza da uomini, le donne si fanno carico di importanti compiti non retribuiti, quali i lavori di casa e la cura dei figli o familiari, e trascorrono più spesso periodi di tempo fuori dal mercato del lavoro rispetto agli uomini. Questo naturalmente ha un impatto sull’autonomia economica e di conseguenza abitativa: ecco perché in Italia sono nate alcune esperienze di cohousing femminile.
Il cohousing femminile, un accesso diverso alla casa
Il cohousing è una forma di abitare collaborativo che consiste nel condividere spazi comuni insieme ad altri nuclei familiari, ciascuno con il proprio alloggio privato situato nello stesso complesso. Ciò comporta dei vantaggi in termini di costi e di risparmio energetico, oltre che generare occasioni di socialità e mutuo aiuto. Negli ultimi dieci anni in Italia sono nati diversi cohousing per donne, in particolare per signore anziane: nelle 40 abitazioni mappate dalla ricerca Abitare collaborativo in Italia, un utente su cinque ha più di 60 anni.
Una delle prime esperienze è quella di Casa alla Vela a Trento, aperta nel 2014 sul modello del cohousing intergenerazionale. Nella casa, sette signore anziane e tre giovani (studenti e lavoratori) vivono insieme: “L’incontro e lo scambio con l’altro diventano la firma distintiva di una quotidianità condivisa”, si legge nella presentazione del progetto. Cinque anni dopo a Brindisi ha inaugurato Ca.Za, Casa Zamalek, un progetto di silver cohousing. Il modello arriva dal Nord Europa: si tratta di una condivisione abitativa tra sei persone over65, tutte autonome – e per la maggior parte donne – che vivono insieme nel centro della città supportandosi nei reciproci bisogni.
Ad Arbus, nel sud della Sardegna, nel 2018 è nata la Casa della giovane Ettore Desogus, che accoglie fino a otto donne in situazioni di disagio e lontane dalla famiglia. Il cohousing fa parte di Ampliacasa, progetto dell’Associazione Cattolica Internazionale a Servizio della Giovane (Acisjf) insieme alla fondazione Con il sud per rilanciare l’housing sociale in Sardegna, Sicilia e Calabria. “L’obiettivo è sperimentare nuove forme di cohousing per dare una risposta a un’emergenza abitativa”, ha spiegato Carla Serpi, presidente di Acisjf Cagliari, a Redattore Sociale. “Non parliamo di un breve periodo, ma anche per periodi lunghi. Dare la possibilità a queste donne di trovare un luogo dove vivere in una famiglia. Questa casa deve dare l’opportunità di creare una famiglia con altre donne e recuperare una certa serenità mancato in un momento di difficoltà e di crisi magari in famiglia oppure di disagio per una persona che viene in Italia e che si trova senza nessun supporto”.
Anche a Boretto, in provincia di Reggio Emilia, il progetto “Donne e madri in cammino” mette a disposizione un cohousing per “promuovere la cultura del sostegno reciproco fra donne in situazioni di maggior fragilità e il valore della convivenza come perno di relazioni e reciprocità che migliorano la qualità della vita”, hanno scritto in una relazione Lucia Greco e Maura Copelli dei servizi sociali dell’Unione Comuni Bassa Reggiana. Si tratta di un cohousing sociale formato da tre appartamenti parzialmente autonomi che accolgono donne sole o con figli minori in difficoltà: alcune vengono da una separazione, altre hanno subìto maltrattamenti, altre ancora hanno difficoltà di trovare un lavoro e inserirsi nella comunità.
Le difficoltà delle donne senza dimora
Cosa succede invece alle donne che una casa non ce l’hanno? Raramente si sente parlare delle donne senza dimora: sono poche le ricerche che parlano della loro condizione, e mancano dati aggiornati per misurare il fenomeno. Le ultime statistiche disponibili risalgono alle due indagini dell’Istat sulla condizione delle persone senza dimora realizzate nel 2011 e nel 2014: nel dicembre 2014, le persone senza dimora erano 50.724 (47.648 nel 2011), di cui il 14% erano donne (6.239).
Nell’approfondimento sulle donne senza dimora della Fio.psd, la Federazione Italiana Organismi per le Persone Senza Dimora, si legge che gli eventi scatenanti legati alla condizione di senza dimora per le donne sono nella maggior parte dei casi riconducibili a rotture familiari, separazione dal partner o dai figli (70%), perdita del lavoro stabile (49,7%), oppure presenza di malattie croniche, forme di disabilità o di dipendenza da sostante e alcool (27,6%). L’età media è di circa 45 anni e il 54% è rappresentato da donne straniere: più di un quarto ha un lavoro. “Dai soci che fanno parte della nostra federazione è emerso che quasi un terzo (28,9%) ha riscontrato negli ultimi tre anni un aumento delle donne che si rivolgono ai servizi per senza dimora”, scrive la Fio.psd. “Inoltre, il 47,6% dei soci ha tra le persone accolte dai servizi per senza dimora donne vittime di violenza, che necessitano di interventi di tutela e accoglienza specifici”.
Nel marzo 2023 Redattore Sociale e Binario 95 hanno realizzato l’indagine “Sotto il cielo di Roma. Donne senza dimora”, per comprendere chi sono le donne senza dimora nella Capitale. Delle oltre 20mila persone senza dimora prese in carico ogni anno dai servizi sociali a Roma, una su quattro è donna. Tra loro c’è anche Maria Grazia, 69 anni, che fino a qualche mese fa abitava nella periferia est con la figlia. Erano state segnalate ai servizi sociali come un caso di “barbonismo domestico“, perché la casa si trovava in uno stato di grave incuria. Un giorno l’appartamento va a fuoco per via di un fornello lasciato acceso. “La figlia accetta di andare in un centro di accoglienza, Maria Grazia no: non le piace l’idea di essere confinata in una stanza chiusa, vuole tornare a casa sua, in quell’appartamento che crede esserle stato indebitamente sottratto”, si legge nel reportage. Oggi Maria Grazia vive in zona Termini, il giorno in stazione, la notte chissà dove.
Nel percorso delle donne senza dimora c’è spesso un vissuto di violenza, che non è detto sia stata subìta per la prima volta in strada. Alcune l’hanno già sperimentata tra le mura domestiche, e in alcuni casi, è proprio per sfuggire agli abusi che si sono trovate senza un alloggio. “Spesso le donne che fuggono dalle violenze domestiche non hanno un posto dove andare, una soluzione ponte che garantisca loro la serenità indispensabile per riorganizzare la propria vita in un momento così difficile”, ha spiegato nell’indagine Franca Iannaccio, socia fondatrice della Europe Consulting onlus e responsabile del progetto Empowomen, che realizza attività di screening negli help center delle stazioni ferroviarie sul territorio nazionale. “Riescono a trovare soluzione temporanee, come stare da amici e parenti, ma quando queste offerte non sono più disponibili alcune finiscono in strada, dove si innescano circuiti di ulteriore marginalità che favoriscono il perpetrarsi di situazioni di violenza. D’altra parte, gli stessi centri antiviolenza sono in perenne ristrettezza di risorse e le case rifugio romane non hanno posti disponibili sufficienti rispetto alle richieste”.
L’emergenza casa per le donne vittime di violenza
Secondo l’Istat, il 38% delle donne inserite in un percorso di uscita dalla violenza ha subìto anche maltrattamenti economici, e molte di loro, una volta sole, non hanno sufficienti risorse economiche per intestarsi un contratto di locazione, versare una caparra e pagare l’affitto.
L’indagine Diritti in bilico di ActionAid mostra che dal 2015 al 2022 l’Italia ha speso circa 157 milioni di euro per supportare percorsi di uscita dalla violenza: di questi circa 20 milioni hanno finanziato misure di sostegno al reddito, 124 milioni sono andati a progetti di inserimento lavorativo e 12 milioni sono stati indirizzati a programmi favorire l’autonomia abitativa.
Eppure gli strumenti adottati sono considerati frammentari e inadeguati, e la questione casa ha spesso un peso determinante nel far naufragare il progetto di emanciparsi da un compagno abusante. Nell’audizione alla Commissione Lavoro della Camera dell’8 febbraio 2022, Linda Laura Sabbadini, della direzione dell’Istat, ha spiegato che “la mancanza di indipendenza economica sembra costringere le donne a subire la violenza per periodi più lunghi”. Il 60% delle donne inserite in percorsi protetti non ha autonomia finanziaria, quota che sale al 69% se si considera la fascia tra i 18 e i 29 anni.
Per ricominciare, alcune donne hanno fatto ricorso al reddito di cittadinanza, che ha permesso loro di lasciare il maltrattante e trovare una nuova abitazione. “Il reddito di cittadinanza è stato volàno per la ricerca di una nuova autonomia che comprende casa, lavoro, cura di stesse e dei figli”, ha spiegato Federica Scrollini, operatrice del centro antiviolenza BeFree di Roma, ad Altreconomia. Da gennaio 2024 però lo stato smetterà di erogare il reddito di cittadinanza. “Senza questo sostegno molti percorsi di fuoriuscita dalla violenza non vedranno la luce”, afferma Scrollini. “D’altronde, con un mercato del lavoro in asfissia, i servizi sociali ridotti dall’osso e l’ennesima crisi economica alle porte, dove possiamo andare senza soldi?”.
Il reddito di cittadinanza verrà sostituito dall’assegno di inclusione, che però verrà concesso solo alle famiglie con Isee inferiore a 9.360 euro e con un minore, una persona con disabilità o con più di 60 anni, oppure con componenti svantaggiati inseriti in programmi di cura e assistenza certificati dalla pubblica amministrazione. Ne saranno escluse quindi le donne che non hanno figli a carico, anche se si trovano in una situazione di difficoltà economica. Per loro dal primo settembre 2023 c’è la possibilità di richiedere il supporto per la formazione e lavoro, pensato per le famiglie con una persona in grado di lavorare (i cosiddetti “occupabili”). Questo sussidio però è molto più ridotto – 350 euro al mese – ed è vincolato alla partecipazione a progetti di formazione e di accompagnamento al lavoro individuati dal governo. Il limite massimo di Isee per ottenerlo, inoltre, è stato abbassato a 6mila euro, molto meno rispetto ai 9.360 euro del reddito di cittadinanza.
Un altro strumento pensato per aiutare le donne che escono da una situazione di violenza e si trovano in condizione di povertà è il reddito di libertà: istituito nel 2020, consiste in un contributo di 400 euro al mese per un massimo di dodici mesi. Per il periodo tra il 2020 e il 2022 la misura è stata finanziata con 12 milioni di euro, a cui si aggiungono 1,8 milioni per il 2023: in tutto ne hanno potuto beneficiare meno di 3mila donne, un numero molto ridotto se si considera che secondo l’Istat ogni anno sarebbero circa 21mila le persone che avrebbero i requisiti per accedervi. In più, non sono state emanate linee guida nazionali per valutare lo stato di bisogno delle richiedenti e oggi vige il principio del “chi prima arriva meglio alloggia”: le donne possono fare domanda e risultare idonee, ma una volta finiti i fondi non otterranno comunque il contributo.
Ma anche per chi ottiene i sussidi dello stato, accedere alla casa non è scontato. I prezzi di affitto nel libero mercato sono molto alti, e senza un contratto di lavoro mancano le garanzie. “Con i soldi dei sostegni avrei voluto affittare una casa, ma non ci sono riuscita perché non ho una busta paga né altre garanzie”, racconta all’Essenziale Roberta (il nome è di fantasia), che vive nella periferia di Roma e che, dopo essersi rivolta a un centro antiviolenza, ha fatto domanda per il contributo di libertà della regione Lazio e ha ricevuto cinquemila euro come sostegno al reddito. “Ora mi trovo in un limbo: che tutele ci sono per donne che trovano il coraggio di denunciare? Lo stato dove sta quando abbiamo bisogno di una casa e un lavoro per ricominciare?”.
*Questo articolo è stato prodotto grazie alla partnership con Period think tank nell'ambito del progetto #datipercontare
Immagine in anteprima: frame video Newsweek