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Pandemia, guerra, clima, inflazione. È il tempo della ‘policrisi’: aumentano le disuguaglianze e a beneficiarne sono i più ricchi (anche in Italia)

30 Gennaio 2023 8 min lettura

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Pandemia, guerra, clima, inflazione. È il tempo della ‘policrisi’: aumentano le disuguaglianze e a beneficiarne sono i più ricchi (anche in Italia)

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Viviamo nel tempo della “policrisi”: questo è il termine reso celebre dallo storico economico Adam Tooze con un articolo sul Financial Times adatto a descrivere il mondo di oggi. Un mondo in cui più crisi - pandemia, guerra in Ucraina, inflazione, tensioni geopolitiche, crisi del sistema economico, crisi climatica - si intersecano in modo tale che il tutto sia più della somma delle parti

Per comprendere i cambiamenti che questa policrisi sta generando, è utile rivolgere l’attenzione al nuovo rapporto dell’Oxfam che cerca di fare il punto sulle dinamiche di ricchezza e povertà che questi fenomeni generano. 

La situazione nel mondo

Il primo dato interessante che emerge dall’analisi è che, per la prima volta da 25 anni, assistiamo a un cambiamento nella dinamica della povertà assoluta nel mondo. Nel 2020, dopo un trend discendente durato un quarto di secolo, c’è stato un aumento dell’11% della povertà assoluta (ovvero il numero di persone che vivono con meno di 2.5$ al giorno) a livello globale dovuta alle conseguenze della diffusione del SarsCoV2. 

Nel 2021, grazie a un miglioramento della situazione pandemica, si è assistito a un calo, ma con il 2022 e le tensioni internazionali la panoramica si è ulteriormente complicata: il rincaro dei beni energetici potrebbe compromettere la ripresa.

A questo si aggiunga il rincaro dei beni alimentari che, secondo l’analisi, colpirebbe maggiormente i paesi più poveri: in Etiopia l’aumento è stato del 44%, in Somalia e Kenya superiore alla media del 10% dei paesi del G8. Non solo, anche la distribuzione dei vaccini, sbilanciata verso i paesi più ricchi, avrà secondo gli esperti conseguenze sul PIL dei paesi in via di sviluppo: un quinto di questi paesi secondo le previsioni rischia di avere un PIL inferiore a quello del 2019 con l’apartheid vaccinale. 

Anche il mondo del lavoro è stato messo a dura prova dalla policrisi. Poiché l’inflazione riduce il potere d’acquisto, questa provoca anche una caduta verticale dei salari reali- ovvero quelli misurati rispetto al livello dei prezzi: si stima che almeno 1.7 miliardi di lavoratori hanno assistito a un calo della retribuzione reale. A essere più colpiti sono donne e immigrati: questo perché spesso ricoprono occupazioni con bassi salari e scarse tutele. 

Nonostante le preoccupazioni per una spirale dei prezzi salari, ovvero un aumento dei prezzi da parte delle imprese per far fronte alle richieste salariali da parte dei lavoratori, non ve n’è traccia per ora. D’altronde la situazione è profondamente diversa dagli anni ‘70, quando i rapporti di forze nel mondo del lavoro erano differenti, con una copertura sindacale più ampia che permetteva quindi rivendicazioni salariali. Anzi, oggi anche economisti come Olivier Blanchard riconoscono che il conflitto distributivo è al centro delle dinamiche inflattive, contrariamente a chi ritiene che l’inflazione sia sempre e solo un fenomeno monetario.

Si è assistito allo stesso tempo a un aumento dei profitti da parte delle aziende. Secondo le analisi Oxfam, le grandi aziende agro-alimentari ed energetiche hanno avuto un aumento del 256% dei profitti rispetto alla media del 2018-2022, con l’84% andato agli azionisti. Negli Stati Uniti ciò ha portato politici come Elizabeth Warren a parlare di “greed inflation”, l’inflazione dovuta all’avidità delle aziende. Qui è necessario procedere con estrema cautela: perché, banalmente, le aziende sono sempre avide. In linea di massima è corretto, infatti, considerare il profitto come motore di un’azienda, che tenterà di massimizzare rispetto al prezzo degli altri fattori di produzione. Se le aziende sono sempre avide, allora non si può certo considerare questa come fattore determinante per l’inflazione. Tuttavia, come abbiamo detto, l’inflazione ha aspetti legati al conflitto distributivo e vi sono evidenze sull’aumento di potere di mercato da parte delle imprese, che quindi non avrebbero alcuna ragione di diminuire i prezzi. Non vi è finora evidenza sul fatto che un aumento delle tasse sulle grandi imprese possa servire per rallentare l’inflazione. 

A beneficiare dalla policrisi sono però i più ricchi: nel biennio 2020-2021 l’aumento della ricchezza netta è andato per due terzi agli individui più abbienti della popolazione. E mentre prima la pandemia tingeva di scuro il futuro delle persone normali e oggi l’inflazione erode i salari, la ricchezza dei miliardari è aumentata di 2.7 miliardi al giorno, nonostante il tracollo dei mercati azionari nel 2022. 

Si tratta di un fenomeno che è stato indagato anche a livello accademico: questi ultimi anni hanno esacerbato, sotto vari aspetti, le disuguaglianze. Questo in una situazione di partenza già di profonda disuguaglianza, tanto da spingere anche economisti mainstream a denunciare il livello altissimo di disuguaglianza che stiamo vivendo. 

Che cosa sta succedendo in Italia?

Se questa è la situazione globale, possiamo chiederci come il nostro paese stia rispondendo a questa policrisi. Anche l’Italia si è trovata a fare i conti con la pandemia, che continua ancora oggi a mietere centinaia di morti al giorno, con un’inflazione che non si vedeva dagli anni ‘80, con le conseguenze della crisi climatica e delle tensioni internazionali. Inoltre, come è noto, non si partiva certo da una situazione rosea: l’Italia è un paese che ha smesso di produrre ricchezza da anni ed è indietro su vari aspetti rispetto ai nostri partner europei, con un elevato debito pubblico che richiede cautela. 

Innanzitutto la situazione sul fronte disuguaglianze: già da prima il nostro paese presenta un indice di Gini (l’area della curva tra la distribuzione reale del reddito/patrimonio e quella di formale uguaglianza) più alto rispetto ai nostri partner europei.

Anche riguardo la ricchezza si assiste a una netta “inversione delle fortune”: dagli anni ‘90 lo 0.1% più ricco della popolazione ha visto raddoppiare la ricchezza media. 

Questa situazione, fotografa Oxfam, è ulteriormente peggiorata nel corso degli ultimi anni. Tra il 2020 e il 2021 la quota di ricchezza è aumentata di 1.3 punti percentuali su base annua, mentre si assiste a una stabilità nel 20% più povero e a un calo nelle altre fasce. 

Anche la povertà assoluta si assesta su livelli allarmanti. Raddoppiato negli ultimi 16 anni, si stima che il fenomeno riguardi 7,5% delle famiglie e 9,4% degli individui. Non solo: secondo i dati OECD il nostro paese detiene il triste record per il poverty gap

Nessuna buona notizia invece sul fronte mercato del lavoro, altro tasto dolente del nostro paese. Secondo i dati Oxfam infatti sarebbero 6.3 milioni - oltre la metà - i lavoratori del settore privato in attesa del rinnovo del contratto collettivo nazionale, in un contesto di elevata inflazione che quindi erode il potere d’acquisto e riduce il salario reale dei lavoratori. Nonostante il record di occupazione certificato dall’ISTAT, il lavoro in Italia resta un tasto dolente: basti pensare al fenomeno del lavoro povero che colpisce quasi il 12% dei lavoratori italiani, alla bassa partecipazione femminile che ci vede agli ultimi posti, l’elevata precarietà e utilizzo di contratti non standard che permette alle aziende italiane di competere non attraverso investimenti e formazione, ma sulle tutele e i salari. 

Il Governo Meloni non migliorerà la situazione, anzi

In una situazione come quella illustrata, quali sono le mosse del governo Meloni per porre un freno a questa situazione, anche considerando che secondo simulazioni di organismi internazionali come l’OECD già al tempo della crisi degli anni ‘10 l’elevato livello di disuguaglianza era costato all’Italia in termini di PIL?

La risposta appare chiara: a essere ottimisti nulla, a essere sinceri peggiorerà la situazione. Un assaggio è quello che si è visto con la finanziaria, che ha destinato risorse a provvedimenti che vanno nella direzione di una maggior disuguaglianza come l’estensione del regime forfettario per le partite IVA, ovvero la flat tax. Questo, come già spiegato al tempo, non solo acuisce le differenze tra lavoratori dipendenti e autonomi, ma incoraggia comportamenti subottimali: poiché la tassazione diventa piatta sotto a una certa soglia, coloro che si ritroveranno al di sopra di questa cercheranno di ridurre la base imponibile attraverso evasione/elusione, aumentando così il già gigantesco mancato gettito IRPEF. Lo stesso si dica per l’ennesimo condono, spacciato per pace fiscale, varato dal governo Meloni. 

Manovra finanziaria: il governo tutela le rendite e un sistema produttivo viziato

Per questo l’Oxfam propone una serie di politiche da attuare per contrastare la situazione contingente. In primo luogo proteggere le retribuzioni reali, stimolando nuovi accordi tra le parti sociali. Questo potrebbe anche passare, come hanno sostenuto i due economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi, da un salario minimo universale: il nostro paese rimane infatti uno dei pochi in Europa a non averlo e con una copertura sindacale nettamente inferiore rispetto ai paesi che si affidano alla contrattazione collettiva. Inoltre i dati confermano che nel nostro paese la quota di imprese in condizione di monopsonio è elevata: tradotto in parole povere, le aziende pagano meno di quanto, in teoria, dovrebbero e occupano meno persone. In un contesto del genere, sempre teoricamente, l’introduzione di un salario minimo permetterebbe un aumento dei salari e anche dell’occupazione. 

Perché il salario minimo può fare bene all’Italia

Va inoltre scoraggiato il ricorso a contratti non standard, restrizioni sull’esternalizzazione e una riduzione dell’utilizzo dei contratti a tempo determinato. La strada da seguire, quindi, sarebbe quella aperta dalla Spagna dove la riforma del mercato del lavoro voluta dalla Ministra Yolanda Diaz sta dando risultati incoraggianti nel contrasto al lavoro povero e precario. 

Consiglia inoltre un passo indietro rispetto alla riforma del Reddito di Cittadinanza. Il governo Meloni ha infatti dichiarato l’intenzione di andare oltre il Reddito nel 2024 con un regime transitorio nel 2023 che ridurrà il numero di mensilità per coloro che sono occupabili. Nonostante le criticità del reddito -  che beneficia maggiormente i single rispetto alle famiglie, per fare un esempio - non c’è dubbio che questo abbia funzionato egregiamente nel porre un freno alla povertà nel nostro paese come ha fatto notare anche Banca d’Italia. 

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Non manca poi l’invito all’utilizzo della leva fiscale in senso più redistributivo- di nuovo, l’esatto contrario di quanto fatto con la finanziaria. D’altronde, come fa notare un recente lavoro, il nostro sistema fiscale sarebbe già oggi debolmente progressivo e anzi, dopo una certa soglia, sarebbe addirittura regressivo. 

Per farlo servirebbe anche spostare il carico della tassazione dal lavoro ai patrimoni: un suggerimento che proviene anche dall’OECD, ma che la politica italiana ha sempre fatto finta di non ascoltare, consapevole che in un paese che non cresce da trent’anni toccare il patrimonio significherebbe privare la popolazione di una sorta di reminiscenza di un passato mistico in cui siamo intrappolati. 

Immagine in anteprima: Antonio Manidi via Oxfam Italia

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