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I danni che la direttiva sul copyright farà alle nostre libertà e cosa possiamo fare per contrastarla

2 Luglio 2018 15 min lettura

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I danni che la direttiva sul copyright farà alle nostre libertà e cosa possiamo fare per contrastarla

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Aggiornamento 5 luglio: Il Parlamento europeo ha respinto – con 278 voti favorevoli, 318 contrari e 31 astensioni – l'avvio dei negoziati fra Parlamento, Consiglio e Commissione Ue sulla proposta di direttiva per la riforma del copyright. Di conseguenza, la posizione del Parlamento sarà discussa, emendata e votata nel corso di settembre (probabilmente il 12).

...

Ci sono voluti 10 anni perché Stephanie Lenz ottenesse giustizia in un tribunale. Dieci anni, dopo aver postato su Youtube il video nel quale mostrava con l'orgoglio di una madre il proprio figlioletto di 18 mesi, Holden, che balla in cucina sulle note di una musica di sottofondo. 29 secondi di video, che però vengono cancellati in un sol colpo dalla Universal. Perché quella musica di sottofondo, perlatro poco udibile, è niente di meno che il brano di Prince: Let's go crazy.

La signora Lenz non si dà per vinta, e inizia una battaglia legale contro la multinazionale. Il classico caso Davide contro Golia, che assume importanza perché ciò che la Universal vuole vietare è un comportamento comune a milioni di persone. Ogni giorno milioni di genitori scattano foto e fanno riprese ai figli per condividerli online con parenti e amici lontani. Ma quelle riprese spesso contengono contenuti protetti: parti di brani musicali, loghi sulle magliette, sculture o edifici nello sfondo.

Nel corso del processo, portato avanti dalla EFF (Electronic Frontier Foundation), la domanda era semplice: un titolare dei diritti ha l'obbligo di valutare se ad un contenuto si applicano le eccezioni al copyright? Oppure può disinteressarsene tranquillamente e limitarsi a dire che quella musica poco udibile in sottofondo, quel logo sulla maglietta della persona ritratta è nella sua titolarità, e quindi l'intero video va buttato giù?

Ci sono voluti 10 anni perché si chiudesse il caso. Oggi Holden va alla scuola media. Domani, in Europa, potremmo avere un problema simile.

***

Nei prossimi giorni (4 e 5 luglio) la proposta di riforma della Direttiva Copyright sarà discussa dal Parlamento europeo in seduta plenaria. Di seguito passerà al Consiglio dell’Unione europea, per poi tornare al Parlamento per l’approvazione definitiva (dicembre o gennaio 2019).

Leggi anche >> La riforma europea del copyright è da bocciare, la posizione di Di Maio è una buona notizia. Ecco perché

Una riforma serve...

È indubitabile che una riforma della normativa in materia di copyright sia necessaria, per armonizzare le regole tra i vari Stati dell’Unione. Purtroppo, nonostante una buona partenza, la riforma si è persa in una regolamentazione settoriale che guarda a specifici aspetti perdendo in ambizione e coraggio.

Il presupposto del framework legislativo è che i titolari dei diritti non riescono a monetizzare adeguatamente i loro prodotti, perché vi sarebbe, nell’ecosistema digitale, un'ingiusta distribuzione dei profitti nella catena di diffusione delle opere online. Per risolvere questo “problema” la Commissione ha proposto di introdurre l’obbligo per le piattaforme di utilizzare strumenti di filtraggio dei contenuti e di operare con l’accordo dei titolari dei diritti al fine di rimuovere e di impedire il caricamento di contenuti in violazione dei diritti.

(c) http://hicksvillecomics.com/

L’approccio supply-side, cioè di inibizione all’accesso dei contenuti, implica una visione dell’ecosistema Internet estremamente riduttiva, come se fosse un banale canale di distribuzione unidirezionale (come la Tv per capirci). In tal senso non vengono tenute in considerazione le peculiarità di un ambiente multidirezionale nel quale il “consumatore finale” è scomparso del tutto, sostituito da una figura ibrida consumatore-produttore. Un ruolo che lo stesso Ofcom britannico (l’equivalente dell’Agcom) ritenne importante, in uno studio del 2013, per creare nuovi posti di lavoro nell’economia emergente.

L’errore, se di tale si tratta, è di considerare il copyright come un mezzo per garantire ai titolari dei diritti (non tanto gli artisti quanto i distributori e produttori) il controllo esclusivo dei loro lavori. In realtà il copyright è un insieme di diritti complessi volti a promuovere la creatività nell'interesse pubblico. Per tutelare la creatività il primo passo è l’estensione delle eccezioni alla rete Internet. La proposta di riforma amplia, invece, i diritti dei titolari senza nemmeno considerare seriamente le eccezioni.

Non solo, le norme finiscono per essere contraddittorie tra loro e in contrasto con gli altri framework legali dell’Unione, poiché gli obblighi di monitoraggio dei contenuti degli utenti sono in contrasto con la direttiva eCommerce. La normativa europea vieta un controllo generalizzato dei contenuti immessi dagli utenti perché violerebbe i diritti fondamentali dei cittadini. Per superare questo divieto la direttiva copyright non impone tale monitoraggio, ma lo "suggerisce" caldamente alle piattaforme online, le quali si troverebbero nella condizione di dover rispondere di tutti i contenuti immessi dagli utenti oppure, appunto, introdurre "volontariamente" (si fa per dire) un monitoraggio generalizzato.

Nell’avviare il progetto legislativo, la Commissione europea ha più volte sostenuto l’importanza di basarsi su studi e ricerche, ma anche qui emerge chiaramente l’intento puramente propagandistico, quando poi si è scoperto che almeno uno studio condotto per conto della Commissione non è stato pubblicato perché non confermava le tesi di partenza della Commissione medesima. Di questo rapporto solo una piccola parte, quella che evidenzia l’impatto negativo della pirateria sui film, è stato diffuso in una pubblicazione di Benedikt Hertz e Kamil Kiljański, entrambi membri del team di economia della Commissione europea.

Leggi anche >> La Commissione europea costretta a rivelare uno studio sulla pirateria tenuto nascosto

Quindi, invece di creare le basi per un ambiente digitale unico all’interno del quale diffondere e alimentare la cultura e il commercio, il tutto si è risolto in norme draconiane che andranno ad impattare negativamente sui diritti fondamentali dei cittadini e sulle stesse attività economiche di numerose aziende.

In breve, si propone di “tutelare” l’intera industria del copyright (e l’editoria con l’art. 11) dal “pericolo” delle nuove tecnologie, castrando queste ultime e comprimendo i diritti fondamentali dei cittadini.

...Ma non questa riforma

Con la proposta di riforma i diritti fondamentali saranno a rischio:

  • Libertà di impresa, poiché le aziende che operano online dovranno fare i conti con ulteriori spese per adeguare i propri sistemi ai nuovi obblighi, che comportano “falsi positivi” nelle procedure di identificazione di contenuti in presunta violazione del copyright.
  • Diritto alla privacy, perché la direttiva obbliga al controllo generalizzato dei contenuti immessi dagli utenti al fine di riconoscere quali contenuti sono in violazione del copyright.
  • Libertà di espressione e di informazione, in quanto le aziende preferiranno rimuovere tutti i contenuti dubbi o semplicemente segnalati da aziende di grandi dimensioni e che comunque possono avviare azioni legali, così determinando un aumento esponenziale delle rimozioni anche solo per non correre il rischio di dover rispondere di contenuti altrui.
  • Presunzione di innocenza, poiché la direttiva non prevede alcun sistema di bilanciamento e risarcimento per le rimozioni avvenute in assenza di violazioni del copyright, considerando tutti gli utenti dei potenziali violatori delle leggi.

Di contro, il diritto che la direttiva si propone di tutelare non è un diritto fondamentale. In nessun trattato o norma il copyright è considerato tale. L’industria del copyright da anni fa lobbismo a favore di una tale riforma, ed è la stessa industria che ha portato ad estendere i tempi di tutela del copyright negli Usa dagli originali 14 anni a 90 anni dopo la morte dell’autore (i termini sono stati estesi man mano che si avvicinava la scadenza del copyright di Mickey Mouse, prossimo termine 2023).

Questa industria ha sostenuto per anni che non esisterebbe un diritto del cittadino ad accedere ad Internet, per cui sarebbe stato possibile, e legittimo, disconnetterlo in caso di illeciti (es. Hadopi francese) o in alternativa bloccare un contenuto online (web blocking). È da questa idea che partono le proposte di filtraggio della rete.

Ebbene, l’industria ha sempre detto che esiste, invece, un vero e proprio diritto alla proprietà intellettuale come diritto fondamentale, che però dovrebbe prevalere sui diritti fondamentali dei cittadini, anche se non si è mai capito per quale motivo. L’industria del copyright, quindi, tende a enfatizzare la tutela del diritto alla proprietà intellettuale, proprio nel momento in cui finisce per svuotare di contenuti il diritto di proprietà, sostituendolo con le licenze limitate, Infatti oggi, nel mondo digitale, non si acquista la proprietà di un film, né di una canzone, né di un libro, ma solo la licenza, limitata e non trasmissibile agli eredi (una volta era vietato addirittura leggere gli ebook ad alta voce!).

Nel 2014, il relatore speciale ONU per i diritti culturali, Farida Shaheed pubblica un rapporto nel quale ricorda che occorre prestare più attenzione alle ripercussioni della tutela del copyright sui diritti umani. Il relatore parte dall’analisi dell’articolo 27 della Dichiarazione Universale dei diritti umani:

Articolo 27
1. Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici.
2. Ogni individuo ha diritto alla protezione degli interessi morali e materiali derivanti da ogni produzione scientifica, letteraria e artistica di cui egli sia autore.

Il secondo comma è generalmente interpretato quale supporto alla protezione della proprietà intellettuale, ma Shaheed precisa che il diritto umano alla protezione della paternità dell’opera è un diritto non trasferibile e connaturato all’autore, il quale soltanto può esercitarlo. L’autore cede all’editore o distributore, invece, solo gli interessi economici:

Unlike copyrights, the human right to protection of authorship is non-transferable, grounded on the concept of human dignity, and may be claimed only by the human creator, “whether man or woman, individual or group of individuals”.

Quindi, le aziende non parlano a nome degli autori, né esercitano o tutelano un diritto fondamentale. Anche a voler ammettere che esista un diritto alla proprietà intellettuale (secondo alcuni la proprietà intellettuale non è un diritto di proprietà bensì solamente una privativa concessa dallo Stato in base al presupposto che il profitto può essere realizzato solo in un ambiente soggetto a monopolio) si tratta sempre e comunque di un diritto economico non comparabile con le libertà della persona e i diritti pubblici: la libertà di espressione e la tutela dei dati personali.

Ogni qualvolta tali diritti sono stati portati in giudizio, la comparazione di un magistrato ha generalmente visto cedere il diritto di proprietà intellettuale ogni qual volta la sua tutela comportava una lesione dei diritti pubblici.

Ciò spiega ampiamente perché l’industria del copyright vuole evitare di ricorrere ai tribunali, perché il ricorso alla magistratura comporta numerosi rischi: serve tempo per avere un provvedimento di rimozione o blocco di un contenuto online, un processo costa, in tribunale occorre provare il diritto e non semplicemente affermarlo, infine un tribunale deve, per legge, bilanciare tutti i diritti in gioco, in particolare quelli relativi alla libertà di espressione e alla privacy degli utenti. Per cui in un’aula giudiziaria c’è il forte rischio di non ottenere un provvedimento favorevole. Ecco perché l’industria vuole tenere fuori dal procedimento i tribunali la tutela dei propri interessi economici amministrativizzandola (es. procedura Agcom in Italia) o addirittura privatizzandola, delegandola ad altre aziende che hanno tutto l’interesse a tenere rapporti buoni con l’industria del copyright, per evitare conflitti commerciali o giudiziali (costosi).

La conseguenza è che si realizzerà un sistema di giustizia privata alternativo a quello statale nel quale la punizione diverrà automatizzata e gestita da algoritmi, in assenza di una valutazione approfondita del caso, e soprattutto in assenza di un bilanciamento dei diritti in gioco. La rimozione del contenuto sarà basata su dei sample forniti dall’industria del copyright (sui quali nessuno avrà un controllo), e in tal modo la tutela degli interessi economici dell’industria del copyright diverrà sovraordinata a diritti di rango costituzionale.

L’articolo 13, quello che introduce l’obbligo di filtraggio dei contenuti degli utenti, di fatto impone un costo aggiuntivo (il software di filtraggio) alle aziende per la tutela dei meri interessi economici di altra industria.

I software di filtraggio o riconoscimento dei contenuti (tipo ContentId di Youtube), tra l'altro sono prodotti da poche aziende ed hanno un costo elevato, nonostante quanto disse il vicepresidente della Commissione europea sponsorizzando di fatto un noto produttore di tali software (vedi studio sui costi reali relativi agli strumenti di filtraggio e rilevamento dei contenuti, pag. 26: “medium-sized companies engaged in file-hosting services paid between $10,000 and $25,000 a month in licensing fees alone for Audible Magic’s filtering tool”). Anche se con riferimento ad un singolo contenuto il costo può sembrare bassissimo (dell’ordine di pochi centesimi), considerato il traffico di una piattaforma online diventano centinaia di migliaia di euro.

Esempio: Youtube tra gennaio e marzo 2018 ha rimosso circa 9milioni e 800mila video (qui la pagina di partenza per i rapporti sulla trasparenza di Google). In realtà per arrivare ad una rimozione occorre controllare tutti i video immessi, quindi i numeri sono notevolmente più alti, ma se consideriamo solo i video rimossi, ipotizzando un prezzo di 0,10 centesimi per contenuto (il prezzo dipende dalla quantità totale, la nostra è solo una ipotesi), il costo del controllo di questi video è di 980mila euro. 

E in merito alle piattaforme, occorre rimarcare che l’obbligo di filtraggio non riguarda solo le grandi multinazionali, ma impatta sulla quasi totalità delle piattaforme online. Riguarda certamente Google e Facebook (che però hanno i soldi per permettersi tali filtri), riguarda Instagram ma anche GitHub, piattaforma di condivisione di codici, può riguardare Kickstarter e Patreon che, paradossalmente, sono nati proprio per aiutare gli artisti a monetizzare le loro opere, saltando l’intermediazione dell’industria del copyright. E questo senza contare che un software del genere esiste per contenuti audio o video, ma non esiste per contenuti testuali, oppure software (Github, ad esempio, dovrebbe applicare i filtri a circa 60 milioni di contenuti), che pure sono soggetti al filtraggio di cui alla direttiva.

Infine, tali software di matching non sono in grado di distinguere remix, meme, contaminazioni varie, parodia, satira (cioé le "eccezioni" del caso Lenz vs Universal), per cui rimuoveranno tutto quello che include frammenti di altri contenuti protetti, senza valutare nessuna delle eccezioni o limitazioni al copyright. Da cui l’impatto negativo sulla libertà di espressione ed economica. Ovviamente tutto ciò sarà a beneficio solo delle grandi aziende produttrici e distributrici di contenuti, perché è impensabile che un artista possa spendere soldi per realizzare un proprio sistema che si interfacci con il software di, ad esempio, Youtube. Dovrà, invece, sempre rivolgersi a qualche azienda per la sua tutela.

...che ha fallito i suoi obiettivi

Di contro, l’auspicata armonizzazione delle regole rimane in soffitta. La Commissione aveva promesso di eliminare la frammentazione del mercato europeo, ma il geoblocking rimane (da non confondere con la portabilità dei servizi), a dimostrare che nell’Europa dove il cittadino può spostarsi liberamente e senza costrizioni, i contenuti digitali sono limitati dal principio di territorialità. Cosa che ha limitato fortemente l’espansione dei servizi online (Spotify, 4 anni per raggiungere 13 paesi europei). Perché? Perché l'industria del copyright afferma che è l’unico modo per poter sostenere gli ingenti costi della produzione di determinati contenuti (es. film). In tal modo però si limitano i possibili acquirenti che potrebbero finire per essere tentati da soluzioni illegali.

L’accesso ai contenuti dovrà, quindi, passare attraverso un numero sempre più elevato di licenze, con un aumento esponenziale dei costi di transazione che graveranno sugli utenti finali. Cosa che favorirà i grandi attori, come Apple, Amazon, Youtube, Spotify, che possono permettersi nugoli di avvocati e gestire i negoziati in tutti gli Stati, cosa impossibile per le piccole aziende che finiranno per doversi accontentare di esercitare in un solo Stato.

È un enorme costo per l’innovazione, e il Digital Single Market si rivela per quello che è sempre stato, uno spot a favore delle grandi multinazionali, che introduce barriere all'ingresso del mercato a tutela dei più grandi. Per un mercato nel quale i diritti valgono fin tanto che non riducono i profitti.

Leggi anche >> Europa e copyright: indietro tutta

I pareri degli esperti

La lista delle critiche agli articoli 11 e 13 è lunghissima, e annovera le opinioni dei principali esperti della rete e delle politiche di innovazione.

Cosa puoi fare per il tuo Internet?

Questo non è un problema di destra o sinistra, non è una questione sulla quale dividersi perché il tale partito è contro o a favore, ma è un problema della massima importanza che tocca tutti noi.

Puoi scrivere al parlamentare europeo per dirgli cosa pensi. Il voto avverrà tra il 4 e il 5 luglio.

Ulteriori informazioni sul sito Save Your Internet. Sul sito vi è una mail precompilata da inviare ai MEP. Eventualmente il testo può essere sostituito con quello tradotto qui sotto.

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Caro deputato,
la votazione di luglio in plenaria, sulla direttiva sul diritto d'autore nel mercato unico digitale potrebbe causare danni irreparabili non solo ad Internet nel suo insieme, ma anche ai diritti e alle libertà fondamentali dei cittadini, e all'intera economia dell'UE, creando nel contempo una persistenze incertezza giuridica. È quindi fondamentale votare contro il mandato negoziale (articolo 69c) conferito al relatore, l'eurodeputato Axel Voss. Ho bisogno che tu ti opponga a questa proposta poco equilibrata. Per spiegare il motivo, faccio riferimento ad alcune delle numerose analisi inviate in precedenza da vari esperti, in cui si spiega perché l'articolo 13 è dannoso:
Internet: oltre 70 pionieri ed esperti di Internet si sono mobilitati, al seguito di Sir Tim Berners-Lee, indirizzando, il 12 giugno 2018, una lettera aperta [1] al Parlamento europeo, in cui vi esortano a votare per la soppressione dell'articolo 13, in quanto “imporrebbe alle piattaforme di Internet l'integrazione di un'infrastruttura automatizzata per il monitoraggio e la censura nelle loro reti”.
Diritti fondamentali: oltre 50 ONG, che difendono i diritti umani e la libertà dei media, il 16 ottobre 2017 hanno inviato una lettera aperta [2] al Parlamento europeo chiedendo di cancellare l'articolo 13, in quanto viola la libertà di espressione come prevista dalla Carta dei diritti fondamentali e finirebbe per alimentare una grave incertezza giuridica, al punto che i servizi online non avranno altra scelta che monitorare, filtrare e bloccare le comunicazioni dei cittadini dell'UE.
Certezza giuridica nell'UE: il 26 aprile 2018 gli accademici di 25 centri di ricerca sulla proprietà intellettuale in Europa hanno pubblicato una lettera aperta [3] sottolineando che esiste un consenso scientifico sul fatto che l'articolo 13 riduce la possibilità per l'utente di beneficiare dei vantaggi previsti dalla direttiva sul commercio elettronico (2000/31/CE). Il 17 ottobre 2017, 56 autorevoli studiosi hanno firmato una raccomandazione [4] in cui si avverte che l'articolo 13 "contiene concetti giuridici non equilibrati e non ben definiti che lo rendono incompatibile con l'acquis esistente".
Economia europea: gli editori europei di media innovativi hanno espresso [5] le loro preoccupazioni sull'articolo 13, ritenendo che "queste regole non siano buone per gli editori che si affidano a un Internet aperto e competitivo per creare e diffondere storie ai loro lettori". Allied for Startups spiega [6] che "la tecnologia di filtraggio suggerita aumenterà i costi di lancio di una startup in Europa e allontanerà i talenti".
Grazie!

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[1] https://www.eff.org/files/2018/06/12/article13letter.pdf
[2] https://www.liberties.eu/en/news/delete-article-thirteen-open-letter/13194
[3] https://www.create.ac.uk/wp-content/uploads/2018/04/OpenLetter_EU_Copyright_Research_Centres_26_04_2018.pdf
[4] https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3054967
[5] http://mediapublishers.eu/2017/11/18/members-voice-why-should-publishers-worry-about-article-13-of-the-copyright-reform/
[6] http://www.thedigitalpost.eu/2017/channel-startup-economy/filtering-obligations-dont-torpedo-startups-in-europe

Come funziona il filtraggio dei contenuti online?

Alcuni esempi:

Immagine in anteprima via pixabay.com

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