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La guerra in Ucraina e l’articolo di Kuperman: quando la disinformazione si maschera da analisi

2 Aprile 2025 17 min lettura

La guerra in Ucraina e l’articolo di Kuperman: quando la disinformazione si maschera da analisi

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17 min lettura

Nei giorni scorsi è stato molto discusso e condiviso anche da figure autorevoli un articolo, pubblicato su The Hill da Alan J. Kuperman, docente di strategia militare e management dei conflitti all’Università di Austin, negli Stati Uniti, dal titolo “Sadly, Trump is right on Ukraine”. L’articolo sostanzialmente afferma che “gli ucraini e l’ex presidente USA, Joe Biden” – e “non solo il presidente russo, Vladimir Putin” – “hanno responsabilità significative per lo scoppio e il perdurare della guerra in Ucraina”, riproponendo alcuni leit motiv della disinformazione propagandata dal Cremlino sulle vicende degli ultimi dieci anni al confine tra Russia e Ucraina. 

Kuperman elenca tre punti per sostenere le sue argomentazioni: 1) Sono stati gli ucraini ad avviare le violenze nel 2014 che hanno poi provocato l’invasione iniziale della Russia nel sud-est dell’Ucraina, inclusa la Crimea; 2) Zelensky ha contribuito a un'estensione della guerra violando gli accordi di Minsk del 2014 e del 2015 con la Russia e chiedendo l'aiuto militare e l'adesione alla NATO; 3) Biden ha contribuito in modo determinante all'escalation e al perpetuarsi dei combattimenti incoraggiando l’Ucraina “a prolungare la guerra in attesa di un aiuto militare statunitense che alla fine si sarebbe rivelato decisivo, ma che Biden ha poi rifiutato di fornire per paura di un'escalation nucleare”. In questo modo Biden avrebbe illuso gli ucraini, favorito una carneficina evitabile e messo l’Ucraina nelle condizioni di arrivare probabilmente a un accordo finale a condizioni peggiori degli accordi di Minsk.

L'articolo ha immediatamente suscitato la reazione e i commenti di tante persone che sui social hanno segnalato le tante incongruenze presenti nella ricostruzione di Kuperman. 

Il suo articolo, più che spazzare tutta la “disinformazione spacciata per fatti” sulla guerra in Ucraina, è anzi un manuale di come funziona la disinformazione pro-Cremlino, distorcendo le ricostruzioni storiche, colpevolizzando le vittime e ricorrendo a false equivalenze che finiscono per relativizzare le responsabilità fra Russia e Ucraina. Un modo per “inquinare” la discussione pubblica sul conflitto in Ucraina, mascherato da giornalismo o storiografia d’inchiesta, che finisce per fare da sponda alla propaganda russa, come ricordava Andrea Braschayko in questo approfondimento sui fatti che hanno portato all’invasione del 2022.

Qui di seguito evidenziamo le omissioni, le incongruenze e alcune distorsioni presenti nel breve articolo di Kuperman.

Sono stati i militanti ucraini di destra ad avviare la violenza nel 2014

L'articolo afferma falsamente che “militanti di destra” hanno dato inizio alle violenze di Maidan nel 2014 e che questo ha “provocato” l'invasione russa.

Cosa scrive Kuperman:

“All'epoca, l'Ucraina aveva un presidente filorusso, Viktor Yanukovich, che aveva vinto le elezioni libere ed eque nel 2010 con un forte sostegno da parte dei russi etnici nel sud-est del Paese.

Nel 2013, ha deciso di perseguire la cooperazione economica con la Russia piuttosto che con l'Europa come precedentemente pianificato. Gli attivisti filo-occidentali hanno risposto con un'occupazione principalmente pacifica della piazza Maidan della capitale e degli uffici governativi, fino a quando il presidente alla fine ha offerto sostanziali concessioni a metà febbraio 2014, dopo di che si sono ritirati.

Proprio in quel momento, tuttavia, alcuni militanti di destra che si affacciavano sulla piazza iniziarono a sparare alla polizia ucraina e ai manifestanti rimasti. La polizia rispose al fuoco contro i militanti, che poi affermarono falsamente che la polizia aveva ucciso i manifestanti disarmati. Indignati da questo apparente massacro da parte del governo, gli ucraini si riversarono nella capitale e cacciarono il presidente che fuggì in Russia per proteggersi.

Putin ha risposto schierando truppe in Crimea e armi nella regione sud-orientale del Donbas a favore dei russi etnici che ritenevano che il loro presidente fosse stato rovesciato in modo antidemocratico. Anche se questo retroscena non giustifica l'invasione della Russia, spiega che non è stata certo ‘non provocata’.”

Questo tipo di revisionismo storico gioca sulla scarsa familiarità di gran parte dell’opinione pubblica con la storia dell'Ucraina, giustificando le azioni della Russia.

Secondo Kuperman, 1) Yanukovich vince le elezioni nel 2010 con il sostegno del sud-est russo del paese. Nel 2013 decide di perseguire la cooperazione con la Russia e interrompere il percorso intrapreso con l’Unione Europea; 2) Le proteste di Maidan iniziano pacificamente e poi portano alla fuga di Yanukovich in Russia dopo l’intervento dei militanti di destra che avrebbero tramato per rovesciare il governo; 3) Putin in risposta alla fuga di Yanukovich schiera le truppe in Crimea.

I fatti però dicono altro:

1) Yanukovich stava imprimendo una stretta repressiva, con un controllo sul sistema giudiziario, sulle forze dell’ordine e sull’economia che stava avviando l’Ucraina verso una china simile a quella bielorussa. 

In particolare, le sue politiche stavano preservando gli interessi e l’influenza della rete degli oligarchi sulla fragile democrazia ucraina, ricevendo in premio l’arricchimento del suo clan familiare più stretto. Il Partito delle Regioni, di cui Yanukovich era espressione e leader, era infatti uno strumento dell’élite politico-economica del clan del Donbas, finanziato dagli oligarchi Rinat Achmetov (a sua volta parlamentare di quello stesso partito) e Dmytro Firtaš. 

Una volta diventato presidente, Yanukovich inizia un processo di accentramento di potere, ribaltando le modifiche alla Costituzione che avevano creato un sistema di pesi e contrappesi fra presidenza e premierato (di cui pure lo stesso Yanukovich aveva beneficiato nel 2006, mutilando i programmi rivoluzionari del rivale Juščenko). L’indipendenza del sistema giudiziario era sempre più una chimera, come mostrato anche dall’arresto-farsa di Julija Tymošenko, l’altro volto della Rivoluzione Arancione, contro la quale aveva vinto il ballottaggio presidenziale nel 2010.

Nel gennaio del 2014, arriva infine l’approvazione da parte del Parlamento a maggioranza regionalista delle leggi repressive contro la libertà di parola e di stampa. Un copia-incolla del modus operandi del Cremlino verso l’opposizione russa, persino per quanto riguarda l’individuazione della figura giuridica di agente straniero per giornalisti e ONG. 

2) La piazza di Maidan era eterogenea, prevalentemente giovane e cittadina, europeista e pro-democratica, espressione di una società civile stanca del conservatorismo nostalgico di Yanukovich e che si aggregava intorno ad alcuni punti comuni: una feroce lotta alla corruzione e alla violenza statale, coperta da un sistema giudiziario inaffidabile. In piazza c’erano anche sindacati e anarchici. A Maidan si invocava un cambiamento radicale dell’Ucraina. 

La propaganda russa ha cercato subito di raccontare la protesta come se fosse voluta dai militanti di destra. In effetti le bandiere rossonere dei nazionalisti di estrema destra di Pravij Sektor e di Svoboda (partito all’epoca al 12%) erano presenti – una sorta di braccio armato di autodifesa autoproclamato – ma in maggioranza c’erano quelle ucraine ed europee. 

Per quanto riguarda la ricostruzione sugli scontri in piazza, i fatti non sono andati come ricostruito da Kuperman che negava gli attacchi della polizia a manifestanti disarmati. Come mostra il documentario di Evgeny Afineevsky ‘Winter on Fire’, attraverso testimonianze audiovisive di prima mano, gli attivisti di Maidan vengono fermati e torturati anche nelle strade secondarie di Kyiv, mentre negli scontri in centro muoiono anche 13 poliziotti. Il primo manifestante a morire in piazza sarà uno studente ventunenne di origini armene, Serhiy Nahoyan, senza alcuna affiliazione politica. Fra i 79 ospedalizzati della notte del 30 novembre ci furono studenti e studentesse, e non militanti del movimento nazionalista. Fra i manifestanti, sono almeno 100 i morti (la Sotnja celeste, cioè “centinaio” in ucraino, diverrà una memoria collettiva della Rivoluzione) e oltre 2.500 i feriti, riferirà Amnesty anni dopo, puntualizzando come molti di essi non abbiano ricevuto giustizia per i crimini commessi dalla polizia ucraina nemmeno dopo la fine del regime filorusso, a causa dei numerosi depistaggi nelle indagini

Come ha ricostruito un’ampia analisi con video geolocalizzati e sincronizzati, ripresa nel 2018 dal New York Times, la maggior parte dell’unità di Berkut impiegata per reprimere la protesta si è poi rifugiata in Russia, la quale ha ovviamente rifiutato l’estradizione. 

3) Putin non ha invaso la Crimea e schierato le truppe al confine sud-orientale per difendersi dal ribaltamento del governo di Yanukovich. Innanzitutto, Yanukovich non è stato rovesciato solo dalla piazza. A febbraio 2014 il parlamento, tra cui una parte consistente del suo stesso partito, vota l'impeachment di Yanukovich che poi fugge in Russia. 

Quella di Putin non fu una reazione passiva. Anzi, il Cremlino è riuscito a catalizzare il malcontento della minoranza russofona, di cui, come detto in precedenza, Yanukovich era punto di riferimento, e ha infiltrato agitatori e militari per destabilizzare il paese mentre, con l’altra mano, invadeva la Crimea. La costituzione dei battaglioni filorussi, la presenza tra i loro capi di cittadini russi (attivi nei servizi segreti o nelle unità speciali) e la penetrazione di uomini e mezzi militari dalla Russia, rendono difficile se non impossibile descrivere gli eventi del Donbas come una guerra civile. 

L’Ucraina orientale è diventata teatro di un conflitto che, fino al 2015, ha registrato circa 14mila morti tra russi e ucraini, in prevalenza soldati di entrambe le parti, di cui circa tremila civili (di questi, il 10% stranieri per lo più occidentali sull'aereo abbattuto dai separatisti nel luglio del 2014). 

La fonte su cui si basa parte della ricostruzione di Kuperman è Ivan Katchanovski che, come spiega Cathy Young su The Bulwark, ha fornito una versione un po' tendenziosa dei fatti di Maidan omettendo alcuni particolari e dando risalto a quelli che gli facevano più comodo per sostenere che sono stati i manifestanti a dare inizio alla violenza.

Scrive Young: 

“Le voci secondo cui le uccisioni erano un'operazione sotto falsa bandiera volta a rovesciare Yanukovich e installare un governo filo-occidentale iniziarono a circolare quasi immediatamente. Nessuno ha fatto di più per dare a questa teoria del complotto una copertura quasi rispettabile di Ivan Katchanovski, uno scienziato politico nato in Ucraina all'Università di Ottawa. Katchanovski è autore di diversi articoli sull'argomento; pochi altri studiosi prendono sul serio il suo lavoro, che è generalmente considerato politicamente motivato. È, tuttavia, popolare non solo tra la macchina della propaganda russa, ma anche tra gli scettici ucraini in Occidente, dal sociologo britannico di destra Noah Carl ai sinistrorsi americani Katie Halper e Aaron Maté.”

Secondo una sentenza del tribunale 40 dei 48 manifestanti morti a Maidan sono stati uccisi dalle forze di polizia e quattro dei cinque uomini accusati, ex ufficiali della polizia antisommossa Berkut, sono stati giudicati colpevoli. In otto casi, secondo la corte, non si possono escludere altri colpevoli per mancanza di prove. In parte, il tribunale si è basato sul fatto che i colpi sono stati sparati da luoghi che non erano controllati dalla Berkut in quel momento, come l'Hotel Ukraina e le sue vicinanze. 

Questo è sufficiente per Katchanovski per sostenere la tesi secondo cui dietro gli scontri di Maidan ci fosse la destra che aveva l’obiettivo di far saltare Yanukovich. Secondo Katchanovski, le condanne si baserebbero su “esami balistici forensi fabbricati”. Una versione possibile proprio per l’assenza di indagini complete, a causa di insabbiamenti e depistaggi provenienti da più direzioni.

“Zelensky ha provocato la Russia”

L'articolo sostiene che Zelensky abbia provocato l'invasione del 2022 rifiutando gli accordi di Minsk, spostando la responsabilità della guerra dall'aggressore (la Russia) alla vittima (l'Ucraina) e dando l’idea che l'Ucraina non volesse altro che arrivare all’invasione. 

Scrive Kuperman:

“Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha contribuito a un'estensione della guerra violando gli accordi di pace con la Russia e chiedendo l'aiuto militare e l'adesione alla NATO. Gli accordi, noti come Minsk 1 e 2, erano stati negoziati sotto il suo predecessore, il presidente Petro Poroshenko, nel 2014 e nel 2015 per porre fine ai combattimenti nel sud-est e proteggere le truppe in pericolo.

L'Ucraina doveva garantire al Donbas una limitata autonomia politica entro la fine del 2015, che Putin riteneva sufficiente per impedire all'Ucraina di aderire alla NATO o di fungere da base militare per essa. Purtroppo, l'Ucraina ha rifiutato per sette anni di rispettare tale impegno.

Zelensky ha persino fatto campagna nel 2019 con la promessa di attuare finalmente gli accordi per prevenire ulteriori guerre. Ma dopo aver vinto le elezioni, ha rinnegato la promessa, apparentemente meno preoccupato di rischiare la guerra che di apparire debole nei confronti della Russia.

Zelensky ha invece aumentato le importazioni di armi dai paesi della NATO, il che è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso per Putin. Così, il 21 febbraio 2022, la Russia ha riconosciuto l'indipendenza del Donbas, ha schierato truppe lì per il “mantenimento della pace” e ha chiesto a Zelensky di rinunciare alla sua ricerca di assistenza militare e di adesione alla NATO. 

Quando Zelensky si rifiutò nuovamente, il 24 febbraio Putin ampliò massicciamente la sua offensiva militare. Volontariamente o meno, Zelensky ha provocato l'aggressione russa, anche se questo ovviamente non giustifica i successivi crimini di guerra di Mosca”.

Questa ricostruzione rievoca le recenti dichiarazioni di Trump (e quanto sostenuto a più riprese dal Cremlino) secondo cui sarebbe stata l’Ucraina a iniziare la guerra. In buona sostanza, secondo Kuperman, Zelensky avrebbe violato gli accordi di Minsk spingendo poi Putin a riconoscere le repubbliche del Donbas, pochi giorni prima dell’avvio dell’invasione in Ucraina.

Come ammesso anche dall’ex presidente francese Hollande e dall’allora cancelliera tedesca Merkel, gli accordi Minsk non sono mai stati dei veri accordi di pace ma un modo per congelare parzialmente il conflitto, senza però mai portare la pace. Per come erano strutturati, non avrebbero potuto costituire la base per una pace duratura. Per quanto si possa discutere sulla reale volontà degli esecutivi di Kyiv di concedere maggiori autonomie alle regioni di Donetsk e Lugansk, la precondizione per un qualsiasi sviluppo del processo di pace era il mai avvenuto ritiro delle truppe russe dal territorio ucraino. Ancor di più, la loro presenza non era nemmeno riconosciuta pubblicamente da Mosca e solo in un secondo momento Putin ammetterà la presenza dei cosiddetti ‘omini verdi’.

Scontri e bombardamenti hanno continuato a caratterizzare la vita della popolazione locale da entrambi i lati della linea di demarcazione, anche se in misura non paragonabile al biennio 2014-2015. Come detto in precedenza, Secondo i dati riportati dall’ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite, dall’inizio del conflitto si contano più di 3mila vittime civili, la maggior parte delle quali nei primi due anni di guerra, mentre tra il 2019 e il 2022, cioè durante la presidenza Zelensky, le vittime civile sono state poche decine, per lo più a causa di mine antiuomo (e dunque per cause indirette).

Nei lenti e faticosi negoziati degli ultimi sette anni, Mosca ha continuato a insistere su un rigoroso rispetto degli accordi di Minsk, firmati da Kyiv in un momento di estrema debolezza politica e militare. 

È vero dunque che il protocollo prevedeva il reintegro del Donbas nell’Ucraina, però dopo la concessione di uno status speciale, elezioni locali e - solo alla fine - il ritorno del controllo di Kyiv sulla fetta di confine con la Russia. Il rispetto degli accordi di Minsk, in altre parole, avrebbe garantito al Cremlino strumenti per influenzare la politica ucraina anche dopo il ritorno del Donbas sotto il controllo di Kyiv. E, se Zelensky nel 2019 in campagna elettorale aveva promesso di attuare gli accordi di Minsk e aveva ordinato di ritirarsi alle truppe di volontari e veterani che combattevano lungo il confine per dare un segnale in vista di un vertice che si sarebbe svolto di lì a poco in Normandia, successivamente, in assenza di condizioni favorevoli e con (pochi) segnali incoraggianti come il completo cessate il fuoco, aveva visto lo spazio di manovra ridursi notevolmente, come ricostruiva all'epoca questo articolo di BBC

Il resto è storia recente, con la decisione di Putin di riconoscere la sovranità e l’indipendenza delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk e il definitivo seppellimento degli accordi di Minsk.

Per quanto riguarda l’adesione alla NATO, non è stato avviato alcun processo formale di adesione dell’Ucraina, sebbene nel 2019 il governo di Poroshenko avesse deciso di inserire in Costituzione l’adesione alla NATO.

Nel periodo precedente all'invasione russa dell'Ucraina, Zelensky si è poi offerto ripetutamente di incontrare la sua controparte russa. Cinque giorni prima che le truppe russe entrassero in Ucraina, Zelensky ha dichiarato (peraltro in lingua russa): “Siamo pronti a sederci e parlare. Scegliete la piattaforma che preferite”.

Nei giorni e nelle settimane successive all'invasione, i negoziatori ucraini e russi hanno tenuto diversi cicli di colloqui in Bielorussia e Turchia. Tuttavia, le richieste della Russia erano massimaliste, inclusa la parziale smilitarizzazione dell'Ucraina che avrebbe di fatto paralizzato la capacità del paese di difendersi in futuro.

“Biden avrebbe potuto prevenire la guerra”

L'articolo sostiene che Biden avrebbe dovuto costringere l'Ucraina a un accordo con la Russia. Scrive infatti Kuperman:

“Anche Joe Biden ha contribuito in modo determinante all'escalation e al perpetuarsi dei combattimenti. Alla fine del 2021, quando Putin ha mobilitato le forze al confine con l'Ucraina e ha chiesto l'attuazione degli accordi di Minsk, sembrava ovvio che, a meno che Zelensky non cedesse, la Russia avrebbe invaso per formare almeno un ponte terrestre tra il Donbas e la Crimea.

Considerando che l'Ucraina dipendeva già in modo esistenziale dall'assistenza militare degli Stati Uniti, se il presidente Biden avesse insistito, Zelensky avrebbe acconsentito alla richiesta di Putin. Invece, Biden ha lasciato la decisione a Zelensky e ha promesso che se la Russia avesse invaso, gli Stati Uniti avrebbero risposto “rapidamente e con decisione”, cosa che Zelensky ha interpretato come un via libera a sfidare Putin.

Se Trump fosse stato presidente, probabilmente non avrebbe fornito un simile assegno in bianco, quindi Zelensky avrebbe avuto poca scelta se non quella di attuare gli accordi di Minsk per evitare la guerra. Se anche Zelensky avesse rifiutato e provocato l'invasione della Russia, Trump gli avrebbe negato il diritto di veto sui negoziati di pace, che Biden ha incautamente concesso dichiarando: “Non c'è niente sull'Ucraina senza l'Ucraina”. 

Tale promessa ha tragicamente incoraggiato l'Ucraina a prolungare la guerra in attesa di un aiuto militare statunitense che alla fine si sarebbe rivelato decisivo, ma che Biden ha poi rifiutato di fornire per paura di un'escalation nucleare. In questo modo, Biden ha suscitato false speranze in Ucraina, perpetuando inutilmente una guerra che ha ucciso o ferito centinaia di migliaia di persone solo negli ultimi due anni, durante i quali il fronte si è spostato di meno dell'1% del territorio ucraino.”

Quest’argomentazione deresponsabilizza Putin e omette che Biden ha messo in campo diverse azioni per dissuadere Mosca dal lanciare l'invasione. La Russia non ha invaso a causa di Biden, ha invaso perché l'Ucraina si è rifiutata di diventare uno Stato fantoccio.

Come ricostruiva un articolo del New York Times del 21 febbraio 2022 – pochi giorni prima, dunque, dell’invasione russa in Ucraina – Biden si è mosso su tre versanti: compattare il fronte dei paesi alleati, minacciare la Russia di dure sanzioni economiche in caso di attacco all’Ucraina e inviare armi e truppe nei paesi est europei al confine per rassicurare gli alleati preoccupati sul fianco orientale della NATO.

Le immagini satellitari e le informazioni sui piani del Cremlino a disposizione degli Stati Uniti mostravano le forze russe avanzare metodicamente verso il confine ucraino. L’obiettivo di Biden era far capire a Putin che, al di là dei suoi proclami ufficiali, aveva ben capito le sue effettive intenzioni, far cogliere agli alleati l’imminenza di un attacco russo e bloccare l’invasione. Di qui la decisione di declassificare le informazioni di intelligence e renderle pubbliche a tutti.

“La nostra teoria era che rendere pubbliche informazioni veritiere, che si stavano verificando in tempo reale perché tutti potevano vedere cosa stavano realmente facendo, fosse il modo migliore per impedire ai russi di fare ciò che fanno sempre, ovvero cercare di controllare la narrazione con la disinformazione”, ricordava all’epoca un alto funzionario dell'amministrazione Biden.

Un’idea rischiosa. Usare a scopo bellico le informazioni sui piani russi avrebbe potuto far sembrare che l'amministrazione stesse fomentando la guerra invece di cercare di prevenirla.

In passato, le agenzie di intelligence avevano bloccato le proposte americane di divulgare informazioni. Ma in questo caso si decise di procedere. Gli Stati Uniti avevano a disposizione informazioni di intelligence che attestavano una possibile campagna di sabotaggio russa, un complotto per un colpo di Stato, un elaborato tentativo di utilizzare un video falso per creare un pretesto per l'invasione e altre operazioni sotto falsa bandiera ordite dall'agenzia di intelligence militare russa.

La mattina del 7 dicembre, appena tre giorni dopo la pubblicazione del documento declassificato, Biden e Putin hanno un colloquio di quasi due ore in cui, secondo i funzionari americani, il presidente statunitense dà al presidente russo due alternative: accettare l’azione diplomatica o rischiare gravi conseguenze economiche e politiche a causa delle sanzioni che sarebbero state imposte dopo un'invasione dell'Ucraina.

Tutto questo però non è bastato.

Il giorno di Natale del 2021, prosegue l’articolo del New York Times, l'esercito russo annunciava pubblicamente il ritiro di 10mila soldati dal confine con l'Ucraina, affermando che quella era la prova che Putin non aveva intenzione di invadere l’Ucraina in tempi brevi. Ma si trattava, come poi la realtà dei fatti ha dimostrato, di un tentativo di depistaggio. E anzi di consolidamento delle truppe lungo il confine.

Da tempo i funzionari dell'intelligence avevano osservato ripetuti casi in cui i russi spostavano un gruppo tattico di battaglione vicino al confine, allestivano le infrastrutture necessarie per una rapida invasione e poi ritiravano le truppe, lasciando una copertura che poteva essere utilizzata da altri battaglioni, dalla Guardia Nazionale russa o da altre forze militari fedeli a Putin. Il movimento di truppe avanti e indietro non era la prova di una ritirata, secondo i funzionari. Era la prova dei preparativi per un'invasione dell'Ucraina.

E qui arriviamo al mese che precede l’avvio dell’invasione su larga scala. Mentre nell’opinione pubblica occidentale si faticava a prendere sul serio le informazioni distillate dall’intelligence statunitense e si continuava a interpretare quelle di Putin come provocazioni, gli Stati Uniti proseguivano la loro azione di diplomazia culminata con il viaggio di Blinken in Europa e i colloqui di Vienna del 13 gennaio 2022 che avevano l’obiettivo di convincere Putin a non invadere l’Ucraina sotto la minaccia di dure sanzioni. 

Il giorno successivo, decine di migliaia di soldati russi si riversavano in Bielorussia, il vicino settentrionale dell'Ucraina, per quelle che la Russia aveva definito esercitazioni militari congiunte. Per il Segretario alla Difesa Austin – che per mesi si era adoperato per evitare uno scontro diretto in Ucraina o nelle vicinanze tra Russia e Stati Uniti, le due maggiori potenze nucleari del mondo – era una delle prove che si avvicinava l’attacco russo, corroborata dalla posizione lungo il confine di oltre 100mila forze russe: “Signor Presidente, siamo entrati in un periodo di inequivocabile allerta”, disse Austin a Biden, secondo un alto funzionario del Pentagono. “Putin sta mettendo le sue truppe in posizione di attacco, ed è ora di essere pronti a rispondere rapidamente”. Di lì a poco sarebbe arrivata la decisione di inviare 5mila paracadutisti in Polonia per rassicurare un alleato fondamentale sul fianco orientale della NATO.

Fin qui la ricostruzione del New York Times del 2022. Nei giorni scorsi un altro approfondimento interattivo del NYT, ricostruisce questi tre anni di collaborazione militare tra Stati Uniti e Ucraina e fornisce dettagli importanti sul coinvolgimento degli USA che sembrano però sgomberare il campo dall’idea che Biden abbia fornito false speranze all’Ucraina promettendo, senza mantenere, un aiuto decisivo per vincere la guerra. 

Sin dall’inizio lo sforzo di Biden era “salvare l'Ucraina” e “proteggere l'ordine minacciato del secondo dopoguerra”, attraverso la condivisione di informazioni di intelligence, strategia, pianificazione e tecnologia militare, scrive il New York Times. Quello scambio di informazioni che Trump ha già iniziato a ridurre da quando è tornato alla Casa Bianca e ha avviato le trattative con Putin. 

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Dall’inchiesta del New York Times emergono divergenze di vedute, momenti di allontanamento, linee rosse imposte dagli Stati Uniti da non superare per evitare una escalation del conflitto: “Gli ucraini a volte vedevano gli americani come prepotenti e dispotici, il prototipo degli americani paternalisti. Gli americani a volte non riuscivano a capire perché gli ucraini non accettassero i loro consigli”, si legge nell’inchiesta. “Mentre gli americani si concentravano su obiettivi misurabili e raggiungibili, vedevano gli ucraini cercare costantemente la vittoria totale. Gli ucraini, da parte loro, vedevano spesso gli americani come un freno”.

Se c’è stato un momento in cui Biden ha cambiato approccio ed è stato a un passo dal varcare quella linea rossa, che avrebbe potuto spingere Putin a usare quelle armi nucleari tante volte brandite come minaccia, è stato proprio alla fine del suo mandato. Qualcosa di molto diverso dal promettere e poi ritrarsi, come suggerisce Kuperman.

Immagine in anteprima: frame video YouTube

5 Commenti
  1. Michael G. Jacob

    "Biden ha poi rifiutato di fornire (aiuti) per paura di un'escalation nucleare." Biden è stato esitante, ma è Trump che ha rifiutato e ritirato gli aiuti mentre umiliava in mondovisione il Presidente Zelensky.

  2. Цікавий

    verdi di Svoboda!!! Green flags? My God! You don't know what you're writing about. This is ridiculous!

  3. Mario Montevecchi

    Kuperman descrive esattamente lo stato delle cose e non riesco a capire come possiate essere così ciechi. Su questo tema la vostra è proprio ottusa disinformazione

    • Rocco Parisi

      allora rileggi attentamente, mi sa che non hai capito...

    • Valigia Blu

      Ciao, a monte di ogni opinione preghiamo sempre di rispettare il lavoro altrui. Se non si ha disposizione verso questo livello base di rispetto, non c'è possibilità di discussione o confronto.

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