Scuola: “Non possiamo fare a meno del digitale”. Cosa abbiamo imparato con la pandemia e le prossime sfide
17 min letturaNuovo rientro a scuola, dopo settimane di chiusura. Uno stop and go che va avanti da mesi e che si è tradotto, per tanti, in un anno scolastico sincopato, dove si sono alternati periodi di scuola ‘classica’, in presenza, con altri di scuola interamente in remoto con esperienze diversissime a seconda delle età ma anche delle scuole, degli insegnanti, delle famiglie e dei luoghi dove si è vissuta e talvolta subita la didattica a distanza, ormai ben nota come Dad. Mesi, questi, passati in un’altalena continua di posizioni molto vivaci a favore o contro la Dad, a favore o contro la chiusura delle scuole. Al di là delle ragioni personali e collettive, quello che è chiaro è che un anno passato così rappresenta, sotto molti aspetti, un punto di svolta, di cambiamento, di inevitabile ripensamento del mondo della scuola nel suo insieme.
Come ben sottolinea Gino Roncaglia, docente di Editoria digitale e informatica umanistica all’Università Roma Tre, in un contributo appena pubblicato su Agenda Digitale, è il caso ora di capire come fare a recuperare “il deficit di apprendimento che la didattica emergenziale ha inevitabilmente generato” attraverso un “piano organico e di lungo periodo”. Un piano che, per una volta, andrebbe pensato, disegnato e poi pure applicato e non solamente annunciato, sbandierato e poi rimesso nel cassetto come è successo già troppe volte.
Perché, dice Roncaglia, nonostante lo sforzo immane messo in campo dalle scuole italiane, anche se in modi e a livelli tanto diversi aggiungiamo noi, se è vero che le scuole hanno cercato di portare avanti il più possibile il proprio lavoro, è indubitabile pure che i periodi in presenza, nelle condizioni dettate dalle esigenze di sicurezza, sono stati caratterizzati da profonde alterazioni delle dinamiche collettive, delle possibilità di contatto e scambio tra studenti e con gli insegnanti, di tutte quelle attività che dentro e attorno alla scuola si sviluppano. E i periodi a distanza, con strumenti digitali “pensati per accompagnare l’interazione in presenza e non certo per rimpiazzarla”, hanno dovuto essere affrontati senza possibilità di programmazione a media e lunga durata, e hanno significato per molti, troppi studenti, un’alienazione profonda rispetto alla vita scolastica cui avrebbero diritto.
Abbiamo visto cose...
Vi propongo un esercizio di memoria breve: tornate a marzo scorso, quando le scuole, un po’ a cascata a seconda delle regioni, sono state chiuse. Chiunque abbia in casa o segua da vicino uno o più bambini e adolescenti li ha visti precipitare in un luogo altro, dove la vita quotidiana era in parte o completamente stata messa in standby.
Viviamo da oltre un ventennio in un’epoca in cui grazie alla rete acquistiamo di tutto da qualsiasi parte del mondo, in cui partecipiamo a conferenze internazionali senza spostarci (e succedeva anche pre-Covid, pur con minore frequenza), in cui network di ricerca lavorano producendo nuove conoscenze e condividendo immense moli di dati online - pensiamo solo a progetti scientifici come la sequenza del Genoma Umano di inizio 2000 o la scoperta del Bosone di Higgs annunciato nel luglio 2012. E potremmo fare molti molti altri esempi. Ecco, in questo stesso momento storico, i nostri figli, nipoti, vicini di casa, lanciati in un esperimento massivo di didattica a distanza, sono stati catapultati in uno spazio irriconoscibile. Uno spazio dove, con poche eccezioni, per la stragrande maggioranza degli studenti italiani è risultato chiarissimo che il nostro sistema formativo era del tutto impreparato a usare quella stessa rete, quello stesso sistema, quella stessa risorsa per fare una cosa fondamentale, e cioè per fare scuola.
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C’è chi si è attivato subito. In molti, senz’altro, sono passati senza grossi scossoni tecnici ed emotivi a una didattica digitale mettendo in campo tutto quello che sapevano e potevano fare per dare un senso di continuità ai propri studenti. Ma a giudicare da quello che abbiamo letto in questi mesi, sui media e sulle innumerevoli chat e pagine social, abbiamo anche dovuto arrenderci all’evidenza che gran parte dei nostri insegnanti e delle nostre scuole attrezzati non lo erano per niente. Né sotto il profilo delle strutture, degli strumenti, delle connessioni ma nemmeno, e questo è assai più sconsolante, sotto quello culturale, delle competenze, della capacità di usare e far usare applicazioni digitali per le proprie attività didattiche.
Sono circolati tanti esempi di studenti che si sono messi a disposizione, attivando chat, aprendo canali audio e video su diverse applicazioni a sostegno dei propri docenti per riuscire a fare lezione. E senza dubbio questo ha responsabilizzato molti ragazzi e ragazze e li ha messi in condizione di valorizzare le loro capacità tecniche, informatiche, digitali e di essere attivi promotori del fare scuola con la propria comunità di compagni e insegnanti.
Non arrabbiatevi
Non entrerò nel dettaglio della pletora di aneddoti che – sono certa tutti abbiamo – di insegnanti incapaci di usare un microfono, di far partire un video, di condividere un file. Lo so che molti, moltissimi hanno fatto i salti mortali, che molti, moltissimi, hanno imparato alla velocità della luce, che in realtà questa marcia a tappe forzate ha visto la scuola reagire, in modo scomposto e diseguale, ma dando in ogni caso un chiaro segnale di volontà di esserci. Tra marzo e giugno una parte importante della classe docente italiana ha dovuto fare il lavoro di anni. Però è proprio questo che non va.
Perché se una pandemia di questa portata ha comportato misure straordinarie imponendo una velocità di aggiornamento e adeguamento della scuola veramente impensabile, non dobbiamo pensare per un minuto che fosse accettabile trovarci nella situazione in cui eravamo. Si è sistematicamente evitato di fare in modo che la scuola potesse incorporare, e fare propria, e inserire nei modi e nei tempi opportuni e con le giuste sperimentazioni, e occasioni formative, la didattica digitale nel proprio mondo formativo. Si è scelto, sistematicamente, di lasciare centinaia di migliaia di insegnanti privi della formazione e delle risorse necessarie a imparare ad apprezzare le possibilità, le potenzialità, i benefici dell’uso di diversi strumenti e tecnologie e si è coltivata, condendola anche con una certa supponenza tipica di alcuni ambienti intellettuali nostrani, l’idea che le tecnologie non rappresentino un pezzo integrante della nostra vita ma siano al contrario foriere di caduta di valore, di poca attenzione alla dimensione culturale, umana, all’esperienza collettiva e via dicendo. Continuando pervicacemente a sostenere una separazione netta tra realtà reale e virtuale, tra vita online e vita fisica.
Viviamo una vita onlife (per dirla con il filosofo Luciano Floridi, nel video qui sopra) da almeno 20 anni, dove le comunità digitali lavorano, cooperano, scambiano, creano cultura, valore, economia. Perché la nostra scuola no?
Chiusura o paura?
Ogni volta che la discussione si porta sulla questione dell’arretratezza e dell’inadeguatezza della scuola italiana, c’è sempre qualcuno che scrive articoli, contributi, post in cui si fanno essenzialmente due tipi di ragionamento. Il primo è accusare l’interlocutore di non conoscere il mondo della scuola. In realtà, ci dicono, la scuola lavora da tempo a una costruzione della conoscenza che si basa sul vissuto dei ragazzi, sul coinvolgimento critico e sulla connessione tra discipline scolastiche e vita reale. C’è poi il coro di chi vorrebbe si desse meno enfasi alla tecnologia e maggiore peso e importanza a quello che gli insegnanti sanno fare, che è insegnare e educare. In un documento che ho trovato ripostato in vari siti di informazione per insegnanti, si arriva a dire che non serve l’integrazione del digitale né nuovi approcci meno trasmissivi perché ci sarebbe già un’ampia e diffusa consapevolezza da parte dei docenti italiani delle pratiche dell’Accademia di Atene che comporterebbe l’utilizzo di obiettivi e linguaggi specifici declinati sempre a seconda dei contesti e dei ragazzi nei tempi e nei modi ritenuti più validi e efficaci.
Si aggiunge anche la tendenza a dipingere, a tinte più o meno fosche, grazie anche al pessimo lavoro svolto da molti media che quelle tinte amano accentuare incuranti degli impatti sulle persone, il drammatico effetto che avrebbero gli schermi, i video, l’iperstimolazione, i videogames, i social media e via dicendo, sui nostri ragazzi. E di conseguenza si finisce con il relegare l’uso dei dispositivi alla vita extra scolastica, al di fuori del controllo degli adulti, invece di scegliere consapevolmente di fare da guida, da accompagnatori, da interpreti e facilitatori ai ragazzi nell’esplorare e comprendere quel territorio complicato che è il mondo in cui abitano dalla nascita, intreccio indistinguibile di online e offline, l’onlife appunto.
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Si trovano spesso (nei commenti alle trasmissioni in radio, per me che vado in onda; sui social, nei fantastici talk show televisivi e via dicendo) veri e propri strali contro i giovani che non solo sarebbero egoisti e poco portati a interessarsi agli altri, ma in particolare non sanno più studiare, sono distratti, non approfondiscono, non si interessano di quello che succede attorno a loro, sottostimano l’importanza del sapere. Vale per tutti, però. Anche per chi negli anni ha scelto, a volte consapevolmente e a volte solo affannato dalle tante difficoltà, di non imparare a vivere e gestire quel mondo digitale, proprio quello che nel frattempo stava diventando la casa comune di un’umanità sempre più connessa su scala globale.
E così, chi ha studiato, chi aveva fatto formazione, chi aveva già sperimentato i diversi formati, chi aveva familiarizzato non tanto con i singoli strumenti ma con le logiche della comunicazione digitale è arrivato a marzo scorso con una cassetta degli attrezzi decisamente più consistente. Non è entrato nel peggiore degli incubi, quello in cui ci troviamo a dover fare qualcosa e a non saperla fare. Chi ha dovuto iniziare tutto da lì, da quel momento, senza avere peraltro, proprio per le restrizioni, la possibilità di trovarsi a lavorare insieme, di confrontarsi in aula, di fare prove e tentativi purtroppo ha praticamente scalato l’Everest. Per chi quei territori li aveva già esplorati almeno in parte, è stato un passaggio comunque brusco e faticosissimo da fare con l’aiuto di corde e ramponi. Per gli altri un salto nel vuoto.
Cosa vuol dire fare didattica digitale, sia prima che ora
“Ho insegnato per 6 anni in classi digitali, da due anni sono tornata in classi 'tradizionali'. Come mi sento? Mi sento come chi abbia vissuto per sei anni nel presente e da due anni si ritrovi catapultato nel passato, un viaggio indietro nel tempo che mi rende estremamente nostalgica ma anche determinata a spingere perché la scuola si metta al passo con i tempi e perché inizi a guidare e non più a subire gli epocali cambiamenti degli ultimi anni. Ma che cosa mi manca così tanto?”. Se lo chiede Vittoria Paradisi in un post del blog della community Insegnanti 2.0. La stessa community anima e modera anche un gruppo Facebook che conta a oggi poco meno di 46mila iscritti e che si presenta così: “Non possiamo fare una scuola che non sia com'è la vita che vivono fuori dalle nostre lezioni. Il problema è il disagio che sempre più spesso i nostri studenti manifestano nei confronti della scuola, troppo diversa rispetto alla loro vita. Noi dobbiamo far sì che non stiano male a scuola e il compito di provare a trovare un 'incontro' è tutto a carico nostro e non loro.”
Paradisi, nel suo post, fa riferimento all’uso diffuso del metodo byod (bring your own device) in cui i ragazzi usano i propri dispositivi (perlopiù smartphone) collegandosi al wifi della scuola - ok, quando c’è una rete che funziona. Questo approccio, scrive Paradisi, dà “la possibilità di accedere a quello che ormai è diventato praticamente il canale per eccellenza da cui attingiamo informazioni”, scegliendo di ampliare le fonti di informazione invece di limitarsi a quelle di prossimità come libri e giornali presenti in aula, e soprattutto di poter “insegnare ai ragazzi l’importanza e i metodi per selezionare le informazioni e per riconoscere quelle vere da quelle false e/o manipolate”.
Per tanti insegnanti, il byod è stata l’unica possibilità, per mancanza di strutture e di strumenti. Qualche anno fa, era il 2015, lavoravo a una serie di podcast per RAI Radio3 sulle scuole che sperimentavano una didattica digitale integrata. Erano spesso singole classi dove docenti pionieri facevano questo sforzo extra a titolo completamente gratuito e senza riconoscimenti, talvolta nemmeno da parte dei propri colleghi. Sono stata in scuole primarie dove si insegnava il pensiero computazionale, si usava Scratch, il programma di coding open source e completamente gratuito sviluppato al MIT e usato in tutto il mondo per avviare i bambini alla programmazione. Non c’era un’ossessione per la tecnologia: si leggevano comunque i libri di carta della biblioteca ma si integravano con quelli digitali del tablet. I compiti si facevano in maniera collaborativa lavorando a un documento condiviso invece che su quaderni o cartelloni, e l’insegnante poteva seguire tutto il processo di revisione, capire quale contributo fosse stato dato dai singoli bambini, i punti più fragili, cosa era meglio riprendere e via dicendo. Mi hanno spiegato che c’erano due bimbi con DSA, e l’uso di software che facilitano la lettura o che permettono la trascrizione dell’audio in testo aveva consentito loro di non risultare diversi, di non spiccare nelle loro difficoltà. In una scuola media ho incontrato un professore di lettere che ha iniziato con il byod già dall’avvento di smartphone e tablet, attorno al 2007-2008. Aveva creato una collezione di strumenti e risorse open source, gratuite, online, e i suoi studenti scrivevano in modo cooperativo, si revisionavano i testi e facevano commenti che lui poteva vedere e sui quali costruire un discorso. Per i ragazzi di origine non italiana c’era la possibilità di controllare in tempo reale la traduzione e la pronuncia di un termine o di una espressione. Per chi la rete a casa non l’aveva, il docente aveva promosso l’idea di lavorare a turno e in gruppo nella biblioteca della scuola o in quella di quartiere. In un paio di licei ho visto studenti che collaboravano con loro coetanei di altri paesi europei in videochiamata e chat durante le ore di un progetto interdisciplinare per sviluppare e produrre insieme dei prodotti multimediali (presentazioni con immagini e video in lingua inglese su temi diversi). L’uso delle risorse multimediali offriva a chi non era particolarmente capace di scrivere o fare una presentazione orale l’opportunità di usare altri linguaggi, artistici e visuali, per trovare comunque una voce e un ruolo nel gruppo, un elemento che aveva favorito la relazione tra i ragazzi e ridotto la probabilità di perderne qualcuno per strada. Tutti i docenti che ho incontrato in queste incursioni nel mondo della didattica digitale, a più riprese negli anni, hanno anche voluto sottolineare che grazie alla capacità compensativa di molte tecnologie l’apprendimento può essere più inclusivo, capace di tenere insieme ragazzi con diverse abilità e background socio-culturali senza rendere necessariamente esplicita e visibile la necessità di un sostegno, di programmi personalizzati, di approcci individualizzati e via dicendo.
“Non possiamo fare a meno del digitale,” dice Dany Maknouz, docente esperta di didattica digitale in una intervista pubblicata sull’Aula di Scienze Zanichelli, “perché ci aiuta a veicolare contenuti in una forma nuova, a sviluppare ragionamenti in velocità e ragionamenti olistici”. Così come ovviamente non si può fare a meno dei libri e dei quaderni di carta perché sono utili a favorire il ragionamento lento e il pensiero profondo. “Sarebbe utile interrompere la diatriba e guardare alla completezza di entrambi gli approcci.” Nella didattica digitale, dice Maknouz, i docenti possono giocare un ruolo molto importante di presidio del territorio abitato dagli studenti. Il fatto di lavorare online insieme ai propri insegnanti aiuta a inquadrare il mondo della Rete in modo più critico e attento.
La scuola deve avere un ruolo fondamentale nello sviluppo di una piena cittadinanza digitale, avocata da anni ma assai poco praticata, dove i ragazzi vengono accompagnati nell’imparare un uso attento alle fonti, nel valutare la loro attendibilità, nel coltivare un uso critico degli strumenti e dei materiali che circolano in rete. Laddove questo ruolo è stato assunto dai docenti, è stato utile nei mesi scorsi ad aiutare a capire e interpretare questo momento particolarissimo, a distinguere le informazioni affidabili da quelle, tantissime, che affidabili non lo sono nel mezzo di una delle peggiori infodemie, come l’ha definita la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità, dei nostri tempi. Lavorare assieme ai propri studenti sull’ampio ventaglio di contenuti circolanti in rete e che necessitano di essere valutati, compresi, elaborati significa poter acquisire una capacità critica rispetto al flusso costante di notizie e dati cui siamo tutti continuamente esposti e diventare così consumatori consapevoli di quegli stessi contenuti invece che utenti passivi lasciati a se stessi di fronte a questo costante flusso iperstimolante. Un laboratorio incredibile, da farsi proprio nel momento in cui così tanta informazione è in continuo divenire. Capire le dinamiche con cui si amplifica e circola l’informazione, vera o falsa, nel mondo digitale aiuta a contrastare la disinformazione e i fenomeni di hate speech, rendendo in definitiva i ragazzi anche meno vulnerabili di fronte a questi fenomeni.
La classe rovesciata: cosa aggiunge all’esperienza?
Un complemento naturale della didattica integrata è la possibilità di rovesciare l’esperienza didattica, fornendo video e materiali agli studenti per seguire la lezione a casa, in modalità asincrona, e utilizzare il momento in presenza (in aula ma anche in Dad) per discutere, elaborare, analizzare, sviluppare valorizzando anche i contributi dei ragazzi stessi che hanno avuto modo e tempo di approfondire e integrare. Da una decina d’anni molti docenti stanno sperimentando il cosiddetto modello della classe capovolta, nata ufficialmente negli Stati Uniti una decina di anni fa ma poi nei fatti sviluppata in tante modalità e declinazioni diverse. La classe capovolta propone anche una modalità di valutazione diversa degli studenti, che non si basa tanto sulle verifiche e le interrogazioni ma su una continuità di osservazioni quotidiana da parte dei docenti.
Anche in Italia sono nati gruppi di docenti che condividono risorse e fanno formazione sulle varie declinazioni della classe capovolta per diversi ordini di scuola e discipline (per es. su Facebook Didattica e Flipped classroom con oltre 4000 membri o il sito Matematica capovolta, di Claudio Marchesano, docente all’IIS Federico Caffè di Roma. Qui sotto, nel video, un altro docente, Maurizio Maglioni, racconta la scuola capovolta al TEDxYouthBologna nel 2018).
Un elemento chiave, vale la pena sottolinearlo per tranquillizzare chi si sente molto minacciato dalla dilagante mania di usare termini aziendali e di ispirazione anglofona per riferirsi alle tecnologie digitali anche in ambito didattico, è che gli esempi virtuosi non si focalizzano tanto sugli strumenti, per quanto importanti, ma sull’esperienza. Al di là delle definizioni, infatti, si parla di approcci che prevedono e consentono gradi diversi di apprendimento cooperativo, collaborativo e basato sulla risoluzione di problemi e criticità più che sulla ripetizione e memorizzazione di concetti e di definizioni.
Comunque la si guardi, l’idea di sfruttare le ore asincrone per far leggere, studiare, approfondire in solitaria, e quelle sincrone per discutere, lavorare insieme e tenere le fila del discorso è considerato da molti docenti un buon modo di mitigare i problemi legati a una connessione debole, al fatto che non tutti hanno accesso a un computer e a uno schermo adeguati a seguire una lezione in diretta e delle slides, agli spazi compressi in cui i ragazzi si trovano a fare la Dad.
Ora, in queste settimane, di apertura, chiusura e di apertura parziale per le scuole superiori, è stata più volte sottolineata la necessità di dedicare quel po’ di tempo in presenza a rafforzare i legami nelle classi, ad aiutare l’elaborazione dell’esperienza straordinaria che i ragazzi e le ragazze stanno vivendo, a lavorare sulle relazioni e non a concentrarsi solo sull’apprendimento e la verifica delle nozioni acquisite. L’estraniamento e la difficoltà a dare un senso a quello che sta succedendo, vale la pena sottolinearlo, non è ovviamente solo degli studenti. Su Twitter, @orporick, un insegnante con cui ci seguiamo a vicenda e che posta schizzi, foto di libri e taccuini e racconta in modo molto evocativo questo periodo, sollecitando i propri studenti a un dialogo spesso nutriente per chi lo legge, commenta così l’organizzazione del ritorno in classe al 50%:
Sto guardando gli orari della settimana al 50% in presenza e 50% in DAD con doppi turni e ingressi scaglionati con la stessa faccia con cui ho guardato la terza stagione di Dark. pic.twitter.com/wdwGigh9i8
— orporick (@orporick) April 12, 2021
L’altra sera, @orporick ha postato questo tweet, quando si è saputo che i ragazzi delle scuole superiori sarebbero rientrati in aula in gran parte del paese. L’ho trovato illuminante, dopo aver visto le tabelle orarie e le verifiche e interrogazioni assiepate nelle ore in presenza nei calendari di molti adolescenti di mia conoscenza.
Torneremo a parlare. Di matematica, di fisica, di voi. Non vedo l'ora di ascoltarvi.
P.S. Cercheremo di usare bene le ore in classe, per ricostruire il dialogo. Compiti e verifiche continuiamo a farli online da casa, con serenita', senza sprecare il tempo in presenza.
— orporick (@orporick) April 10, 2021
Indietro non si torna. Speriamo
Una parte importante dei docenti il salto l’ha fatto, in un modo o nell’altro. Tutti si sono messi a cercare strumenti e risorse di qualità. Docenti e genitori, dirigenti e formatori, tutti impegnatissimi a fare liste e a preparare collezioni di risorse disponibili. Anche Valigia Blu ha dato il suo contributo con due lunghi articoli di Carola Frediani (qui e qui) che indicavano strumenti, piattaforme per la didattica e per le chat e per la classe virtuale, collezioni di video e di risorse multimediali, strumenti collaborativi per fare brainstorming, per raccogliere spunti, idee, feedback, fare test, costruire presentazioni e via dicendo. A un certo punto anche il MIUR ha prodotto una pagina dedicata alla didattica a distanza con consigli, indicazioni, linee guida per accedere alle piattaforme più diffuse. Se prima della pandemia solo il 20% dei docenti italiani aveva fatto formazione in ambito digitale, nel corso dei mesi scorsi arrivano dati e indicazioni che dicono che questa percentuale è schizzata in alto.
Moltissimi insegnanti, generosamente, si sono resi disponibili anche a una comunicazione informale con i propri colleghi, ad aiutare, a insegnare. Sul sito Educazione&Scuola, Vincenzo Palmisciano, docente e animatore digitale in un Istituto comprensivo napoletano, racconta di essersi messo a disposizione per facilitare il lavoro dei suoi colleghi a tutto tondo, producendo schede e tutorial, indicando quali strumenti fosse meglio utilizzare, aiutandoli a preparare video e materiali da condividere con i ragazzi per ovviare ai problemi di connettività che potevano esserci durante la lezione in Dad. Marco Mellace, docente di sostegno dell'IIS Luca Paciolo di Bracciano e membro del team per l'innovazione digitale, ha un canale YouTube in cui pubblica regolarmente video in cui cerca di avvicinare i ragazzi alla lettura, alla letteratura, alla poesia. Aperto nel 2017, il suo canale, FlippedProf, ha oggi 19k iscritti e nel 2020 è stato frequentato da centinaia di migliaia di docenti e studenti.
Nel suo libro, Il digitale e la scuola italiana, Marco Dominici, insegnante e autore di diversi materiali didattici nell’ambito dell’editoria scolastica, racconta di molte esperienze che negli scorsi anni hanno cominciato a prendere piede e a farsi strada nel tentativo di innovare l’approccio didattico e prendere della tecnologia quello che poteva essere abilitante e utile. Ne cita alcune che sono tra quelle più note, come il centro Impara digitale fondato da Dianora Bardi o l’esperienza del progetto BookInProgress avviata da Salvatore Giuliano dirigente dell’ITIS “Majorana” di Brindisi. Dominici ricorda anche quella che da molti appassionati di pedagogia e innovazione scolastica è considerata una lezione di riferimento, quella di Ken Robinson che fa una critica fondamentale e molto puntuale ai sistemi educativi sviluppati nel corso del XX secolo ancora oggi impartiti largamente. Il discorso di Robinson è stato tradotto in un videoscribe molto efficace che in questi anni è stato visto e commentato da milioni di persone.
Uno degli scopi della scuola - ricorda Dominici - dovrebbe diventare il “saper condurre i ragazzi da una confidenza tecnologica (spesso over enfatizzata in quanto ‘nativi digitali’ ma completamente fraintesa) a una consapevolezza tecnologica”. E le molteplici strade intraprese, anche in un processo di trial & error (tentativi ed errori) come quello vissuto in questi mesi, possono forse finalmente condurre verso quella direzione.
Continuiamo a studiare, adesso
In uno speciale contributo pubblicato su Slow News, dal titolo Al di là dello schermo, Christian Raimo scrive: “Concentrarsi solo sulle questioni organizzative è il modo in cui spesso si parla di scuola, anche al di fuori della pandemia, tralasciando il cuore vivo della vita in classe: gli aspetti pedagogici e didattici, che – se usati come lenti oltre che come oggetti sul vetrino – chiaramente comprendono anche il resto delle questioni scolastiche.” Nel suo articolo intitolato La scuola dopo la Dad. Riflessioni intorno alle sfide del digitale in educazione, Maria Ranieri, Associata di Didattica e pedagogia speciale all’Università degli Studi di Firenze, sostiene che alcuni studi “sottolineano come nel periodo della Dad siano state riproposte le strategie didattiche tipiche della scuola in presenza” mentre diversi altri studi, oltre a sottolineare l’impreparazione degli insegnanti alla didattica con strumenti digitali mettono anche l’accento sul fatto che “la sospensione della didattica d’aula abbia riportato la lancetta indietro di 11 anni in termini di apprendimenti scolastici, accentuando povertà educative e divari socio-culturali preesistenti”. Al di là di alcuni report, con raccolta di dati da questionari a campione, parziali anche solo per il fatto che sono stati somministrati nuovamente online e quindi intercettando soprattutto quella parte di popolazione che nel mondo digitale è piuttosto attiva, quella che manca, dice Raimo, è una grande inchiesta a fondo per capire com’è andata e quali sono stati gli impatti. E questo è proprio l’impegno dei prossimi mesi.
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