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Disturbi del comportamento alimentare: cosa sono, come si manifestano e come si affrontano

3 Agosto 2023 12 min lettura

Disturbi del comportamento alimentare: cosa sono, come si manifestano e come si affrontano

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Dai 16 ai 23 anni, Holly ha sofferto di disturbi alimentari, nello specifico anoressia e bulimia. Aveva sempre avuto problemi col cibo e col suo corpo, ha raccontato Beat, organizzazione britannica che si occupa di dare supporto alle persone con disturbi del comportamento alimentare, e in adolescenza ha iniziato a mangiare sempre meno, a sentirsi addosso un enorme bagaglio emotivo e a pensare che il peso del suo corpo determinasse il suo valore. “L’idea di poter essere ottimista sul futuro, positiva nei miei confronti e libera dall’ossessione verso il cibo e il peso mi sembravano fuori dalla mia portata”, ha detto Holly, che è guarita da oltre dieci anni e ora lavora come terapeuta nel Regno Unito

Che cosa sono i disturbi del comportamento alimentare (DCA)

I disturbi del comportamento alimentare (DCA) sono patologie molto complesse incluse nelle ultime edizioni del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM 5) dell’American Psychiatric Association e della Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD-11) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità alla categoria Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione. I DCA si manifestano attraverso alcuni comportamenti specifici spesso combinati tra loro, come la restrizione delle calorie assunte, una costante attenzione al peso e all’immagine del proprio corpo, e il controllo del cibo per gestire emozioni e pensieri negativi

Soprattutto se non diagnosticati e curati per tempo, possono provocare conseguenze fisiche anche molto gravi, come infezioni, problemi cardiaci, danni permanenti all’apparato digerente, perdita di massa ossea e compromissione della fertilità, e problemi sociali e psicologici come difficoltà a mantenere relazioni stabili, sbalzi d’umore e depressione. Nonostante le diagnosi siano ancora principalmente diffuse tra le ragazze, sta crescendo anche il numero di bambini e adolescenti con DCA insieme alla definizione di nuovi disturbi specifici per il genere maschile.

Per estendere e descrivere più nel dettaglio i DCA nelle loro varie manifestazioni e sulla base delle nuove ricerche e dati disponibili, il DSM 5 , e l’ICD-11 hanno introdotto una serie di cambiamenti importanti ai fini diagnostici. È stato ad esempio aggiunto il disturbo di alimentazione incontrollata, conosciuto anche come binge eating, e nel DSM 5 è stata eliminata l’amenorrea dai criteri diagnostici per l’anoressia nervosa, perché escludeva una grande fetta di popolazione con sintomi composta ad esempio da uomini cisgender e donne in menopausa.

I numeri in crescita per l’Italia

Le ultime stime disponibili sui casi di DCA a livello globale, che tengono conto anche delle modifiche apportate dal DSM 5, risalgono al 2019: in quell’anno, 13,6 milioni di persone avrebbero sofferto di anoressia e bulimia nervose e 41,9 milioni sarebbero stati i casi di binge eating e disturbi della nutrizione o dell’alimentazione con specificazione, categoria diagnostica conosciuta con l’acronimo OSFED (“other specified feeding or eating disorder”) e che include una serie di disturbi alimentari i cui sintomi non rispondono del tutto ai criteri diagnostici di anoressia, bulimia e binge eating

In Italia, le persone che soffrono di un disturbo del comportamento alimentare oggi sarebbero circa 3 milioni. Questi numeri sono il frutto di un incremento che si è verificato negli ultimi anni. In Inghilterra, ad esempio, i ricoveri per disturbi alimentari sono cresciuti del 37% dal 2016 al 2018, mentre in Australia nel 2005 è stata riscontrata una maggiore prevalenza di alcuni tipi di disturbi, come binge eating e digiuno per il controllo del peso, rispetto al 1995. 

In Italia, invece, se tra il 2014 e il 2018 l’andamento dei ricoveri per disturbi alimentari si è mantenuto più o meno costante, gli accessi al pronto soccorso sono quasi raddoppiati. La pandemia e le sue relative misure restrittive hanno poi contribuito a un ulteriore aumento dei casi, sia per il fattore di stress in sé che l’evento ha rappresentato sia per ragioni come la paura di non riuscire a controllare le calorie assunte, un cambiamento netto nella routine, l’isolamento sociale. 

In Australia e nel Regno Unito, ad esempio, chi soffriva di un disturbo alimentare ha riportato dei cambiamenti nel proprio modo di mangiare e un’intensificazione di alcuni comportamenti, come riduzione delle calorie e binge eating, già nelle prime settimane di pandemia. Negli Stati Uniti sarebbero aumentate le richieste di aiuto e di diagnosi di DCA, mentre in Italia le chiamate al numero verde nazionale SOS DCA ad aprile 2020 sono state il 44% in più rispetto ai mesi di gennaio e febbraio dello stesso anno.

Per quanto tutti questi dati indichino chiaramente l’esistenza di un problema, allo stesso tempo non possono che offrire un quadro parziale di una situazione molto complessa e sfaccettata. Da un lato, infatti, grazie alle maggiori conoscenze e ai cambiamenti introdotti dal DSM 5, col tempo è diventato più facile riconoscere e identificare un disturbo alimentare, e questo di per sé ha portato a un aumento dei dati disponibili. Dall’altro lato, però, i disturbi alimentari si conoscono e si studiano ancora poco e, soprattutto, in maniera limitata. Secondo diversi esperti, infatti, nonostante l’alta incidenza dei DCA, la ricerca in questo campo non è ancora sufficientemente finanziata, soprattutto se messa a confronto con altre patologie trattate in ambito psichiatrico. Anche in Italia vi è una carenza di letteratura scientifica a livello nazionale sul tema e i dati a disposizione sono frammentari e non sono raccolti allo stesso modo da tutte le regioni, per cui è difficile misurare e tracciare l’entità del problema.

Molte delle ricerche e degli studi condotti in passato, poi, si sono focalizzati principalmente su anoressia e bulimia nervose, trascurando numerosi altri disturbi che in realtà sono particolarmente se non più diffusi. Questo è dovuto a vari motivi. Tra questi, il fatto che nelle categorizzazioni  diagnostiche per molto tempo anoressia e bulimia erano gli unici disturbi definite come disturbi alimentari con diagnosi specifica, e anche l’ultima edizione, nonostante i cambiamenti importanti, lascia fuori molti disturbi o non ne definisce chiaramente i criteri diagnostici. 

È anche poi una questione di preconcetti e stereotipi, presenti nella ricerca, in ambito clinico e nell’immaginario comune: per molto tempo, i disturbi del comportamento alimentare sono stati infatti associati all’immagine della ragazza bianca, molto magra e benestante, ignorando così l’insorgenza dei DCA in chi non rispondeva a questo stereotipo.

Gli stereotipi e lo stigma che accompagnano i disturbi del comportamento alimentare

Erin Nicole Harrop, ricercatrice universitaria, assistente sanitaria ed esperta di disturbi alimentari e stigma del peso, spiega a Valigia Blu: “Uno dei principali pregiudizi riguardo i DCA è quello per cui si dà per scontato che le persone con un disturbo alimentare siano molto magre o molto grasse, ma in realtà tante di loro non sono considerate ‘troppo magre’. Se ci preoccupiamo soltanto dei corpi magri, perdiamo di vista la maggior parte delle persone che soffrono di un DCA”. 

Un esempio di disturbo alimentare che riguarda persone considerate ‘non sottopeso’ è l’anoressia nervosa atipica, per cui sono presenti tutti i sintomi e i criteri diagnostici dell’anoressia previsti dal DSM, eccetto quello del peso, che invece rientra in un range definito in ambito clinico come ‘normale’. “Le cose stanno un po’ migliorando”, dice Harrop, “perché ci stiamo occupando di più di anoressia atipica, ma molte persone ancora non sanno che anche i corpi grassi possono soffrire di anoressia. L’inedia ha più a che fare con i nutrienti che non vengono assunti che con il modo in cui un corpo appare”. 

Anzi, la ricercatrice ha spiegato che “nella letteratura scientifica sui DCA le persone grasse sono considerate ad alto rischio di sviluppare disturbi alimentari e penso questo dipenda dal fatto che subiscono maggiore pressione da parte di amici, familiari e medici per perdere o tenere sotto controllo il proprio peso. Questi messaggi, a prescindere da quanto siano mossi da buone intenzioni, sono strettamente connessi alla possibilità di sviluppare un disturbo alimentare”. 

Secondo Harrop, questo è vero specialmente per bambine e bambini: “Quando iniziamo a etichettare i corpi dei bambini, soprattutto se sono molto piccoli, come ‘troppo grandi’ o ‘troppo piccoli’, quando mandiamo questo tipo di messaggi sui loro corpi definendoli sbagliati, questo può aumentare l’ansia e l’attenzione che loro rivolgeranno al proprio corpo, alla propria immagine, al proprio peso”.

Sebbene infatti ad oggi non si abbia ancora la certezza di quali siano le cause dei DCA, le pressioni sociali e lo stigma sul peso sono considerati tra i principali fattori di rischio insieme all’aver vissuto un’esperienza traumatica, essere cresciuti con persone con problemi di dipendenze o in contesti familiari in cui si dà molto importanza al giudizio altrui. 

Come le hanno riportato i suoi pazienti grassi con disturbi alimentari che hanno provocato un dimagrimento, per Harrop “la prima cosa che si sentono dire è quanto meraviglioso sia che abbiano perso peso e quanto bene stiano”. Lo stesso succede, ha detto la ricercatrice, negli studi medici: “La maggior parte delle volte, quando le persone grasse vanno dal medico e hanno perso molto peso, la reazione automatica è ‘Congratulazioni, qualunque cosa tu abbia fatto, continua a farla’. A volte le persone dicono anche ‘Fai ancora di più’. Molto raramente nelle mie ricerche ci sono stati medici che hanno messo in relazione un disturbo alimentare con la perdita di peso”.

L’idealizzazione della magrezza “ci porta a considerare i corpi magri come ideali e i corpi grassi come meno desiderabili”, spiega Harrop, ma, come ha spiegato anche la psicologa e psicoterapeuta Raffaela Vanzetta, non è tanto una questione di voler aderire a dei canoni di bellezza: “La magrezza nella società occidentale ha un valore ben più ampio e profondo. Sono magre le donne di successo, la magrezza è rappresentazione fisica di autocontrollo, disciplina, determinazione e salute”: rappresenta “il vivere corretto. Chi è magra ha fatto tutto giusto”, ha scritto Vanzetta.

A idealizzare la magrezza e attribuire un valore morale ai corpi sulla base del peso è la cosiddetta ‘cultura della dieta’, sistema di pensiero che si manifesta attraverso la promozione di diete e abitudini alimentari restrittive, il controllo costante delle calorie assunte, l’associazione tra dimagrimento e salute e un’idea del grasso come fallimento e colpa. La cultura della dieta pervade ogni aspetto della nostra vita quotidiana, dai commenti ai corpi altrui, la distinzione tra cibi “buoni” e “cattivi” sulla base delle calorie e l’idea di dover sempre compensare il cibo assunto con l’esercizio fisico, fino alle pubblicità di prodotti dimagranti, gli articoli che consigliano modi per “superare la prova costume” e i social media, sempre più sotto accusa per la diffusione di contenuti problematici se non del tutto pericolosi, soprattutto per le persone più vulnerabili a sviluppare un disturbo alimentare, per chi ne soffre e per coloro che ne hanno sofferto in passato.

Sebbene già i media tradizionali, quali tv e riviste, abbiano giocato e giochino ancora un ruolo importante nel rapporto tra adolescenti e immagine di sé, piattaforme come Instagram, TikTok, Snapchat e YouTube, molto usate dagli adolescenti, si basano sulla condivisione di immagini e su un sistema di visualizzazioni e feedback che può portare a una maggiore insoddisfazione corporea, sia per l’ideale di corpo irreale promosso sui media sia per il confronto e la maggiore attenzione al proprio corpo che ne deriva. E sono soprattutto le e gli adolescenti con un alto livello di insoddisfazione corporea quelli più a rischio di sviluppare comportamenti disfunzionali e disturbi alimentari

I social media hanno anche costituito un importante fattore di stress per le persone con DCA durante la pandemia e sono considerati problematici anche per le donne che hanno appena partorito, già particolarmente a rischio di sviluppare un’insoddisfazione verso la propria immagine. 

A questo proposito, Harrop spiega a Valigia Blu che “momenti di transizione nella vita, come vivere un divorzio in famiglia, passare dalle scuole elementari alle medie, la pubertà, l’adolescenza, andare all’università, sono spesso associate a un aumento del rischio di sviluppare un DCA”, e lo stesso vale per l’età adulta: “Avere un figlio, vedere i figli che vanno via di casa, andare in pensione, o semplicemente notare cambiamenti al proprio corpo, possono essere importanti fattori scatenanti di cui dovremmo essere consapevoli”.

I problemi per una diagnosi tempestiva

A causa però dello stereotipo della giovane ragazza magra e bianca che nell’immaginario comune è associato ai disturbi alimentari, rischiamo di perdere di vista intere fasce di popolazione. Oltre alle persone grasse, anche le persone di mezza età o più anziane possono sviluppare disturbi alimentari.

Anche le persone transgender sono considerate ad alto rischio di sviluppare disturbi alimentari, ma ancora poche sono le ricerche e le conoscenze su effetti ed esigenze specifiche della comunità trans con DCA. I disturbi alimentari sono poi molto diffusi tra persone razzializzate: in Italia, ad esempio, è stato notato un incremento di casi tra persone di origini cinesi e nigeriane, mentre alcuni studi di revisione e sintesi hanno riportato un’alta incidenza di DCA tra uomini nordamericani di origini asiatiche e donne nere. Piuttosto, tra le questioni sollevate da molti esperti vi è la necessità di indagare il ruolo che le discriminazioni e l’intersezione tra le identità hanno nello sviluppo di disturbi alimentari, e l’esigenza di dare maggiore spazio a persone con background, identità e prospettive diverse, sia tra le fasce di popolazione analizzate negli studi sia negli stessi gruppi di ricerca.

I luoghi comuni sui DCA frenano sia la ricerca sia la capacità di riconoscere in ambito medico e familiare un disturbo alimentare tra coloro che non corrispondono a un’immagine stereotipata. Non identificare per tempo o affatto un disturbo alimentare però ha delle conseguenze deleterie sulla vita e la salute delle persone. Di DCA si può infatti guarire, ma è fondamentale agire in maniera tanto tempestiva quanto adeguata alla situazione. “A rendere più complicato il problema è il fatto che i disturbi alimentari sono in un certo senso come le dipendenze”, dice Harrop a Valigia Blu, perché “le persone che ne soffrono non si rendono conto di quanto sia grave, spesso negano o cercano di nascondere il problema per mantenere il disturbo. Molte volte però penso che semplicemente non ricevono le domande giuste”. 

Per fare le domande giuste, però, è necessario avere una formazione specifica, che riesca innanzitutto a riconoscere come soffrire di disturbi alimentari sia diverso da persona a persona. L’idea stessa ad esempio che i DCA siano esclusivamente legati a un’insoddisfazione nei confronti della propria immagine e del proprio corpo può portare a non riconoscere la radice del problema e a fornire un supporto non sufficiente. In alcuni casi, infatti, i disturbi del comportamento alimentare sono connessi a uno stress post-traumatico, per cui il DCA è una forma di reazione al trauma subito, e il trattamento non può prescindere da ciò. È per questi motivi che, in fase di valutazione quanto di cura, risulta necessario un approccio multidisciplinare, che coinvolga professionisti in ambito psicologico-psichiatrico e clinico-nutrizionale, che non solo dovranno lavorare in sinergia, ma anche avere conoscenze e formazione adatte a trattare pazienti con storie, esperienze e identità differenti. Questo, in Italia, è possibile solo in maniera limitata. 

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Nonostante i tanti passi in avanti fatti, come la mappatura e il censimento dei servizi territoriali disponibili, l’istituzione di tavoli tecnici, le indicazioni per il riconoscimento precoce e la maggiore attenzione e sensibilizzazione rivolta negli ultimi anni ai disturbi del comportamento alimentare, l’offerta assistenziale presenta ancora molti punti critici, tra cui la carenza di servizi specifici per i minori di 14 anni, l’assenza di gruppi di lavoro multidisciplinari interni ad alcuni ospedali o aziende sanitarie, poche risorse disponibili, la forte differenza tra Nord e Sud e la totale mancanza di tutti o alcuni servizi in alcune regioni, come il Molise e la Sardegna. Il concetto di cura dei disturbi alimentari è inoltre strettamente connesso a quelli di prevenzione ed educazione, la cui responsabilità, secondo Raffaela Vanzetta, in Italia è di solito lasciata solo “ai clinici e alle associazioni dei familiari”.

“Fare prevenzione”, ha scritto Vanzetta, “significa contrastare i fattori di rischio e promuovere i fattori protettivi, oltre a informare e formare chi è a contatto con potenziali persone a rischio”, ma “il lavoro da fare è complesso” perché richiede di agire sull’individuo e sulla società, sul comportamento dei singoli e su problemi strutturali. Il primo passo è che, in ambito clinico e sociale, si raggiunga la consapevolezza che chiunque, a prescindere da genere, etnia, età, background sociale e personale, peso corporeo, può sviluppare un disturbo del comportamento alimentare e anche le persone apparentemente “sane” ne possono soffrire. "Gli stessi social media rappresentano una fonte importante di divulgazione e sensibilizzazione, ma anche di condivisione di storie personali, in cui le persone possono riconoscersi e trovare l'ispirazione e la forza di chiedere aiuto.

Sradicare lo stereotipo della giovane ragazza bianca e molto magra che soffre di DCA è essenziale sia per fare una prevenzione accurata sia per dare la possibilità a chiunque soffra di disturbi alimentari ma non si riconosce in quell’immagine stereotipata di poter chiedere e ricevere aiuto adeguato, tempestivo ed efficace.

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