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Dall’istruzione scolastica e universitaria al mondo del lavoro: il percorso verso l’uguaglianza per le persone con disturbi specifici di apprendimento (DSA)

7 Giugno 2022 17 min lettura

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Dall’istruzione scolastica e universitaria al mondo del lavoro: il percorso verso l’uguaglianza per le persone con disturbi specifici di apprendimento (DSA)

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di Antonio Caterino*

Il 2021 ha visto l’approvazione di una serie di interventi legislativi da parte di Parlamento e Governo (legge n. 113/2021 e decreto legge n. 139/2021) che, colmando alcune lacune normative, hanno sancito fondamentali conquiste di civiltà per ciò che attiene l’accesso al mercato del lavoro in condizioni di piena ed effettiva parità anche da parte di persone con disturbi specifici di apprendimento (DSA).

Si tratta di progressi, lungamente attesi e perseguiti con determinazione, che hanno consacrato l’estensione dei diritti e delle tutele - già previste dalla legge n. 170/2010 a favore delle persone con DSA nel settore dell’istruzione scolastica e universitaria - anche rispetto all’accesso al mondo del lavoro: ciò è avvenuto riconoscendo a tali soggetti l’utilizzo, in sede di prova di selezione o ammissione, di strumenti (le cd. misure di supporto) in grado di consentire lo svolgimento del concorso o dell’esame in condizioni di parità con gli altri candidati.

Anche se al momento tali previsioni hanno un ambito di applicazione limitato, è innegabile che questo primo approdo segni un importante avanzamento nel riconoscimento dei livelli essenziali di tutela dei diritti delle persone con DSA, anche nella loro vita adulta. 

Le ragioni dell’impegno sul fronte della tutela dei diritti delle persone con DSA

Se 20 anni fa, quando da studente di liceo scientifico in costante conflitto con il tempo che non bastava mai e con i giudizi sempre troppo severi nei miei confronti, nonostante gli sforzi e l’impegno assiduo nello studio, mi avessero detto che avrei conseguito una laurea in giurisprudenza e che avrei poi ottenuto il titolo di avvocato, non avrei mai potuto credervi, anche se probabilmente, in cuor mio, ci avrei davvero sperato. In quel periodo, le difficoltà erano tali e così pervasive che non era facile immaginare quello che così sorprendentemente sarebbe accaduto successivamente. A impensierirmi non era tanto la mancanza di motivazione o di dedizione allo studio, quanto piuttosto la mia naturale e reiterata inclinazione al fallimento, che finiva per complicare e ritardare il compimento di tutto quello a cui tenevo.

La situazione non migliorò particolarmente all’università, dove a fronte di un impegno totale risultavo, comunque, sempre imprevedibile nei risultati, buoni o cattivi che fossero. In sede d’esame, infatti, poteva accadere di tutto: potevo con la stessa facilità ottenere la lode oppure ritrovarmi a dover lottare per difendere un 18 e salvare la faccia, quantomeno di fronte ai miei genitori, altrimenti increduli di fronte all’ennesima clamorosa disfatta. Le amnesie mi tiravano sempre brutti scherzi.

Tutto questo accadeva e si ripeteva, senza che mi fosse in alcun modo chiara la causa di questo mio “malfunzionamento”. Mi limitavo semplicemente a supporre che fossi più lento e sicuramente più inefficiente nello studio rispetto ai miei coetanei e che, pertanto, non avevo altre soluzioni se non quella di quintuplicare gli sforzi e coltivare fiducia, insomma provare ad essere «forte nelle tribolazioni e lieto nella speranza», come insegnano agli scout. Ed è con questo spirito che mi sono sempre rialzato ogni volta che le cose non andavano come sarebbe stato lecito o forse giusto attendersi o, semplicemente, come avrei meritato, in considerazione della fatica, degli sforzi e del tempo dedicati alla preparazione delle materie d’esame.

Tuttavia, dopo un primo periodo più complesso, durato quasi due anni, un esame dopo l’altro, grazie ai miei straordinari colleghi, chiamati sistematicamente a mettere alla prova e consolidare le mie conoscenze prima degli appelli (molti dei quali, oggi, giovani magistrati) dopo quasi 7 anni dall’inizio degli studi in giurisprudenza, nel 2012, sono giunto a discutere la tesi di laurea.

A questo appuntamento, però, mi sono presentato con una consapevolezza, una leggerezza e, forse, anche una gioia del tutto nuova, perché due giorni prima della data della discussione di laurea avevo finalmente appreso il motivo di quelle assurde, inspiegabili difficoltà, capaci di rendere leggendari i miei esami e le conseguenze che ne derivavano (per i primi anni di università, infatti, sono stato uno specialista nel mandare a monte 3 o, a volte, anche 6 mesi di «studio matto e disperatissimo», rendendoli completamente vani). Semplicemente ero (o meglio, sono) dislessico e, come sicuramente accaduto a molti altri prima di me, non l’avevo mai saputo prima di allora. 

A 26 anni, dunque, per la prima volta, a seguito di una visita specialistica fissata per la diagnosi dei DSA in età adulta, la vita mi ha messo nella condizione di conoscermi meglio, andando a scrutare nel profondo, e di capire con enorme soddisfazione le ragioni di quel mio modo così particolare di processare ed interagire con le informazioni di un testo. 

Per tutte queste inattese rivelazioni non potevo che essere felice. La profonda e rinnovata consapevolezza che è derivata dalla diagnosi è stato il più bel regalo di laurea che potessi ricevere e, peraltro, mi veniva recapitato con due giorni di anticipo. Nel mio caso, la certificazione dava atto della compresenza di tutti e quattro i DSA (dislessia, disortografia, disgrafia e discalculia) e di una avvenuta «compensazione da talento» degli stessi, che si verifica quando ciascuno di noi prova, attraverso soluzioni personali, a disinnescare le interferenze prodotte dalle difficoltà e a immaginare una via alternativa per aggirare gli ostacoli.

Ora sentivo di dover cominciare a lavorare per rimuovere il pregiudizio che corrompe e inquina, sistematicamente, ogni valutazione condotta sulle persone con DSA e che, inevitabilmente, impedisce alle comunità di investire con fiducia nei nostri confronti.

I DSA, ancora oggi, sono contrassegnati da un perdurante e prevalente significato negativo, fortemente radicato anche nella cultura e nell’esperienza di chi ne è portatore. Purtroppo, essere dislessici ci induce a sentirci sbagliati e in difetto e perciò ci costringe, ogni volta che non si può fare diversamente, a nascondere quasi con un senso di colpa i nostri DSA, considerandoli qualcosa di vergognoso, imbarazzante o inopportuno su cui è necessario tacere, con la conseguenza che oggi sono ancora troppo poche le persone che hanno trovato il coraggio di parlarne pubblicamente.

Naturalmente, sono il primo a riconoscere che questa reazione non solo è legittima, ma a volte anche necessaria per proteggerci dal dolore che abbiamo subito o che continuiamo a subire a causa di persone con atteggiamenti aggressivi e irrispettosi, sempre pronte a giudicare e quasi mai a comprendere. Tuttavia, se nessuno di noi si attiverà per sovvertire il significato negativo riconnesso ai DSA, per dissipare questo infondato pregiudizio dalle opinioni che dominano la nostra cultura e le convinzioni stesse delle persone con DSA, allora continueremo ad essere condannati a rivivere questa esperienza con sofferenza, quando invece, al contrario, una nostra apertura potrebbe spalancarci straordinarie opportunità di crescita. Del resto, se oggi il mercato del lavoro, nonostante i progressi di questi ultimi anni, resta ancora un terreno ostile alle persone con DSA, è innegabile che una parte della responsabilità sia imputabile anche a noi stessi, che abbiamo deliberatamente scelto di non mettere il datore di lavoro a conoscenza dei nostri DSA e, quindi, nella condizione di aiutarlo ad aiutarci.

Sono consapevole che parlarne al proprio datore di lavoro può rivelarsi controproducente (lo ha confermato anche un rapporto dell’Associazione Italiana Dislessia). 

Anche nel mio caso, soprattutto all’inizio del mio percorso lavorativo, lo è stato: ma posso assicurare che le persone che sono disposte ad aiutarci sono in numero molto maggiore rispetto a quelle che ci volterebbero le spalle. Persone con atteggiamenti negativi e offensivi ci sono e ci saranno sempre, ma - per citare Piero Calamandrei nelle sue lezioni sulla Costituzione - non dobbiamo permettere loro di spegnere la nostra ardente «fiamma spirituale», certi che troveremo sulla nostra via figure speciali, pronte a premiare il nostro coraggio e la nostra onestà.

Tutti noi possiamo fare moltissimo, se lo vogliamo, indipendentemente dalle etichette che ci hanno cucito addosso. I voti non esauriscono mai il giudizio sulla nostra intelligenza; ci possono dire alcune cose, ma sicuramente non tutto e non abbastanza. Quindi, la nostra condizione, per quanto ci renda a disagio, non può e non deve essere di ostacolo alle nostre iniziative e, soprattutto, al futuro che sapremo costruirci con quelle iniziative. 

Personalmente, il fatto che abbia deciso di parlare apertamente e con fiducia dei miei DSA nel contesto del mercato del lavoro, non deriva da una storia di successo a scuola e all’università. Non l’ho fatto perché ero bravo a scuola e all’università, condizione che naturalmente può aiutare a parlarne più serenamente. La mia storia, infatti, è come quella di tanti, fatta di alti e bassi, di battute d’arresto e di ripartenze, costruita essenzialmente sull’impegno, sulla costanza e sulla tenacia del duro lavoro che non ammette scorciatoie.

Ho parlato perché mi sentivo altrettanto forte e sicuro, come il migliore degli studenti, per una ragione: io avevo studiato molto di più del migliore degli studenti anche se i miei voti dicevano il contrario. Questo ad esprimere che si può essere dislessici, che si può essere insoddisfatti di risultati quasi sempre al di sotto delle aspettative, ma che, se si è disposti a resistere e lottare per crescere un centimetro alla volta, si può essere orgogliosi della persona che si è, anche se alle spalle non si è vissuta una esistenza da primi della classe. In altre parole, non è vi nulla di vergognoso o di limitante nell’avere un DSA, anche quando le cose non vanno come davvero vorremmo o come sarebbe giusto che andassero.

Perciò, crescendo, diventa cruciale, secondo il proprio giudizio e naturalmente con i propri tempi, imparare a capire quando è opportuno aprirsi all’esterno e parlare con equilibrio e serenità dei propri DSA, per cercare e ottenere il contributo di chi può aiutarci a fare di più e sempre meglio.

Nel mio caso, però, vi è stato anche un elemento in più, perché assecondare questa scelta per me è stato ancora più facile: correva l’anno 2012, mi ero appena laureato in giurisprudenza e, in quel preciso momento storico, nessuno osava parlare di DSA nel mercato del lavoro e, in particolare, nell’avvocatura, orizzonte in cui mi stavo proiettando. Di conseguenza, non potevo eludere questa responsabilità.

Dato che nessuno prima di me aveva portato pubblicamente il tema dei DSA all’attenzione dell’avvocatura, sentivo che era mio compito impegnarmi per creare le condizioni affinché chi sarebbe arrivato dopo di me si potesse avvalere di quelle regole che anche io avrei sperato di trovare già in atto, pronte per essere applicate.

La lunga marcia verso un’effettiva parità

Tutto nasce da una lacuna normativa della legge n. 170/2010 che, nel riconoscere per la prima volta i DSA e prevedere specifici strumenti di supporto per neutralizzare l’interferenza dei disturbi sulle performance e sul rendimento dell’alunno/studente con DSA, aveva completamente tralasciato dalle sue previsioni il mercato del lavoro, con la conseguenza che le misure previste potevano essere riconosciute e applicate solo nel contesto scolastico e universitario ma, a rigore, non in quello lavorativo.

Tuttavia questa legge è stata comunque cruciale, in quanto si è trattato della prima legge introdotta in Italia in materia di DSA. Prima di tale intervento, infatti, la consapevolezza sui DSA e le tutele e i diritti a favore degli studenti con DSA erano molto deboli, se non inesistenti, perché completamente ignorati da parte delle scuole, che finivano inevitabilmente per ledere il diritto all’istruzione delle persone con DSA, presenti già in numero significativo nelle classi (le stime complessive di AID parlano di 3 milioni di dislessici in Italia, pari al 3 - 5% della popolazione; e, in particolare, per ciò che attiene il mercato del lavoro, di un milione e 200 mila lavoratori con DSA, con l’ingresso ogni anno nel mercato del lavoro di 12 mila persone con tale diagnosi).

La legge n. 170/2010 ha avuto molteplici meriti, a cominciare dal riordino, dall’unificazione e dalla razionalizzazione della normativa, molto frammentata fino a quel momento.

Il riconoscimento legislativo dei DSA, unitamente alla definizione scientifica a loro assegnata, è stato un altro grande passo della legge, che ha stabilito come:

  • «Per dislessia si intende un disturbo specifico che si manifesta con una difficoltà nell'imparare a leggere, in particolare nella decifrazione dei segni linguistici, ovvero nella correttezza e nella rapidità della lettura.
  • Per disgrafia si intende un disturbo specifico di scrittura che si manifesta in difficoltà nella realizzazione grafica. 
  • Per disortografia si intende un disturbo specifico di scrittura che si manifesta in difficoltà nei processi linguistici di transcodifica.
  • Per discalculia si intende un disturbo specifico che si manifesta con una difficoltà negli automatismi del calcolo e dell'elaborazione dei numeri».

Altro merito della legge è stato quello di specificare dettagliatamente quali sono le sue finalità, tra le quali in particolare:

  • Garantire il diritto all'istruzione;
  • Favorire il successo scolastico, anche attraverso misure didattiche di supporto, garantire una formazione adeguata e promuovere lo sviluppo delle potenzialità;
  • Ridurre i disagi relazionali ed emozionali;
  • Adottare forme di verifica e di valutazione adeguate alle necessità formative degli studenti;
  • Assicurare eguali opportunità di sviluppo delle capacità in ambito sociale e professionale.

Infine, la legge n. 170/2010 per attuare le finalità appena citate ha introdotto a favore degli studenti con DSA l’applicazione di una serie di misure di supporto, dirette a creare le condizioni ottimali per l’espletamento della prestazione da valutare (le cd. misure compensative e dispensative). Si tratta di strumenti che hanno lo scopo di riequilibrare la condizione di svantaggio in cui incolpevolmente vengono a trovarsi gli studenti con DSA, in quanto l’adozione di tali misure consente di evitare a questi ultimi situazioni di affaticamento e di disagio in compiti direttamente coinvolti dai disturbi.

L’anno successivo all’approvazione della legge n. 170/2010, a completamento della sua disciplina, è stato emanato dal Ministro della Istruzione, Università e Ricerca un decreto attuativo della legge sui DSA (il n. 5669 del 12 luglio 2011) con le allegate linee guida (di recente modificate).

Tuttavia, nessuna di queste previsioni regolamentava le situazioni e le fasi della vita successive al diploma o alla laurea, in cui una persona con DSA, crescendo, si sarebbe venuta a trovare. 

Consapevole della vulnerabilità di questi diritti nel contesto del mercato del lavoro, mi sono interrogato su come potessi agire per avviare un dibattito volto a promuovere prese di posizione che potessero colmare tale lacuna. In quel momento, e la cosa mi riguardava da vicino, non era prevista l’applicazione delle predette misure in sede di esame di avvocato. In qualità di praticante avvocato, intenzionato a sostenere l’esame di abilitazione, mi confidai con l’avvocato Alarico Mariani Marini, allora consigliere del Consiglio Nazionale Forense che decise immediatamente di istituire in seno alla Scuola Superiore dell’Avvocatura, di cui era vicepresidente, un gruppo di lavoro sui DSA con l’obiettivo di individuare le modalità con le quali prevedere l’applicazione di misure analoghe a quelle dettate dalla legge 170/2010 anche in sede di esame d’avvocato.

L’attività del gruppo di lavoro venne subito resa nota a livello nazionale, in modo da rendere pubblica l’iniziativa al fine di darne ampia conoscibilità e diffusione, per informare e intercettare altri eventuali candidati con DSA interessati all’applicazione delle misure.

Questo gruppo lavorò intensamente per quasi due anni, dal 2013 a fine 2014, riunendo avvocati, accademici, medici, linguisti e in alcuni casi magistrati e funzionari di Ministeri che collaboravano con la Scuola. La composizione del tavolo non poté che essere multidisciplinare: avevamo bisogno di esperti anche in ambiti che esulavano da quello del diritto, come nel caso della individuazione delle misure più idonee in relazione alle aree di debolezza della persona con DSA e alle modalità di svolgimento delle prove, così da predisporre misure tali da creare quelle opportune condizioni per l’espletamento della prestazione da valutare.

Alla fine di questo percorso, abbiamo formalizzato i risultati degli studi e delle valutazioni svolte in una istanza che sarebbe stata depositata presso l’Ufficio Esami del Distretto di Corte di Appello in cui il candidato con DSA risultava iscritto ai fini dell’esame d’avvocato.

In questa istanza, allegando la diagnosi che certificava i DSA e ne spiegava le conseguenze sulle prestazioni da valutare, si dava atto che il candidato richiedente, nel caso di mancata applicazione delle misure compensative e dispensative disciplinate dalla legge n. 170/2010, avrebbe subito una lesione costituzionale del principio di uguaglianza, a causa della violazione dell’art. 3 della Costituzione, nonché una violazione della CEDU e della Carta europea dei diritti fondamentali (Carta di Nizza).

Quanto alle misure richieste, ci si orientò per due soli interventi, la cui efficacia si contemperava in modo ottimale con la necessità di non aggravare il carico di lavoro dell’Ufficio Esami della Corte di Appello, per limitare eventuali argomenti contrari e scongiurarne il rigetto da parte della Commissione Esami. Nello specifico, avevamo richiesto l’assegnazione di un/una dipendente della Corte di Appello, incaricato/a di leggere i passi del codice commentato da me segnalati e di scrivere, su mia dettatura, la prova che sarebbe stata consegnata. In questo modo, potevamo riequilibrare le conseguenze dei DSA che in fase di lettura e scrittura rallentano in modo severo la velocità e compromettono gravemente l’accuratezza di esecuzione del compito da svolgere da parte di persone con DSA.

Nella sessione 2014 fui l’unico candidato in Italia a presentare tale istanza (ulteriori richieste sarebbero arrivate a partire dagli anni successivi nei vari Distretti di Corte d’Appello, ma non fu facile convincere i miei colleghi a presentarle perché la maggior parte di loro temeva che uscire pubblicamente allo scoperto li avrebbe pregiudicati nella professione e resi noti presso la loro comunità come gli avvocati con DSA).

Nel mio caso, l’istanza venne accolta, ma la Commissione d’esame fece molto di più perché con una competenza e una attenzione senza precedenti, dopo aver esaminato la legge n. 170/2010, il decreto attuativo e le allegate linee guida, mi invitò a presentare una seconda istanza volta a richiedere, come previsto dalla normativa stessa, in aggiunta alle misure già approvate, anche l’applicazione del tempo supplementare nella misura del 30% in più. Questa ultima misura anche nel mio caso, in sede d’esame, si sarebbe poi rivelata essenziale.  

Grazie all’accoglimento di queste misure - determinanti per me e per tutti coloro che dopo di me se ne sono avvalsi - ho conseguito l’abilitazione di avvocato nella sessione 2014, con l’orgoglio di aver fatto parte di un gruppo di lavoro che ha contribuito a qualcosa che aveva per me un significato così rilevante: avevamo introdotto nuove tutele e dimostrato allo stesso tempo che i candidati con DSA possono essere ottimi studenti, se adeguatamente supportati con interventi che riequilibrano la condizione di svantaggio da cui incolpevolmente partono.

Da qui in avanti la storia si fa ancora più bella perché a Milano, con l’incoraggiamento di LCA, lo studio in cui lavoro e, in particolare dell’avvocato Giovanni Lega, si è dato avvio con l’Ordine degli Avvocati, a partire dal 2017, ad un progetto sui DSA che, coinvolgendo avvocati, magistrati, accademici, medici, insegnanti, rappresentanti di altre professioni, avrebbe dovuto raccordare le esperienze di ciascuno in funzione della stesura e realizzazione di un programma di azione comune volto a rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo delle potenzialità delle persone con DSA.

Nello specifico, uno dei progetti del programma d’azione deliberato dal gruppo prevedeva la redazione di un accordo, nelle forme del protocollo d’intesa, con il quale volontariamente l’Ordine degli Avvocati e la Corte di Appello di Milano stabilivano che in sede d’esame d’avvocato eventuali candidati con DSA, iscritti presso il Distretto di Corte di Appello di Milano, avrebbero potuto avvalersi delle misure compensative e dispensative dettagliatamente previste dal protocollo stesso. 

Si sarebbe trattato del primo regolamento in materia dettato in Italia, in quanto non esistevano altri precedenti.

Il lavoro di stesura e perfezionamento del protocollo d’intesa sui DSA durò quasi due anni. La parte più impegnativa, anche questa volta, come già accaduto nel corso del lavoro svolto dalla Scuola Superiore dell’Avvocatura, ha riguardato l’individuazione delle misure compensative e dispensative applicabili. 

Il primo protocollo sui DSA venne sottoscritto in data 19 dicembre 2019. Fu un risultato rilevantissimo, perché fu il primo in Italia a disciplinare in modo trasparente l’applicazione delle misure compensative e dispensative a favore di eventuali candidati con DSA in sede d’esame d’avvocato.

Le misure sopra richiamate, a causa della pandemia da Covid-19, sono state successivamente integrate da ulteriori misure, introdotte attraverso la sottoscrizione di un nuovo protocollo sui DSA firmato il 12 aprile 2021, che ha aggiornato il precedente. L’emergenza pandemica ha imposto, per limitare il rischio dell’aumento dei contagi in sede d’esame, che lo stesso si svolgesse secondo nuove modalità, attraverso l’inedita formula dell’orale rafforzato, in luogo delle tre prove scritte.

La conquistata notorietà del secondo protocollo sui DSA, grazie al contributo della stampa, ha reso l’Ordine degli Avvocati di Milano, come già accaduto alla Scuola Superiore d’Avvocatura negli anni precedenti, un punto di riferimento anche per  quei candidati con DSA di altri Distretti di Corte di Appello, che grazie all’assistenza prestata dall’Ordine degli Avvocati di Milano hanno potuto ottenere in sede d’esame nei loro Distretti di appartenenza il riconoscimento delle misure previste a Milano.

Nei mesi successivi all’approvazione del protocollo, il fronte di battaglia per la tutela dei diritti delle persone con DSA da Milano si è spostato a Roma, nelle aule parlamentari, dove il 5 agosto 2021 una vittoria fondamentale per il destino di tutte le persone con DSA è stata realizzata.

Si tratta di un’altra svolta, lungamente attesa, perché con l’approvazione della legge n. 113/2021 di conversione del decreto legge n. 80/2021, avente ad oggetto il reclutamento nelle PA e Ufficio per il processo, è stato introdotto l'obbligo di riconoscere a favore dei candidati con DSA l’applicazione di strumenti compensativi nei concorsi pubblici indetti dallo Stato, Regioni, Comuni, etc. Tale intervento ha avuto il merito di colmare una delle lacune della legge n. 170/2010, le cui previsioni, come già ricordato, non dispongono l’applicazione delle predette misure ai concorsi pubblici, agli esami di abilitazione professionali e a carico dei datori di lavoro del settore privato. 

L’intervento attuato con la legge n. 113/2021, se da un lato risolve il nodo dei concorsi pubblici, dall’altro lascia irrisolte le lacune che impediscono alle richiamate misure di trovare applicazione anche in sede di esami di abilitazione all’esercizio di una professione e presso i datori di lavoro del settore privato.

Di conseguenza, gli esami di abilitazione e il settore privato del mercato del lavoro restano fuori dal perimetro operativo del nuovo intervento legislativo, lasciando le persone con DSA, interessate a queste due aree di carriera, prive di tutela.

Ancora una volta, la Corte di Appello e l’Ordine degli Avvocati di Milano, forti della positiva esperienza riscontrata dall’operatività del protocollo sui DSA, nel settembre 2021 si sono attivati per sottoporre alla Ministra della giustizia Marta Cartabia la possibilità di estendere le misure previste dal protocollo milanese sui DSA a tutti i Distretti di Corte di Appello, in occasione della nuova sessione d’esame d’avvocato 2021.

La Ministra Cartabia, aderendo all’invito, ha avviato al Ministero il lavoro necessario per conseguire questo obiettivo, e il piano è stato attuato nel torno di poche settimane con due provvedimenti: il primo, il decreto legge n. 139/2021, e il secondo, il decreto ministeriale che ha indetto la sessione 2021 dell’esame d’avvocato, con il quale sono state introdotte le disposizioni recanti la disciplina per l’applicazione delle misure compensative.

Per la prima volta, quindi, in sede di esame d’avvocato, a eventuali candidati con DSA, certificati secondo la normativa vigente, in ciascun Distretto di Corte di Appello saranno applicate le misure compensative definite e introdotte dal protocollo di Milano.

È una conquista di civiltà dal valore inestimabile, destinata sicuramente ad incoraggiare l’adozione di interventi analoghi anche rispetto ad altre professioni.

Ancora un ultimo e lunghissimo miglio

Al termine di questa storia e di tante battaglie, è evidente che molta strada è stata percorsa negli ultimi anni, ma molta di più ne resta ancora da fare, se vogliamo raggiungere una piena ed effettiva parità, capace di assicurare quel sistema di eguali chances (di successo) promesse dalla Costituzione, anche a favore di un numero sempre crescente di persone con DSA.

Rispetto agli altri esami di Stato per l’abilitazione all’esercizio di una professione, vi è la necessità di aprire un fronte di intervento analogo a quello avviato presso il Ministero della giustizia, al fine di estendere le misure compensative anche in tali prove.

Sarà necessario avviare una interlocuzione con il Consiglio Nazionale di ogni professione. 

L’obiettivo è quello di incoraggiare i vertici nazionali di ciascun ordine professionale ad imitare la disciplina introdotta dal decreto della Ministra della giustizia.

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Tuttavia il fronte più impegnativo è quello del mercato del lavoro privato, sprovvisto di qualsiasi tutela. 

É qui che andranno concentrati i maggiori sforzi per avviare la transizione normativa verso sistemi e metodi di selezione e sviluppo di carriera sempre più inclusivi ed equi, anche nei confronti delle persone con DSA.

*La versione originaria e più estesa di questo articolo è stata pubblicata su Questione Giustizia il 23 febbraio 2022.

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