Diritto all’oblio, libertà di espressione, diffamazione: tutti i guai della sentenza Google
6 min letturaDiritto all'oblio
La Corte di Giustizia europea, con la ormai famosa sentenza Costeja del 13 maggio in materia di diritto all'oblio (right to be forgotten), ha aperto la stura alle più improbabili richieste di rimozione di dati presenti online. Già di per sé la sentenza in questione non è chiarissima e dà adito a numerosi dubbi, ma evidentemente, anche per come è stata spiegata dai media (si è parlato di rimozione di dati), è stata recepita come l'attribuzione al titolare dei dati del potere assoluto di gestione degli stessi.
In realtà, come ha scoperto di recente il pianista Dejan Lazic, le cose non stanno proprio così.
Lazic, come ci racconta Fabio Chiusi, ritiene che tutti, artisti, politici, ecc..., dovrebbero poter “alterare gli archivi secondo le proprie opinioni e gusti”, modificare quindi le notizie in base alle proprie personali esigenze. Non si tratta, continua il pianista, di invocare la censura, quanto piuttosto di mantenere il controllo della propria immagine personale.
Ovviamente la valutazione di una performance è questione piuttosto soggettiva, per cui se Lazic ritiene che l'articolo del critico musicale Anne Midgette fosse ingiusto (diffamatorio, meschino, supponente e irrilevante artisticamente), dal suo canto il critico ribatte che l'esecuzione del pianista non era all'altezza rispetto a passate esibizioni. Chi ha ragione? O, meglio, nel conflitto tra la libertà di espressione del critico e la tutela della reputazione dell'artista, quale viene prima?
Web reputation
Perché, a ben vedere, non si tratta più, o non solo, di diritto all'oblio, quanto piuttosto di web reputation. Uno dei problemi principali in un dibattito di questo tipo, infatti, è la confusione che si genera, con sovrapposizione dei vari argomenti, come è ad esempio accaduto col disegno di legge in materia di diffamazione da poco approvato al Senato (dovrà tornare alla Camera).
In tale ddl si affiancano norme sul “diritto all'oblio”, cioè un aspetto della diritto alla privacy, alla riforma della diffamazione a mezzo stampa.
Ma la diffamazione riguarda la pubblicazione di dati falsi, mentre l'oblio concerne la pubblicazione di dati veri, con ciò accomunando cose completamente diverse.
Quindi, innanzitutto occorre comprendere che la privacy (ormai residuale) tutela le informazioni private, la data protection, invece, riguarda i dati personali che possono essere sia pubblici che privati, mentre invece il diritto all'oblio (più correttamente diritto alla reputazione) non ha nulla a che spartire con la diffamazione, laddove il primo concerne la pubblicazione lecita di dati personali veritieri per i quali però, a causa del trascorrere del tempo, non risulta più necessaria (a fini informativi o giornalistici) la permanenza online.
In questa prospettiva è scorretto vedere alla sentenza CGUE (e al ddl diffamazione) come se introducessero per la prima volta il diritto all'oblio, istituto già presente anche in Italia, e di formazione giurisprudenziale. La novità piuttosto sta nel fatto che la Corte europea ha precisato come anche i motori di ricerca, a dispetto della direttiva ecommerce che prevede una serie di esenzioni per i fornitori di servizi online, siano da considerare “controller” (titolari del trattamento) e quindi devono rispettare la normativa sulla data protection (e quindi il diritto all'oblio).
Sentenza Costeja
La sentenza Costeja è stata accolta da alcuni ambienti come la panacea di tutto i mali, lo strumento universale per poter ripulire la reputazione macchiata da arresti, condanne, o semplicemente critiche, sulla base della propria insindacabile opinione. Come ci spiega Mantellini, il diritto all'oblio è il perfetto meccanismo di rimozione dalle responsabilità, la suprema ipocrisia del chiudere gli occhi e nascondere il passato, per poi riproporsi gattopardescamente sempre uguali a se stessi.
In un paese digitalmente arretrato come l'Italia, il diritto all'oblio è anche la riscossa per i malati di individualismo capaci di parlare per ore del nulla in televisione ma assolutamente inidonei ad un dibattito che implica l'obbligo di ascoltare l'altro, il bavaglio perfetto per quell'archivio universale che conserva tutto. Un colpo di spugna è via, sempre lì perfettamente immobili a ripercorrere costantemente gli errori del passato che però nessuno ci potrà mai rinfacciare.
La sentenza Costeja autorizza i privati a chiedere ai motori di ricerca la rimozione dei link alle pagine (deindicizzazione) contenenti i propri dati personali quando, nonostante siano leciti e veritieri, appaiano inadeguati, irrilevanti o non più rilevanti. Ma essa appare profondamente inidonea nel momento in cui sembra accentuare più l'aspetto individuale (tutela della reputazione del singolo) rispetto a quello collettivo (libertà di espressione o diritto di cronaca), sfumando eccessivamente i confini tra privacy e diffamazione. Ed è questo aspetto che ha determinato l'accomunare del diritto all'oblio alle ipotesi di diffamazione (portando alle aberrazioni del ddl citato sopra), in quanto entrambe proteggono la reputazione.
Nella sentenza della Corte europea non si fa riferimento all'art. 11 della Carta europea, né al 10 della Convenzione dei diritti dell'uomo, da cui l'impressione che la libertà di espressione sia considerata una limitazione del diritto alla reputazione, un mero “interesse” del pubblico a trovare informazioni.
Ordinamento europeo
In realtà è la stessa normativa europea ad apparire inadeguata, nel momento in cui l'art. 9 della direttiva 95/46/EC prevede esenzioni per i provider che trattano dati personali solo per scopi giornalisti o artistici o letterari. L'eccezione si applica solo se necessaria per conciliare il diritto alla privacy e il diritto alla libertà di espressione.
È quindi l'ordinamento europeo che non riesce a garantire sufficientemente la libertà di espressione specialmente nei casi in cui si va oltre l'attività giornalistica (ad esempio nell'ambito delle discussioni accademiche), ed anche una tutela per le aziende che sono coinvolte nella diffusione online delle informazioni, come gli intermediari.
La Corte europea sembra ben felice di delegare il potere decisionale sulle libertà fondamentali nel settore delle telecomunicazione a delle aziende private. A fronte di un chiaro obbligo di fare qualcosa, si dimentica, però, che vi è il riconosciuto rischio di fare troppo, senza alcuna possibilità di emenda non essendo previsti ricorsi.
Non è la prima volta che viene sottratta una delicata materia al controllo dei giudici (ad esempio per le violazioni del copyright), e lo strumento (notice and take down) è il medesimo, per comprendere che ci troviamo nella stessa ottica, cioè nell'ambito di una privatizzazione dei diritti, con particolare enfasi, ancora una volta, per i diritti individuali rispetto, e in prevalenza, a quelli collettivi.
Purtroppo non è nemmeno chiaro (e in tal senso la sentenza non aiuta) in quale modo il motore di ricerca debba stabilire la (ir)rilevanza dei dati, non c'è un parametro oggettivo di riferimento (ad esempio, dopo quanto tempo il politico, per il quale la protezione dei dati personali è ovviamente ridotta, torna ad essere un privato cittadino?), a differenza dei casi di diffamazione, e la stessa Google si lamentò che nelle richieste di deindicizzazione in molti casi manca il contesto generale in assenza del quale è difficile trovare un equilibrio dei diritti in competizione.
Ma, non solo le aziende private non sono ben equipaggiate per tali complesse valutazioni, esse mancano anche delle necessarie garanzie di indipendenza ed imparzialità. Il loro fine primario è il profitto, non certo la tutela dei diritti dei cittadini, e nel momento in cui il primo andrà in conflitto coi secondi è ovvio aspettarsi che l'azienda si preoccuperà più degli azionisti che dei cittadini. Occorre prendere atto che quella sul diritto all'oblio non è una banale operazione tecnica, occorre coniugare memoria collettiva e storia individuale, giudizio pubblico e identità personale, occorre una valutazione umanistica che non può essere lasciata nelle mani di aziende private.
Come detto sopra, inoltre, il meccanismo è sostanzialmente uguale a quello per le rimozioni in caso di violazione del copyright, meccanismo che si è rivelato in più occasioni passibile di abusi e scarsamente trasparente.
Il risultato sarà la riscrittura della storia, l'alterazione degli archivi online, e il costante scadimento della cultura e della memoria collettiva nell'Unione europea (la sentenza si applica solo ai paesi europei).
Luciano Floridi senza mezzi termini sostiene:
è orripilante, in un paese liberale e democratico, orientato alla socialdemocrazia come l’Europa, che tutto questo sia stato lasciato nelle mani di una società privata (qui l'intervista di Antonio Rossano).
Monopolio
Non si ha una completa comprensione del problema se non si tiene presente che la sentenza Costeja ha di fatto messo nelle mani di Google la gestione della memoria collettiva. Il motore di Mountain View gestisce ormai oltre l'80% delle ricerche online lasciando le briciole agli altri. Google, più volte accusata di posizione dominante, dopo un primo momento di incertezza, si è prodigata per venire incontro ai desiderata dell'Unione europea in un più che probabile do ut des, realizzando un modulo per inviare le richieste di rimozione, alimentando un dibattito interno ed esterno, e soprattutto coinvolgendo esperti al fine di “progettare” il diritto all'oblio.
Quello che non si rimarca, però, è che il risultato di tutto ciò sarà rendere impossibile a qualsiasi altra azienda avviare un nuovo motore di ricerca, e quindi entrare in concorrenza con Google, a causa del costo elevatissimo necessario per l'applicazione pratica della sentenza Costeja (stiamo parlando di circa 150mila richieste al mese, Erich Schmidt ha precisato che occorre assumere personale, ma non conoscendo la reale portata del problema è impossibile anche stabilire quanto personale occorre).
Con questa sentenza di fatto l'UE ha regalato a Google l'applicazione di tali diritti online e nel contempo sta legando indissolubilmente tale applicazione alla stessa azienda, favorendo un monopolio nel mercato delle ricerche online.
Come potrà mai, un domani, l'Unione procedere contro Google con una eventuale procedura per abuso di posizione dominante (semmai, ovviamente, dovesse risultare tale abuso)?