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La lotta della comunità LGBTQI+ in Kosovo

2 Giugno 2024 7 min lettura

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La lotta della comunità LGBTQI+ in Kosovo

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Nella primavera del 1999 tutta Europa guardava decollare i bombardieri che, dalle basi italiane, partivano per sganciare ordigni sulla Serbia di Milosevic. L’operazione Allied Force, così fu chiamato l’intervento NATO, coincise con gli ultimi mesi del conflitto tra quello che rimaneva della Repubblica Federale di Jugoslavia (che di fatto, a quel punto, era Serbia e Montenegro) e il Kosovo. 

Alla fine di quei 78 giorni di bombardamenti, che causarono migliaia di morti civili, le truppe serbe accettarono di ritirarsi e le centinaia di migliaia di profughi kosovari, per la stragrande maggioranza di origine albanese, cominciarono lentamente a tornare a casa. Le truppe serbe avevano commesso in Kosovo alcuni tra i più spaventosi crimini di guerra che l’Europa avesse visto dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. 

Un romanzo uscito nel 2019 racconta quella guerra come nessuno l’aveva fatto: attraverso l’inizio dolcissimo e la fine tragica di un amore, quello tra Arsim e Miloš, che si conoscono a Pristina, la più grande città del Kosovo, nel 1995. Arsim è albanese, Miloš è serbo, e il loro amore è una bestemmia, anzi, è due bestemmie: la prima è essere omosessuali in due società profondamente eteronormative, la seconda è baciarsi con bocche che parlano lingue diverse e con cui, per la politica, dovrebbero scambiarsi nient’altro che insulti e parole d’odio. Il romanzo è Bolla, dello scrittore finlandese-kosovaro Pajtim Statovci. Pubblicato in Italia da Sellerio nel 2021 col titolo Gli invisibili, ha raccontato con un’efficacia rara la tragedia delle identità queer travolte dal nazionalismo e dal fondamentalismo religioso. Intanto, a venticinque anni dalla fine della guerra, a Pristina ha cominciato a organizzarsi una comunità queer decisa a rivendicare quell’identità che decenni di nazionalismi contrapposti le hanno negato. 

Lavorare insieme per superare i nazionalismi

“Nemmeno la nostra comunità è immune al nazionalismo”, spiega a Valigia Blu Dan Sokoli, che vive a Pristina ed è attivista di Dylberizm, una piattaforma di supporto per la comunità LGBTQI+ attiva in Albania e Kosovo. “Ho incontrato persone queer in Serbia che rifiutano di riconoscere l’indipendenza del Kosovo e i crimini che i serbi hanno commesso qui. Allo stesso tempo, ho sentito persone queer kosovare e albanesi usare parole violentissime contro i serbi, specialmente nell’ultimo anno, quando ci sono state tensioni nel nord del Paese. È un peccato, perché l’oppressione che viviamo è la stessa. Quando vai su TikTok e vedi litigare albanesi e serbi, nei commenti si stanno quasi sempre scambiando insulti omofobi. Per questo dobbiamo imparare a lavorare insieme”.

L’associazione ERA (Equal Rights Association for Western Balkans and Turkey), un ente di secondo livello che riunisce 82 associazioni di attivismo LGBTQI+ da tutti i paesi dei Balcani, è quanto di più vicino esista al “lavorare insieme” di cui parla Dan Sokoli. Dice Amarildo Fecanji, che dal 2015 è direttore esecutivo di ERA: “Non è facile mettere intorno allo stesso tavolo storie così diverse: Slovenia, Albania, Turchia, Croazia e Bosnia, Serbia e Kosovo. Ma proprio perché non è facile, è importante farlo. ERA è nata anche per difendere la pace”. Costruire reti di supporto per i gruppi marginalizzati sembra ancora più difficile, e quindi più importante, dove l’opinione pubblica è più tradizionalista e dove la pace è più fragile, come in Kosovo.

La società civile kosovara è tra le più religiose della regione balcanica. Stando a uno studio compilato nel 2020 dall’università di Boston, meno dell’1% degli abitanti si dichiara ateo, mentre più del 90% degli abitanti è di religione musulmana. Il Kosovo è anche stato, per molto tempo, uno dei paesi più conservatori sui diritti civili: fino al 2017 il paese non aveva mai ospitato un Pride, la comunità queer si incontrava in segreto, e uno studio del National Democratic Institute (NDI, 2015) sosteneva che il Kosovo fosse il paese più omofobo dei Balcani. 

Una legislazione quasi progressista

La Costituzione adottata nel 2008 proibisce apertamente, in base all’articolo 24, la discriminazione basata sull’orientamento sessuale. Anche la definizione costituzionale di matrimonio, che non contiene riferimenti al genere e all’orientamento sessuale, era stata pensata per favorire la possibilità di rendere legali nel paese le unioni tra persone dello stesso sesso: è una differenza notevole rispetto alla costituzione della Serbia, da cui il Kosovo si è proclamato indipendente, dove il matrimonio è codificato rigidamente come “l’unione tra un uomo e una donna”. 

Una Costituzione moderna, però, non basta a fermare le discriminazioni. Non basta nemmeno il pronunciamento del presidente della Corte Costituzionale, che nel 2014 ha dichiarato che il matrimonio tra persone dello stesso sesso è legalmente compatibile con la legislazione kosovara. Nel momento in cui questo articolo è redatto né il matrimonio né l’unione civile tra persone dello stesso sesso sono legali in Kosovo. 

A ostacolare il processo è un altro elemento dell’ordinamento kosovaro: la Legge sulla Famiglia, approvata nel 2006 quando il Kosovo era sotto amministrazione diretta delle Nazioni Unite (UNMIK), che nell’articolo 14 definisce il matrimonio come “la comunanza di due persone di sessi diversi”.  Il Primo Ministro Albin Kurti ha proposto, nel 2022, una modifica della Legge sulla Famiglia che avrebbe permesso il riconoscimento delle unioni civili tra persone dello stesso sesso. La proposta non ha passato il vaglio del Parlamento, e ha trovato l’opposizione convinta degli elementi più tradizionalisti di Vetëvendosje!, il partito di cui Kurti è leader. 

La posizione ambigua del governo Kurti

Nelle sue posizioni di indipendentismo radicale, Vetëvendosje! (che significa autodeterminazione in albanese) raccoglie alcune istanze progressiste: nel programma si trovano richiami alla giustizia sociale e alla democrazia diretta, insieme a progetti di avvicinamento alle legislazioni dei paesi Occidentali sui diritti civili. Queste misure sono anche un modo per prendere le distanze dalla Serbia, i cui governi non hanno mai smesso di flirtare con la Russia. 

Allo stesso tempo, il partito accoglie posizioni che si possono definire conservatrici, al netto delle difficoltà di inquadramento ideologico a cui i balcani abituano spesso. Non mancano in Vetëvendosje! elementi ostili verso i tentativi di mediazione tra Serbia e Kosovo portati avanti da UE e Nazioni Unite, idee sovraniste e affini al nazionalismo albanese, rivendicazioni dell’identità musulmana come elemento culturale da contrapporre alla religione cristiana ortodossa professata dalla grande maggioranza della popolazione Serba. “Questa equazione tra identità e religione ha portato, storicamente, alla riemersione improvvisa di fondamentalismi che sono estremamente pericolosi non solo per le persone LGBTQI+, ma per tutte le minoranze nell’area balcanica”, ribadisce Fecanji, direttore esecutivo di ERA.

Le contraddizioni all’interno della maggioranza di governo rendono difficile mantenere una linea coerente nei confronti della comunità LGBTQI+, ed è per questo che dall’elezione di Albin Kurti nel 2021 non sono stati fatti veri passi in avanti né nella legislazione per le persone omosessuali né tantomeno in quella per le persone transessuali, che in Kosovo non possono in nessun caso cambiare legalmente il loro nome e il loro genere, nemmeno se si sottopongono a terapie ormonali o interventi chirurgici per il cambio di sesso.

“Il governo non può permettersi, per logiche politiche, di sostenere troppo apertamente la comunità: non è una posizione che troverebbe grande sostegno nell’elettorato kosovaro”, spiega Sokoli a Valigia Blu, a proposito del rapporto complesso tra il governo Kurti e la comunità queer. 

Secondo Fecanji, lo scarso sostegno politico intorno alla comunità LGBTQI+ permette ai gruppi nazionalisti e religiosi di usare l’omofobia come bandiera per compattare intorno a sé un certo elettorato: “Le persone LGBTQI+ sono il bersaglio più facile se ci si vuole far notare dagli elettori conservatori, ma voglio ricordare a chiunque stia leggendo che quando gruppi autoritari, patriarcali e nazionalisti guadagnano terreno le discriminazioni non si fermano mai a una sola minoranza. Si estendono e colpiscono chiunque non sia pronto ad allinearsi, anche persone che il giorno prima delle elezioni si sentivano al sicuro”.

In ogni caso, in Kosovo il sostegno del governo alla comunità LGBTQI+ si sta facendo di anno in anno più visibile, quantomeno a livello comunicativo. Nel giugno scorso, il Primo Ministro, Albin Kurti, e il Ministro della Salute, Arben Vitia, hanno marciato insieme alle manifestanti durante il Pride: sono segnali di come il clima culturale stia cambiando nel giovane stato balcanico. 

Punti di sutura

Un altro segnale del momento positivo che sta vivendo la comunità queer kosovara è stato il successo della prima edizione del Pristina Queer Festival. Nel Settembre 2023, un gruppo di attivisti di Dylberizm ha inaugurato il primo festival di cultura queer della storia del Kosovo. Il festival, di cui Dan Sokoli è curatore, è durato tre giorni, con workshop e panel e performer che hanno dato alla comunità queer locale la sensazione che in Kosovo le cose stiano cambiando davvero. 

“Durante il Festival mi sono sentito pieno di speranza, ho sentito che abbiamo fatto passi avanti da quello studio del 2015 secondo cui eravamo il paese più omofobo dei balcani: Il Ministero della Cultura e della Gioventù ci ha finanziati, il sindaco di Pristina, Perparim Rama, ha fornito tutti i permessi e ci ha dato il via libera per tutte le attività, insomma, è andata bene”. Un evento come questo, in pieno centro a Pristina, sarebbe stato inimmaginabile anche soltanto dieci anni fa. 

I poster del festival avevano i colori acidi e i font bombati che ci si aspetterebbe di trovare sulle locandine di una galleria d’arte contemporanea di Berlino o Amsterdam, ma il programma comprendeva eventi in cui si rielaboravano e problematizzavano elementi della cultura locale. 

“La cosa più bella è che siamo riusciti a mostrare che la comunità queer in Kosovo ha una tradizione profonda, radicata nel folklore e nella musica popolare. Per molto tempo si è creduto che le persone queer fossero comparse improvvisamente dopo la guerra, alla fine degli anni '90, e che prima non esistessero. Abbiamo voluto dimostrare che siamo esistiti prima della guerra, durante la guerra, e che esistiamo adesso”, dice Sokoli, che cita “Bolla” di Pajtim Statovci come suo romanzo preferito. 

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Sokoli racconta quanto bene abbia fatto alla comunità queer di Pristina vedere rappresentati il proprio dramma e la propria città nelle pagine della storia, pur dolorosissima, di Arsim e Miloš. A parlare con lui, emerge con chiarezza quanto i festival, i libri, gli eventi in cui la comunità può finalmente incontrarsi siano stati punti di sutura su una ferita rimasta aperta per decenni.  

“Da ragazzo, avevo l’impressione di essere l’unica persona gay della mia città”, racconta Sokoli, “Oggi, grazie al Pride, grazie al Festival, grazie al romanzo di Statovci, le cose sono diverse”.

Immagine in anteprima: frame video Radio Free Europe via YouTube

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