‘C’è urgente bisogno di riscoprire la sofferenza umana che la guerra porta con sé’
9 min letturaAlcune settimane fa sono andato da mia nonna, che vive da sola – il resto della famiglia è in Ucraina – in una cittadina vicino Caserta. Come molte donne del suo paese arrivò in Italia rappresentando, con orgoglio e dignità, la povertà dei "selvaggi anni Novanta" post-sovietici che ha costretto una generazione di donne a una vita di caregiving e rimesse. Pur non imparando mai completamente la lingua, mia nonna si mescolò agiatamente tra il provincialismo italiano; qui gli anni Novanta erano, al contrario, ruggenti. Ne era un esempio stereotipato il marito casertano, dolcemente invecchiato a pane e berlusconismo.
Per forza di cose abituatasi alle preferenze televisive dell’ormai defunto compagno, circa vent’anni dopo io e mia nonna ci ritroviamo a seguire i dibattiti sulla guerra in Ucraina su una delle reti più viste in quella casa, e per lei principale fonte informativa dal 24 febbraio.
Ero ovviamente conscio di quello a cui andavo incontro. A parte qualche sporadico consiglio («nonna, forse ogni tanto è meglio una telenovela») l’avevo presa, cinicamente, come un’occasione per farmi due risate e – non riuscendo a smettere per un minuto di pensare alla guerra – almeno volevo guardarla con i paraocchi del teatro dell’assurdo della televisione italiana.
Effettivamente le ore trascorsero in fretta; il conduttore sfuriava e si destreggiava tra le opinioni dei giornalisti, quelli di alcuni ucraini residenti in Italia sulle tribunette dello studio a creare un po’ di folklore (c’era anche un’autoproclamata signora del Donbas che dava dei nazisti a tutti gli ucraini ed europei) e soprattutto quelle di un russo di mezz’età; era il fondatore di un sito web filo-putiniano in italiano. Evidentemente sembrava ancora poco delicato invitare Kiselyov, Solov'ëv e Lavrov.
Quasi ad ogni intervento degli ospiti del talk, mia nonna mi chiedeva delucidazioni, a cui io rispondevo più o meno esaustivamente, finché, durante una pubblicità, non si si sfogò: «Fino a qualche giorno fa ero più sicura delle colpe dei russi, ora mi sembra di non capirci più nulla. Da dove spuntano questi biolaboratori americani? Chi è che ha ragione? Io davvero non lo so più!», lasciandomi piuttosto spiazzato.
Non è semplice ricostruire lo sconcerto vissuto durante la diaspora ucraina in Italia (come negli altri paesi) allo scoppio della guerra. Lo spaesamento iniziale è stato attutito dall’enorme vicinanza dimostrata dagli italiani. Ogni ucraino si è ritrovato il telefono pieno di messaggi di empatia e affetto, anche da persone che non sentiva da anni; sarebbe ipocrita non ammettere che l’invasione dell’Ucraina abbia risvegliato un’empatia maggiore rispetto ad altri conflitti globali. L’affetto, purtroppo, non sempre è bastato nel mettere a tacere le sensazioni più profonde legate a ciò che i nostri parenti e amici affrontavano mentre noi eravamo al sicuro. In molti si è creato una forte dissociazione rispetto alla realtà circostante, spesso sotto forma di una macabra saudade, il senso di colpa per non trovarsi fisicamente nel pericolo insieme ai propri cari. Peggio è andata per i giovani uomini, per i quali la tristezza si è spesso tradotta nel pieno disagio per non essere lì a combattere.
In breve tempo, tuttavia, si è instaurata una sorta di catena-social tra gli ucraini e le ucraine del mondo. Ognuno ha cercato di fare quel che poteva, in relazione al luogo in cui si trovava. L’impreparazione dei russi – che hanno in un certo senso quasi smesso di far paura, nonostante gli orrori commessi, persino derisi con hybris – e l’eroismo di militari e civili (per quanto schernito da alcuni, un mito necessario per resistere alle intemperie della guerra) ha generato negli ucraini una quiete nella tempesta, una consapevolezza dei propri mezzi ma soprattutto dei propri fini. Molte volte sono stati più i residenti a tranquillizzare gli ucraini all’estero piuttosto che il contrario (ovviamente non è certo questo il caso delle città più martoriate, come Mariupol o Kherson).
Da una parte la diaspora cerca di sostenere con tutti i mezzi il proprio paese, dall’altra ha anche un senso di responsabilità storica, trovandosi in una situazione di vantaggio emotivo, nel non permettere che l’inevitabile rabbia e paura si radicalizzi in una condizione di odio permanente, che potrebbe avere conseguenze ad ora indecifrabili. Se è difficile rimanere lucidi sotto le bombe, allo stesso tempo pure lo è farlo in un ambiente a volte ostile e superficiale. Ciò che provano molti ucraini in Italia lo ha ben espresso la giornalista Olga Tokariuk in un thread su Twitter:
Parlo l'italiano ma non commento quasi più per i media lì. Ho cercato di raccontare l'Ucraina dal 2013. Mi fa fisicamente male il livello di disinformazione. Si mette sullo stesso piano l'aggressore e la vittima, si dà spazio a ignoranti e corrotti. […] Ho sempre amato l'Italia, ma dall'inizio della guerra nel 2014 è cambiato tutto. Mi fa troppo male. […] Certo, ci sono bravissimi giornalisti italiani - in realtà le più brave sono le donne - che raccontano le cose come stanno senza pregiudizi verso l'Ucraina, e li ringrazio. Ma io in questo periodo devo pensare alla sopravvivenza e non ho energie per combattere la disinformazione in Italia.
Eppure, nelle prime ore dall’invasione il vento filorusso che da anni soffiava forte sulla penisola sembrava essersi arenato di fronte all’evidenza dei fatti: l’attentato alla sovranità nazionale, le immagini delle sofferenze dei civili, la resistenza anche di quest’ultimi (soprattutto russofoni) e non solo del corpo militare. In breve tempo le cose si sono in parte rigirate: sottomissione agli USA e alla loro war by proxy, richiami scalmanati al presunto genocidio del Donbas, colpevolezza di un popolo patriota (se non nazista) fino all’esaltazione nazionalista, che rischia di portare il mondo a un conflitto mondiale invece di – è tanto semplice! – arrendersi.
Se la solidarietà della gente comune non si è mai fermata, allo stesso tempo si è cercato di minare la legittimità politica di chi veniva aiutato. La maggioranza degli ucraini con amici e parenti in Russia, persino mio zio, si è scontrata con un muro che, nelle prime settimane, negava l’esistenza di una guerra. Allo stesso modo, sicuramente meno evidente, molti ucraini in Italia hanno dovuto affrontare una situazione in cui non si sentivano creduti fino in fondo, soprattutto riguardo l’entità e gravità degli eventi. Dopo che le immagini dal campo hanno esaurito il loro effetto emozionale (a volte provato a neutralizzare fin dall’inizio con le più vergognose e subdole supposizioni, come nel caso di Bucha), si è assistiti a un’escalation vertiginosa della propaganda russa e anti-ucraina. Essa ha trovato terreno fertile in un paese che aveva già uno spesso substrato di controinformazione complottista, già deflagrata sui temi dell’immigrazione e della pandemia, cui Russia Today e Sputnik Italia hanno dato contributo non secondario.
Complice anche una performance dell’informazione mainstream tutt'altro che brillante, le narrazioni “contro il pensiero unico” hanno esacerbato il senso di disillusione, sfiducia e inconsapevole nichilismo di una parte dell’opinione pubblica italiana. Non è infrequente, sui social, vedere schiere di reactions “haha” sotto le notizie delle violenze dei russi. Secondo un report internazionale dell’Institute for Strategic Dialogue, su 20 paesi esaminati l’Italia è il primo tra chi ha condiviso via Facebook dubbi sul massacro di Bucha. A far da traino a questo primato, i post di giornalisti televisivi come Toni Capuozzo.
La cosa più struggente è stata l’appropriazione indebita delle parole “complessità” e “pace”. La prima è diventata molto spesso, al contrario, un modo per relativizzare in nome dello scetticismo, adombrando la falsificazione altrimenti esplicita; la seconda un concetto totalmente astratto e inservibile, vista unicamente come assenza di conflitto. Ancora più straniante è che quest’ultima sembra essere più una responsabilità degli ucraini che dei russi, che appena pochi giorni fa hanno dichiarato di voler rimanere a Kherson e in altre regioni del Sud permanentemente.
Il panorama ideologico dei bastiancontrarismi alla narrazione della guerra in Ucraina è decisamente più eterogeneo rispetto a quello di coloro che sostengono la resistenza. Sarebbe riduttivo ricondurre i legami politici tra Russia e Italia ai soli Berlusconi e Salvini, così come quelli ideologici alla sola estrema sinistra. Un rapporto del 2017, citato da Il Post, del Wilfried Martens Centre inseriva l’Italia tra i paesi, insieme a Grecia e Cipro, più propensi a un miglioramento delle relazioni con Putin. Mentre le sedicenti repubbliche popolari di Donets’k e Luhans’k sono state romanticizzate sia dagli ambienti di estrema destra veronesi che da quelli della sinistra: si veda l'esempio di pagine come il Comitato per il Donbas antinazista, la cui pagina su Facebook ha visto quintuplicare gli iscritti dall’inizio dell’invasione.
I giorni più problematici per molti ucraini in Italia, soprattutto per coloro che si ritengono di sinistra, sono stati quelli vicini al 25 aprile, con le ambigue dichiarazioni dell’ANPI e le successive divisioni durante la Festa della Liberazione; poco dopo, in alcuni comuni italiani si decide addirittura di festeggiare il 9 maggio con la Z degli zaristi. Circostanze che, inevitabilmente, richiamano un nauseante revisionismo storico.
A questo revisionismo si associa la rivendicazione di antichi rigurgiti antiamericani, insofferenti all’interventismo perché “filo-atlantista”; fenomeni comprensibili e conosciuti i cui effetti sono però stati un uso sistemico della disinformazione e un razzismo sostanziale verso gli ucraini e le loro istanze. Definiti come un popolo di badanti non solo nel privato e invitati né più né meno a non resistere, ad andare a morire in patria da chi, per giunta, si oppone all’invio di armi. Al contempo vari intellettuali hanno scelto di trasformarsi in circensi mediatici, spesso richiamando i più bassi stereotipi della controinformazione. Una situazione difficilmente immaginabile in una democrazia compiuta.
Nel nome di una visione della par condicio e della libertà di espressione alquanto imbarazzante, gli ucraini hanno spesso visto – nei talk show e sui social – vedere accostate le loro posizioni insieme a quelle dei russi, quasi fossero due facce della stessa medaglia. E non poteva essere altrove che in una trasmissione italiana che un politico russo rilasciasse delle vergognose dichiarazioni per le quali Putin in persona si è dovuto spendere in scuse diplomatiche con Israele, finora rimasto neutrale.
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Persino intellettuali lucidi come Caracciolo, pur avendo a febbraio sbagliato clamorosamente previsioni, si divertono in diretta televisiva a stuzzicare gli stomaci dell’antiamericanismo sacrificando le voci degli ucraini e pure spartendo il loro territorio con gli ospiti in studio. Una questione che riguarda da vicino anche le fonti dell’informazione, che quando gira bene straparla di propaganda del Cremlino ma poi si affidano alle fonti di giornalisti “embedded” con gli invasori, in barba a qualsiasi deontologia – che spesso scade nel ridicolo, come per le grafiche dei sotterranei dell’Azovstal o le immagini di guerra tratte dai videogiochi.
Ciò non significa che non ci siano luci nella stanza. La satira di Lundini alla retorica “pacifista” durante il Primo Maggio fa più presa sulle nuove generazioni rispetto alle litigate su Rete 4 o LA7. Gli stessi pacifisti non possono essere ricondotti ad unico calderone (alcuni davvero criticano Putin dalla guerra in Cecenia) e monopolizzati da chi chiede resa incondizionata; si può far cadere le armi anche parlando di embargo ai combustibili russi, e anche all’interno dell’ANPI si ammette che la questione delle armi agli ucraini è un travaglio di coscienza purtroppo necessario.
Le rinunce di Mikhelidze, Tocci e Gilli a presenziare ai talk show insieme ai propagandisti russi sono un segnale importante. Ma anche rischioso: grossa parte dell’opinione pubblica non ha il tempo di districarsi tra la fattualità e il debunking, ascoltando ciò che la televisione dice tra le urla di una bambina e il rumore di una pentola a pressione.
Chiedere l’exit da questo caos informativo non vuol dire negare che un’analisi profonda delle cause della guerra e dei problemi che hanno afflitto e interesseranno l’Ucraina sia necessaria. Piuttosto significa rinunciare a dare spazio a chi la spara più grossa nel tempo più utile possibile in cui l’altro non può controbattere. Poiché, è vero, in Ucraina la guerra c’era da otto anni. Ed è possibile parlarne senza ricorrere alla propaganda di Mosca. Si può analizzare il ruolo del nazionalismo in Ucraina e la probabilità che acquisti ancora più peso dopo questa guerra; chiedendosi anche perché nessun (!) partito di estrema destra italiano abbia sostenuto l’Ucraina e nemmeno Azov in questi anni.
Potremo poi domandarci seriamente sul perché la sinistra stia morendo nel paese (e in Est Europa), senza affidarci a un Giulietto Chiesa che non può nemmeno rispondere, ma magari leggendo ciò che dicono le persone di sinistra che ora combattono per l’Ucraina libera, come Taras Bilous. Studiare gli interessi statunitensi senza ricorrere a un dibattito semplificato sul ruolo della NATO, postando una mappa che si allarga negli anni.
Una delle impressioni più profonde è che sembra ci si sia dimenticati del fatto che l’analisi non sia tutto: c’è urgente bisogno di riscoprire la sofferenza umana che la guerra porta con sé; una cosa sempre più difficile nell’epoca in cui la guerra è in diretta su Telegram e poi rielaborata nei salotti televisivi. Proprio per questo allenare l’empatia è necessario, poiché la politicizzazione spinta comporta spesso anche la spersonalizzazione e delegittimazione delle vittime. Per fare tutto questo avremo bisogno di dare ben più spazio alle persone che sono state travolte dalla guerra, rispetto a chi ha scelto di massacrarle, partire dall’ascolto. E bisognerà farlo con onestà intellettuale, complessità e desiderio di pace. Aderendovi per davvero, e non solo utilizzando le parole come vuoti contenitori.
Immagine in anteprima: Bartosz Brzezinski from Chicago, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons