Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e Convenzione sul genocidio: in un mondo devastato dalle guerre cosa ne è rimasto oggi?
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Sono passati settantacinque anni dall’approvazione della Convenzione contro il genocidio, avvenuta poche ore prima dell’adozione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Di fronte alle cronache del mondo, con il loro carico di morte e distruzione, questo anniversario pare stridente, fin quasi al paradosso. Se da un lato, infatti, si deve apprezzare il progresso che le carte dei diritti hanno rappresentato e rappresentano, dall'altro l’umanità sembra incapace di rendere giustizia a queste promesse, e lo stesso diritto internazionale non è privo di difetti che impediscono l’attuazione di dichiarazioni e convenzioni solennemente approvate. Ma forse è proprio per questo che, tre quarti di secolo dopo, occorre tornare ad analizzare quei documenti e chiedersi com’è nata, com’è e com’è diventata la società dei diritti che avevamo dichiarato di voler garantire e che ancora non è realtà.
Di cosa parliamo in questo articolo:
Tra orrore e speranza: il 1948 come nuova pagina della storia
Il 1948 segnò dal punto di vista giuridico e politico un nuovo inizio. Tre anni prima, nel giugno 1945, i “popoli delle Nazioni Unite”, con il proprio statuto, si dicevano “decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra”. Negli occhi dei popoli, o almeno nello sguardo dei loro governanti, stavano le immagini raccapriccianti dei campi di sterminio, e le macerie, materiali e umane, lasciate dallo scontro bellico. I popoli delle Nazioni Unite riconoscevano il “flagello della guerra” come antitesi alla società dei diritti, ancor prima di aver visto la totale distruzione che le bombe atomiche statunitensi avrebbero causato su Hiroshima e Nagasaki, meno di due mesi dopo.
Nella seconda metà degli Anni Quaranta, l’orrore per il passato conviveva con il terrore per presente e futuro: la prospettiva di una guerra nucleare era tutt’altro che remota e gli effetti di scelte belliche simili sarebbero stati catastrofici per l’intera umanità. Risultava ormai impossibile continuare a intendere il diritto internazionale come il luogo della diplomazia, considerando la guerra come un’eventualità nella gestione dei rapporti tra Stati.
Sotto un altro profilo, gli interventi della giustizia per punire i crimini commessi durante la Seconda guerra mondiale rischiavano di apparire come l’applicazione della legge dei vincitori. Al processo di Norimberga, i nazisti imputati furono giudicati da una corte formata da giudici statunitensi, sovietici, britannici e francesi. Anche il principio di irretroattività, consolidato nel diritto penale, sembrava subire un’eccezione. La difesa degli imputati sostenne infatti che le accuse di crimini di guerra, crimini contro la pace e crimini contro l’umanità fossero state mosse sulla base di norme successive ai fatti contestati. La questione fu respinta, dal momento che la violazione del principio di diritto era solo apparente: sebbene infatti la codifica di questi crimini sia avvenuta solo con la Carta di Londra, nel 1945, questa non rappresentava una novità normativa, quanto una diversa formulazione di delitti già ritenuti tali sulla base del diritto naturale e del comune senso di giustizia.
Il 1948 diventa allora l’anno in cui viene teorizzata e proclamata solennemente la necessità di reprimere i crimini contro l’umanità e di riconoscere i diritti dell’umanità stessa. Le corti nazionali e internazionali continueranno a tentare di perseguire i criminali nazisti, con diverse procedure e diversi esiti, mentre nel frattempo convenzioni e dichiarazioni internazionali chiariscono le intenzioni per il futuro, individuando diritti universali intangibili e crimini da prevenire e che, ove commessi, troveranno sdegno e repressione da parte della comunità internazionale.
I crimini contro l’umanità e il problema di fondo del diritto internazionale
I crimini di guerra avevano già una qualche definizione nel diritto bellico: le violenze contro i prigionieri, il mancato rispetto della tregua, l’aggressione di civili e mezzi di soccorso erano punibili in virtù tanto del diritto consuetudinario, quanto di specifiche convenzioni internazionali. L’elaborazione del concetto giuridico di crimini contro l’umanità ottiene invece una prima, parziale, definizione solo nel 1948, con la Convenzione contro il genocidio, che sarà poi ripresa come fonte per diversi tribunali speciali istituiti dalle Nazioni Unite per giudicare i crimini commessi rispettivamente in Cambogia, Ruanda ed ex Jugoslavia.
Il termine “genocidio” fu coniato nel 1944 dal giurista polacco Raphael Lemkin, il quale contribuì anche alla stesura della Convenzione. Giuridicamente, il genocidio è definito come una serie di atti criminali retti da una volontà distruttiva contro un ghenos (una stirpe, una discendenza). Ci deve quindi essere “l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”. In precedenza, con la risoluzione delle Nazioni Unite 96 del 1946, il genocidio era stato descritto come “una negazione del diritto all'esistenza di interi gruppi umani”. Nella Convenzione del 1948, i gruppi potenzialmente vittima di genocidio sono invece circoscritti in chiave nazionale, etnica o religiosa, con l’esclusione delle persecuzioni distruttive motivate da ragioni politiche o di altro genere. Alcuni paesi, attraverso le proprie leggi di attuazione nazionali, hanno ricompreso, nella nozione di genocidio, i crimini commessi ai danni di un qualunque gruppo definito secondo un criterio arbitrario (lo fa ad esempio il codice penale francese).
La Convenzione individua cinque azioni delittuose tipiche che definiscono il genocidio: l’uccisione di membri del gruppo; le lesioni gravi all'integrità fisica o mentale di membri del gruppo; il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; le misure miranti a impedire nascite all'interno del gruppo; il trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo a un altro.
Cinquant’anni dopo l’approvazione della Convenzione, il genocidio è stato compreso tra i crimini perseguiti e puniti dalla Corte penale internazionale, istituita con lo Statuto di Roma nel 1998 e attiva permanentemente all’Aja dal 2002. Il tribunale dell’Aja è un’istituzione distinta dalle Nazioni Unite e si occupa di crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
I crimini contro l’umanità, secondo la definizione dell’articolo 7 dello Statuto di Roma, sono vari delitti (tra cui omicidio, stupro, sparizione forzata, tortura, schiavitù, deportazione…) commessi “nell’ambito di un esteso o sistematico attacco contro popolazioni civili, e con la consapevolezza dell’attacco”.
Tanto la Convenzione contro il genocidio del 1948, quanto lo Statuto di Roma del 1998 devono però confrontarsi con il problema di fondo del diritto internazionale, le cui fonti sono perlopiù di natura pattizia. Convenzioni e trattati, infatti, sono l’equivalente di un contratto tra Stati: sono vincolati agli obblighi di un patto solo quelli che vi aderiscono.
Allo Statuto di Roma non hanno aderito tutti i paesi delle Nazioni Unite, ma 123 su 193 effettivi. C’è anche chi non ha ratificato il trattato: gli Stati Uniti, Israele, la Russia, la Cina non rientrano nell’accordo e negano quindi al tribunale dell’Aja la giurisdizione sul loro territorio. La Corte Penale Internazionale può infatti processare solo individui accusati di crimini commessi sul territorio di uno Stato parte e/o residenti in uno Stato parte, qualora le autorità statali non abbiano capacità o volontà di procedere secondo giustizia. Questo ha ad esempio sottratto alla giurisdizione del tribunale dell’Aja i crimini contro l’umanità commessi in Iraq, in quanto avvenuti nel territorio di uno Stato non aderente.
Tra uso della forza e flagello della guerra
Se la natura pattizia delle fonti giuridiche, con la conseguente assenza di autorità sovranazionali riconosciute dalla totalità degli Stati, comporta troppe volte l’impunità dei responsabili di crimini contro l’umanità, la loro commissione avviene spesso a causa della guerra, attraverso la quale vengono sistematicamente violati i diritti degli individui e dei gruppi sociali.
Nonostante lo statuto dell’ONU ponga, fin dall’art. 2 par. 4, il divieto di minaccia e di uso della forza contro l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di altri Stati (salvo per autotutela in caso di attacco, come prevede l’art. 51), la guerra è ancora un'opzione per troppi governi e, anche oggi, crimini di guerra e crimini contro l’umanità vengono perpetrati in contesti bellici.
Nel corso dell’invasione russa in Ucraina sono state commesse numerose azioni criminali, che violano tanto il diritto di guerra, attraverso l’attacco a obiettivi civili e le esecuzioni sommarie e indiscriminate, quanto i diritti umani inviolabili.
Tra le ragioni alla base del mandato di cattura internazionale emesso contro Putin dalla Corte penale internazionale c’è anche la deportazione di bambini ucraini in Russia. Quest’azione rientra anche tra i vari elementi, già denunciati dagli osservatori internazionali, che potrebbero qualificare i crimini commessi nel corso della guerra in Ucraina come a rischio di genocidio: come si è visto, infatti, il “trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo all’altro” è uno degli atti considerati dalla Convenzione del 1948.
O, ancora, le violenze in Darfur, con morti e sfollati su base etnica, sembrano replicare quanto già avvenuto nel 2003 nelle stesse zone, con quello che è stato considerato il primo genocidio del XXI secolo. Anche la persecuzione etnico-religiosa di musulmani e uiguri in Cina, con campi di rieducazione e misure di standardizzazione culturale, a cui si aggiungono le accuse di sterilizzazione e contraccezione di massa delle minoranze, rappresenta una forma di pulizia etnica che rischia di diventare genocidio.
La guerra impedisce, o comunque limita, anche il controllo sui crimini. I bombardamenti israeliani su Gaza stanno senz’altro causando tra i palestinesi un elevato livello di distruzione, cui si associano le accuse di “pulizia etnica” (concetto che però non è normato nel diritto internazionale) e il rischio di genocidio. Organizzazioni come Human Rights Watch hanno evidenziato l’uso della fame contro i civili palestinesi come strumento di guerra da parte di Israele, con il rischio quindi di gravi carestie. Mentre il Sudafrica nei giorni scorsi ha presentato alla Corte Internazionale di Giustizia il caso contro Israele per l’accusa di genocidio.
Sebbene tutti questi esempi riguardino atti che potrebbero potenzialmente qualificarsi come genocidi, perché il crimine in questione sia giuridicamente configurabile occorre provare che siano commessi con l’intenzione distruttiva del gruppo (nazionale, etnico o religioso). In tutti questi casi, infatti, i responsabili giustificano gli atti delittuosi con ragioni alternative, come il desiderio di garantire, ai minori ucraini deportati, la protezione dagli effetti della guerra; con finalità antiterroristiche, per la repressione cinese; o, nel caso dei bombardamenti su Gaza, come una reazione di difesa contro i crimini di guerra (uccisione di civili e cattura di ostaggi) commessi da Hamas il 7 ottobre.
Anche senza l’intenzione distruttiva che qualificherebbe gli atti come genocidi, certe atrocità restano comunque configurabili come crimini di guerra. Tanto lo Statuto di Roma, quanto la Convenzione di Ginevra del 1949 puniscono azioni belliche come la punizione collettiva, l’uso di armi vietate, le violenze sui civili, i trasferimenti forzati, l’attacco di obiettivi non militari, l’utilizzo di ostaggi, l’aggressione a luoghi di soccorso o di culto. A questi si aggiungono i crimini contro l’umanità, tra cui rientrano anche la pulizia etnica e ogni altra violenza commessa nell’ambito di un esteso o sistematico attacco contro la popolazione civile.
Per giustificare crimini simili a poco vale il riferimento storico, che suona talvolta come un banale riduzionismo, secondo cui, per vincere la seconda guerra mondiale e liberare l’Europa dal nazismo, è stato necessario radere al suolo Dresda e altre città, accettando la violazione del diritto alla vita dei civili che ci vivevano. Questo anche perché la predisposizione di un impianto di diritti, così come l’approvazioni di convenzioni per prevenzione e repressione di crimini contro l’umanità, mirava proprio a prevenire sia l’instaurarsi di nuove dittature e totalitarismi, sia la reazione distruttiva richiesta per rovesciarli. Il ventunesimo secolo non è il 1943, ci sono state nel frattempo, come si è visto, conquiste giuridiche e politiche che non lasciano più alcun margine di legittimazione alla commissione di crimini, anche nella più giusta delle guerre.
Si potrebbe però cinicamente osservare che, comunque, dalla guerra non ci si aspetta altro: è essa stessa un crimine, è strage e devastazione, è l’imposizione della volontà del più violento, è negazione dei diritti umani. Certo non è accettabile, ma la violazione dei diritti in tempo e in zone di guerra è più che prevedibile: è essa stessa un obiettivo della guerra.
Davvero nasciamo “liberi ed eguali in dignità e diritti”?
Ci sono però diritti che sono negati anche in tempo di pace, e anche da paesi democratici.
La dichiarazione universale dei diritti umani, approvata il 10 dicembre 1948, elenca diverse libertà e tutele, che riguardano ogni persona. L’art. 2 specifica che a “ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione”.
Eppure l’effettivo esercizio della libertà di movimento, enunciata all’art. 13, dipende non solo dalle condizioni di ricchezza, ma anche dall’origine nazionale. Sebbene infatti la norma preveda il diritto di ogni individuo “alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato” e “il diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese” esistono profonde differenze nell’accesso ai paesi garantito dai diversi passaporti. Mentre un cittadino europeo può viaggiare nella quasi totalità del mondo, al più dovendo richiedere un visto in anticipo, a persone con altre nazionalità è di fatto preclusa la libertà di movimento, come mostra la classifica dei passaporti più potenti.
Di fronte a queste limitazioni, c’è chi interpreta restrittivamente la portata della libertà di movimento riconosciuta dalla dichiarazione, che riguarderebbe solo chi si trovi già legalmente entro i confini di un paese (come previsto nel successivo Patto ONU sui diritti civili e politici, approvato nel 1966), garantendo come diritto incondizionato soltanto l’emigrazione dal (e l’eventuale ritorno al) proprio paese d’origine.
Questa interpretazione, oltre a ridurre la portata letterale della norma del 1948, svuota di fatto il diritto in questione: garantire l’uscita dal proprio paese, legittimando nel contempo il divieto di ingresso altrove, impedisce di fatto anche la libertà di emigrazione. Tanto più che, per citare Kant, filosofo a cui si deve una prima autorevole teorizzazione sui fondamenti del diritto internazionale, “gli uomini non possono disperdersi all'infinito, ma devono da ultimo tollerarsi nel vicinato, nessuno avendo in origine maggior diritto di un altro a una porzione determinata della terra" (così in Per la pace perpetua, nel 1795).
Ancor più grave, e priva di interpretazioni giuridicamente ipotizzabili, risulta la diffusa violazione del diritto di asilo, di cui anche l’Italia si è macchiata in più occasioni. La protezione internazionale è un diritto umano fondamentale, riconosciuto da numerose dichiarazioni e carte costituzionali, tra cui l’art. 14 della dichiarazione universale del 1948 e la Convenzione di Ginevra del 1951. L’Italia è stata condannata due volte, dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU), per aver violato questo diritto umano: nel 2012, per respingimenti verso la Libia (caso Hirsi), e nel 2014, per espulsioni verso la Grecia (caso Sharifi). Trattare collettivamente e in maniera sommaria dei potenziali richiedenti asilo equivale infatti a negare il diritto alla protezione dalle persecuzioni.
I morti del Mediterraneo, i respinti nei Balcani, i prigionieri dei lager libici finanziati anche con fondi italiani: sono tutti vittime in tempo di pace della violazione di diritti umani, e dimostrano quanto ancora sia inattuato anche soltanto il primo articolo della dichiarazione universale, secondo cui “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”.
La teoria diventa pratica attraverso l’impegno attivo
Se i crimini contro l'umanità sono ancora commessi, e restano talvolta impuniti, se il flagello della guerra macchia ancora il nostro presente, se i diritti non sono garantiti nemmeno nei paesi in pace, specie per chi proviene dalle zone più povere del mondo, a che cosa servono convenzioni e dichiarazioni? Davanti alle celebrazioni del settantacinquesimo anniversario di approvazione di queste carte, è forte la tentazione di cedere al disfattismo, ritenendo ogni sforzo inutile.
L’inevitabile delusione può però essere salutare, se si tengono in considerazione due punti. Primo, la teorizzazione di un nucleo di diritti universali resta di per sé una pietra miliare nella storia dell’umanità. Il riconoscimento della natura innata di diritti e dignità, a prescindere dalle concessioni dei governi, è un’elaborazione teorica fondamentale.
Secondo, nessuna norma giuridica ha valore pratico senza una comunità che la applichi. In un celebre discorso agli studenti milanesi, Piero Calamandrei fece cadere a terra un volume, la Costituzione italiana, sottolineando come questo restasse fermo: “perché si muova” - spiegò - “bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile; bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità”. Per quanto grandi siano le speranze al suo interno e giusti i diritti riconosciuti, qualunque dichiarazione resta lettera morta senza uno sforzo concreto e costante per la sua attuazione.
In quello stesso discorso, Calamandrei offre un’altra suggestione, sulla carica polemica della Costituzione antifascista italiana, uno spirito di contestazione che si può intravedere anche nella Dichiarazione universale dei diritti umani e nelle diverse convenzioni contro i crimini internazionali. Questi documenti giuridici sono infatti anche atti politici e polemici: si contrappongono a un passato tragico e violento, ma polemizzano anche con la realtà sociale del presente, con le scelte, le prassi, gli ostacoli che impediscono il pieno esercizio dei diritti.
L’affermazione solenne dei diritti umani, e l’assunzione di impegno contro i crimini che li ledono, è ancora necessaria, ma non era, né è, né sarà sufficiente. Una società dei diritti non è infatti una conquista raggiunta una volte per tutte, ma traccia un percorso costante per garantire i diritti a tutti e a ciascuno. Solo attivamente, attraverso il riconoscimento e la rimozione della violenza (palese, cristallizzata o strutturata), l’elaborazione teorica diventa esercizio pratico dei diritti umani universali.
Immagine in anteprima: FDR Presidential Library & Museum