Caso Pelicot: è ora di fare i conti con la misoginia e la cultura dello stupro
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“Aprendo le porte di questo processo, lo scorso 2 Settembre, ho voluto mettere la società nelle condizioni di seguirne i dibattimenti. Non mi sono mai pentita di questa decisione”. Ha mantenuto fino all'ultimo la sua lucidità composta Gisèle Pelicot, anche nella prima dichiarazione pubblica all'uscita dell'aula del tribunale dopo che corte di Vaucluse (Avignon) ha annunciato il verdetto nel famoso “processo di Mazan”. Tutti colpevoli, con 20 anni di reclusione per il 72enne Dominique Pelicot e pene più lievi gli altri imputati.
E adesso, se è vero che, come aveva detto lo scorso 25 Novembre l'allora primo ministro Michel Barnier nel suo intervento in occasione della giornata internazionale per la lotta alla violenza sulle donne, c'è “Un prima e un dopo Mazan”, la parte del “dopo Mazan” che comincia con questa sentenza deve necessariamente essere il tempo della riflessione.
Di cosa parliamo in questo articolo:
Il processo mediatico e le vittime dimenticate
La prima a ricordare che occorre mantenere la guardia alta e la coscienza attiva è sempre Gisèle Pelicot, consapevole tanto di essere diventata un simbolo quanto del fatto che buona parte delle donne vittime di abusi e violenze di genere sono assai lontane dall'avere questo livello di visibilità “Penso infine alle vittime sconosciute” ha aggiunto nel suo intervento post sentenza, dopo aver spiegato di essersi esposta anche per il futuro dei suoi figli e nipoti, “le cui storie sono rimaste nell'ombra: voglio che sappiate che condividiamo la stessa battaglia”. Tuttora in Francia chi denuncia una violenza sessuale o un attacco sessista ha buona probabilità di non ricevere la giusta attenzione.
Secondo i dati ministero dell'Uguaglianza di Genere francese, ogni anno in Francia 94 mila donne denunciano di essere state vittime di stupro o tentato stupro. Tuttavia, nel 2021, appena l'1% delle aggressioni denunciate ha portato a una condanna; nella stragrande maggioranza dei casi la vittima conosce chi compie gli abusi (un uomo nel 96% dei casi). E secondo un sondaggio pubblicato quest'anno dal sito di indagini demoscopiche statista.fr tra oltre tremila donne francesi che tra 2019 e 2021 avevano sporto denuncia per violenze coniugali, sessuali o tentati stupri, il 40% delle intervistate si era dichiarata insoddisfatta del trattamento ricevuto dalla polizia o dalla gendarmerie a cui si erano rivolte. Il 91
Anne Bouillon, avvocata francese specializzata nella difesa di donne vittime di violenza, spiega a Valigia Blu:
da questo processo deve emergere non solo una riforma legislativa sulla questione dello stupro e del consenso, ma anche un cambiamento profondo nelle nostre relazioni sociali, amorose e familiari, nelle relazioni che uomini e donne intrattengono. Se ci accontentiamo di una semplice riforma legislativa, allora mancheremo l’appuntamento: bisogna sviluppare risorse finanziarie per combattere le violenze contro le donne, creare posti di accoglienza, lavorare sulla presa in carico degli autori di violenza e, soprattutto, promuovere un’educazione paritaria e rispettosa per i nostri figli.
Portata simbolica e zone d'ombra del verdetto
C'è poi la questione del verdetto, o meglio delle sue implicazioni simboliche. I tre figli di Gisèle Pelicot si sono detti “delusi” da “queste pene leggere”, ha commentato all’Agence France-Presse un membro della famiglia che ha chiesto di rimanere anonimo. In particolare Caroline Darian, unica figlia femmina, co-fondatrice del sito contro la sottomissione chimica M'endors pas e autrice del memoir E ho smesso di chiamarti papà, non è riuscita ad avere le risposte che cercava. Più volte nel corso del processo, anche con il sostegno dei fratelli, Darian aveva chiesto che venissero riconosciute violenze su di lei, viste le foto ambigue trovate negli archivi del padre, che la ritraevano svestita e addormentata. Ma a questo proposito Dominique Pelicot, che le ha sempre negate, è stato soltanto riconosciuto colpevole di registrazione e detenzione di immagini riprese a sua insaputa. Quello dell'estrema difficoltà di riconoscere, ricordare e provare gli abusi subiti sotto l'effetto di droghe somministrate senza consenso, la famosa sottomissione chimica, rimane quindi un altro dei grandi temi sollevati da questo processo, un altro discorso aperto e non ancora chiuso.
Il mostro e il signor chiunque
Impossibile non riflettere sulla grande sproporzione tra la pena massima inflitta a Dominique Pélicot, 20 anni, e quelle che toccheranno agli altri condannati, le cui reclusioni sono tutte di durata inferiore a quanto richiesto dall'accusa. Anche senza che sia stato esplicitato dalla corte, questa distanza di trattamento e verdetto tra il deus ex machina degli stupri di Mazan e tutti coloro che pure vi hanno preso parte rinforza implicitamente l'idea del mostro, l'archetipo del grande manipolatore che in qualche modo riesce a convincere e trascinare altre persone nel suo piano criminoso.
Un personaggio fuori dalla norma, in cui è più difficile identificarsi e che quindi sposta il suo tipo di crimine verso una dimensione di eccezionalità. Invece, per quanto sia innegabile la mostruosità del piano architettato da Dominique Pelicot, il suo status di “cattivo per eccellenza” non può e non deve offuscare la relativa naturalezza con cui lo hanno seguito tanti, troppi altri.
Né il fatto che oltre ai 50 stupratori identificati nei video ce ne sono quasi altrettanti che non è stato possibile riconoscere, e che molti di più, nei quasi dieci anni in cui si sono svolti i fatti, si sono imbattuti nel famigerato annuncio sul sito coco.fr e si sono ben guardati dal segnalarlo. Più e più volte, nei mesi di questo processo, è stata appunto evocata l'immagine del cosiddetto monsieur tout-le-monde, quell'uomo qualunque che davanti alla giusta occasione si rivela uno stupratore, o nella migliore delle ipotesi uno spettatore indifferente.
La banale varietà di ruoli sociali, età e professioni che è emersa nel triste circo delle storie (e delle scuse) degli imputati è stata illuminante proprio nel superare l'associazione tra criminale sessuale e orco. Nel filmare l'orrore ripetitivo delle scene che dirigeva, almeno, “il mostro” Dominique Pelicot ci ha consegnato un archivio di signori nessuno e cittadini qualunque che nulla avevano in comune se non il fatto di ignorare completamente il concetto di consenso e di usare un corpo femminile alla stregua di un oggetto inanimato. Fatima Benomar, cofondatrice dell'associazione femminista Les Effronté-es ha dichiarato alla tv RTL che le pene date agli stupratori di Mazan, in quato inferiori a quelle richieste dall'accusa, “dimostrano una convinzione molto radicata: quella secondo cui un uomo può ancora, in buona fede, credere che la questione del consenso della donna che sta per penetrare possa essere delegata al suo partner. È molto problematico. (...) In nessun momento hanno sentito dalla sua bocca dire 'per me va bene'. (…) In nessun momento hanno ritenuto importante sentire dalla diretta interessata che per lei fosse OK: questo è estremamente significativo”.
La questione non è certo solo francese: una recente inchiesta tedesca ha rivelato l’esistenza di un gruppo Telegram i cui oltre 70mila membri si scambiavano consigli su come drogare donne per poi aggredirle sessualmente. Inoltre, la “domesticità” del caso Pelicot non deve sembrare un’eccezione: ancora troppo spesso, quando si parla di droghe dello stupro, ci si rifà a scenari di feste o all’immaginario del classico bicchiere lasciato incustodito sul bancone di un bar, mentre moltissimi casi di sottomissione chimica (il 42% secondo dati citati da Radio France) avvengono in contesti coniugali, familiari o comunque all’interno della propria cerchia di conoscenze.
Processo alla mascolinità e presa di coscienza collettiva
E qui arriviamo a un altro punto fondamentale. Se è vero che i riflettori su Mazan hanno illuminato in modo chiarissimo una cultura e una collettività tuttora impregnate di cultura dello stupro, più di tutto hanno fatto da specchio alla mascolinità e costretto molti uomini a porsi delle domande e fare autocritica, anche pubblicamente.
Introspezione è una parola che difficilmente vediamo associata ai processi mediatici, ma nel dibattito culturale che ha circondato la storia di Gisèle Pelicot è stata citata più volte. Non solo perché c'è stato, fra gli imputati, chi sembra avere scoperto e ammesso di essere uno stupratore solo nel corso del processo, ma proprio per la riflessione collettiva che sembra avere finalmente avuto avvio, con giornalisti come Karim Rissouli che hanno invitato a cogliere l'occasione di questo “processo alla mascolinità” per fare autocoscienza a influencer mainstream come Antoine Goretti, che si è unito alle manifestazioni in sostegno di Gisèle Pelicot.
Questi lampi di presa di coscienza, tuttavia, sono stati tutt'altro che generalizzati, visti i vari “not all men” che tuttora risuonano nell'aria e che anche in questi mesi di processo hanno continuato, in Francia, a farsi sentire, dai panel televisivi dove il concetto di mascolinità tossica indispettisce gli uomini in studio allo stesso sindaco di Mazan che inizialmente aveva sminuito la gravità dei crimini perpetrati su Gisèle Pelicot, per poi scusarsi tardivamente. Senza contare che la folla che regolarmente attendeva e acclamava l'ingresso della donna in tribunale in questi mesi era, sempre, prevalentemente femminile.
In conclusione, come ha commentato a caldo la Fondation des Femmes in un comunicato intitolato “Sentenza Mazan: la lotta contro l'impunità è appena cominciata”, la strada è ancora lunga: “Riconoscendo tutti gli imputati colpevoli di stupro o tentato stupro aggravato, ad eccezione di una riqualificazione, la giustizia ha dato ragione a Gisèle Pelicot: la vergogna può cambiare campo”, esordisce il testo. Che prosegue: “Per porre fine all’impunità dello stupro, è indispensabile ripensare profondamente il modo in cui la giustizia affronta le violenze sessuali. Attualmente, il 94% delle denunce viene archiviato e spesso il processo giudiziario si traduce in una nuova vittimizzazione delle persone coinvolte. Questo deve cambiare”. La vergogna forse ha cambiato campo, come auspicato da Gisèle Pelicot in quello che è subito diventato uno slogan internazionale. O almeno sta iniziando a farlo. È tempo però che si muovano davvero anche la giustizia e le coscienze.
“Sorella io ti credo” è un altro slogan (tutt’altro che ovvio) che abbiamo imparato a conoscere e sentito spessissimo negli ultimi tempi, e credere a Gisèle Pelicot è stato facilitato dalla moltitudine di video che provavano in modo schiacciante quello che era avvenuto. Ma venire credute quando si denuncia, al di fuori di casi eclatanti e fuori scala come questo, rimane molto difficile. In un intervento sul Guardian, la scrittrice e attivista Rebecca Solnit (autrice tra gli altri di Uomini che mi spiegano le cose), citava il caso di un altro Dominique, che di cognome fa Strauss-Kahn: nel 2011, quando era direttore generale del Fondo Monetario Internazionale e membro di spicco del Partito Socialista francese, fu accusato dalla cameriera di un hotel di New York, immigrata negli Stati Uniti della Guinea, di aggressione sessuale.
Il nome della donna, Nafissatou Diallo, è stato dimenticato in fretta mentre la sua reputazione è stata distrutta. Strauss-Kahn negò le accuse - ricorda Solnit - e lei fu brutalmente screditata e messa in dubbio da gran parte della stampa e dagli amici influenti di lui. La sua storia di rifugiata, sopravvissuta a mutilazioni genitali femminili, fu minuziosamente analizzata, mentre circolavano teorie del complotto che scagionavano Strauss-Kahn. Le accuse penali furono archiviate nel 2011 e una causa civile venne risolta con un accordo extragiudiziale nel 2012.
Alla fine di tutto, quello che rimane dell’affaire Pelicot è la necessità di trasformare la grande partecipazione collettiva a questa storia in attenzione a tutte le storie, anche quelle in cui la vittima non raggiunge lo status di icona, tenendo sempre a mente quanto sia difficile per una donna che denuncia violenza, ancora oggi, essere creduta. Quindi benissimo per i murales che ritraggono Gisèle Pelicot, per l’enorme risonanza che ha avuto il suo caso e per l’attenzione che ha avuto la sua persona. Ma non possiamo dire che il caso è chiuso: il processo di Mazan è terminato, ma il doveroso processo alla misoginia e alla cultura dello stupro deve proseguire.
Il 1522 è il numero gratuito da tutti i telefoni, attivo 24 ore su 24, che accoglie con operatrici specializzate le richieste di aiuto e sostegno delle vittime di violenza e stalking. Per avere aiuto o anche solo un consiglio chiama il 1522 oppure apri la chat da qui.
(Immagine in anteprima via FTM)