Le voci di chi ha lasciato la Russia di Putin
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Dall’inizio dell’invasione su larga scala dell’Ucraina, il 24 febbraio 2022, la Russia ha registrato una massiccia emigrazione. È difficile quantificare quante persone abbiano lasciato il paese in maniera definitiva. Le stime si aggirano tra le 500mila e un milione. I motivi di questa nuova ondata migratoria sono molteplici. Siccome al lancio dell’invasione è corrisposto anche un duro incremento della repressione interna, molte persone hanno lasciato la Russia per motivi politici e per preservare la propria incolumità. Altre si sono spostate per sfuggire al reclutamento militare. Altri ancora per non perdere opportunità di lavoro a fronte delle sanzioni e dell’isolamento della Russia rispetto ai paesi occidentali.
Secondo uno studio del Centre for European Policy Analysis, i relokanty (termine spesso usato dalla comunità di emigranti per riferirsi al proprio status, da relokacija, “ricollocamento”) possono essere suddivisi in quattro macro-categorie.
La prima comprende giornalisti, attivisti, e membri di organizzazioni non governative. Persone con un preciso posizionamento politico, che è anche al centro del loro lavoro. Questo gruppo ammonterebbe a non più di qualche migliaio. La seconda è rappresentata dall’intellighenzia liberale urbana, in particolar modo professori e ricercatori, magari con rapporti consolidati con università, istituti, centri di ricerca e fondazioni in Europa o negli USA. A spingere questi ultimi a lasciare il paese spesso non c’è un immediato timore per la propria incolumità, bensì una volontà di mantenere la propria libertà lavorativa e di espressione, e di non rinunciare alla propria carriera accademica. La terza categoria di relokanty include manager e figure senior di grandi aziende, banche e imprese.
La quarta e ultima categoria comprende perlopiù chi lavora nell’informatica: programmatrici e programmatori, ingegneri informatici, sviluppatori, che dopo l’imposizione delle sanzioni da parte dell’Occidente non avrebbero potuto continuare il proprio lavoro, o che – se impiegati in aziende russe – possono lavorare da remoto. Questa è la categoria più numerosa, che ha visto un forte aumento dopo l’annuncio di un’ulteriore mobilitazione militare nel settembre 2022. Non si tratta, comunque, di compartimenti stagni: le motivazioni spesso si sovrappongono, restituendo un quadro complesso.
Andar via da un paese in guerra: una storia russa
Se nelle grandi ondate migratorie del secolo scorso (in particolare negli anni del terrore staliniano) i cittadini della Russia imperiale e sovietica si spostavano perlopiù in Europa occidentale, in Cina, e poi negli Stati Uniti e in Israele, i nuovi relokanty scelgono altre destinazioni – principalmente per motivi di visti e permessi. Tra le destinazioni più frequenti vi sono ex Repubbliche sovietiche come Armenia, Georgia, Uzbekistan e Kazakhstan. Anche Serbia e Montenegro sono destinazioni comuni, poiché consentono la permanenza senza visto. Quest’ondata migratoria, però, ha spesso causato attrito con le popolazioni locali, per questioni di natura etnica e legate alla percezione della Russia come forza imperialista, come nel caso di Georgia e Kazakhstan, tanto da suscitare preoccupazione in merito alla sicurezza nazionale.
Anche l’Unione Europea, è una meta frequente. Molti rifugiati hanno trovato riparo in Germania, Repubblica Ceca e Polonia. Berlino, nello specifico, è diventata un importante crocevia per la bolla intellettuale dissidente. Diverse organizzazioni politiche e testate giornalistiche hanno spostato la propria sede nei Baltici – soprattutto in Lettonia e Lituania -, come Meduza, Novaja Gazeta, Dozhd’ e DOXA. Anche in Unione Europea, comunque, diversi Stati hanno espresso preoccupazione per la sicurezza nazionale, e non sono mancati attriti.: nel settembre 2022, il governo estone ha introdotto un divieto d’ingresso ai cittadini e alle cittadine russe, anche se in possesso di un regolare visto Schengen, e ulteriore restrizioni sul rilascio di visti a cittadine e cittadini russi. Il provvedimento è stato aspramente criticato dalle autorità UE. Disposizioni simili, come il divieto d’ingresso via terra a macchine con targa russa, sono stati discussi in altri paesi est-europei, come i Baltici e la Polonia.
Vietare i visti russi verso l’Unione europea è una pessima idea
Il difficile dibattito interno all’Unione Europea in merito al trattamento nei confronti dei migranti russi rispecchia una riflessione che perdura da mesi anche fra i relokanty stessi, in particolare nella bolla più politicamente attiva. Molte persone si interrogano su un dilemma tristemente concreto, ossia il livello di coinvolgimento e di responsabilità di ogni cittadino, anche e soprattutto dell’opposizione, nei confronti del governo e delle sue azioni brutali.
‘Perché i russi non protestano?’
I concetti più discussi sono, da un lato, la colpa collettiva, dall’altro, la responsabilità collettiva. Il primo tende ad adottare un approccio criminalizzante nei confronti del popolo di uno Stato, mentre il secondo si sofferma maggiormente sulla coscienza politica e sull’agentività di ciascun individuo in rapporto al suo contesto. Molti studiosi di area russa hanno affrontato questo tema pubblicamente, sviscerandone le complessità filosofiche. Il nucleo fondamentale della questione è, oltre alla coscienza individuale di cittadini e cittadine, il rapporto di accountability, dunque di responsabilità di un governo nei confronti dell’elettorato e viceversa, in un contesto in cui le dinamiche elettorali sono falsate, e viene sistematicamente negata ai cittadini la possibilità di partecipare alla politica in maniera libera e sicura.
La questione è complicata ulteriormente dal fatto che, in contesti autoritari come quello russo, i sondaggi d’opinione non sono attendibili: anzi, rischiano di distorcere ancora di più una realtà di per sé difficilmente sondabile. Molte persone si interrogano in merito all’esistenza o meno di una responsabilità – se non una colpa – collettiva nei confronti del regime e delle sue violenze. Un concetto fumoso e riduzionista, quello della responsabilità collettiva, insufficiente a descrivere le dinamiche sociali negli Stati autoritari (inclusi i tentativi di ribellione e dissidenza), e che facilmente sfocia in implicazioni pericolose.
In ogni caso, la diaspora russa non è una comunità omogenea. Le comunità russe insediatesi di recente hanno spesso dovuto fare i conti con gruppi preesistenti, risalenti ad altre ondate migratorie, e talvolta ideologicamente vicini al Cremlino. Oltre a ciò, il quadro è frammentato anche fra i gruppi dissidenti. L’opposizione russa era già presente all’estero prima del 2022. Tra le maggiori organizzazioni di opposizione all’estero c’è, ad esempio, il Free Russia Forum di Garry Kasparov con sede a Vilnius, di matrice liberale, che unisce perlopiù oppositori della “generazione precedente”, persone espatriate negli anni Duemila, e ha scarsi contatti e notevoli divergenze politiche con gruppi formatisi più tardi e animati da persone ben più giovani.
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Nonostante la complessità e la frammentazione, i relokanty politicamente attivi e organizzati sono molti. Il progetto Map of peace sta tentando di tracciare le comunità di espatriati russi impegnati in attivismo contro la guerra all’estero. Le modalità di azione più diffuse sono l’organizzazione di eventi di informazione e di protesta, come conferenze e talks sul regime russo o sulla resistenza ucraina; ma anche proteste e manifestazioni, spesso presso istituzioni russe come ambasciate e consolati. Gruppi come Emigration for Action forniscono servizi a rifugiati ucraini tramite donazioni e raccolte fondi: il supporto a rifugiati e migranti è cruciale nell’opposizione al regime russo.
Per restituire la complessità delle esperienze personali, spesso animate da dubbi e contraddizioni, bisogna andare oltre la panoramica generale. Le testimonianze dirette dei relokanty possono offrire uno scorcio, non rappresentativo ma certamente eloquente, sul vissuto personale di chi si è spostato.
Esiliati e no
Nel dibattito accademico e politico si parla di “società civile in esilio”. Ma quanto la condizione di esiliato descrive l’esperienza personale dei relokanty? Il dilemma sta nel fatto che la parola “esilio”, il cui uso rimanda a epoche passate, presuppone l’obbligo formale di lasciare il paese. Tecnicamente, nessuna delle persone intervistate ha ricevuto un simile ordine. Sono le circostanze a rendere il trasferimento una condizione necessaria. Ma quando la necessità diventa costrizione?
“Non mi sono mai sentito in esilio”, dice Ivan (nome di fantasia), ricercatore in un’università britannica. “Dopotutto, per essere esiliata, una persona deve essere stata espulsa dal governo o dalla società. Per me, lasciare il mio paese è stata una scelta personale, maturata col tempo. A un certo punto ho cominciato a sentirmi fuori luogo all’interno della società russa. Probabilmente è successo il 24 febbraio 2022. Da quel momento sono aumentate le minacce dal governo e le limitazioni alla libertà – di espressione, di informazione, di ricerca… Semplicemente, rimanere non aveva più senso”.
Per Katya, giornalista, e Anna, data analyst, la decisione di lasciare il paese è stata una conseguenza di vissuti drammatici. “A fine febbraio 2022 mi hanno fermata a una manifestazione contro l’invasione dell’Ucraina, a San Pietroburgo” ricorda Anna. “Mi hanno trattenuta due giorni in caserma, senza avvocato, senza mangiare né un posto in cui dormire. A difendermi in tribunale c’era un’avvocata volontaria di OVD-Info. Questa esperienza mi ha traumatizzata. Tuttora, ogni volta che vedo la polizia per strada, anche qui in Germania, sento un moto di inquietudine. Dopo quell’episodio ho deciso di andarmene. Non ero d’accordo con le decisioni del governo, con la piega che stavano prendendo le cose.”
Per alcuni, la persecuzione è iniziata molto prima, e l’invasione è stato il punto di non ritorno. Dice Katya: “Ho lasciato la Russia nell’estate del 2021. Nella primavera di quell’anno, alcuni membri della redazione in cui lavoro furono arrestati. Io fui fermata e interrogata, vennero a perquisirmi la casa. Non programmavo di lasciare la Russia. Avevo solo ventun anni, studiavo all’università. Non riuscivo neanche a immaginare cosa volesse dire trasferirsi all’estero definitivamente. Pensavo sarei tornata nel giro di un anno, quando le acque si sarebbero calmate. Ma poi è iniziata la guerra, e ho espresso pubblicamente le mie posizioni. Come giornale seguiamo l’invasione dal suo inizio, e per chi, come me, ne ha scritto senza anonimato, tornare non sarebbe possibile – verremmo tutti arrestati. È un termine controverso, ma è per questo che mi definisco in esilio: di fatto non posso tornare a casa in sicurezza.”
“Prima dell’invasione mi spostavo molto. Andavo spesso in Europa, negli USA, in Asia Centrale, e poi tornavo sempre a casa – a San Pietroburgo”, ricorda Angelina, giornalista freelance residente a Berlino. “Quando è iniziata la guerra ho capito che sarebbe stato ancora più difficile e rischioso lavorare come giornalista. Ho deciso molto in fretta,, e a marzo 2022 sono partita. Fare i conti con la parola ‘esilio’ è complicato. Molti russi si fanno questa domanda – chi siamo? Esiliati, relokanty, migranti? Una persona esiliata è una persona che è stata sfrattata, spinta via. Non è il mio caso, la mia è stata una scelta. D’altro canto, ci ho pensato molto, e credo che il fatto di non poter tornare senza rischiare grosso mi renda a tutti gli effetti un’esiliata”.
Sasha (nome di fantasia), artista, la pensa diversamente. “Sono una persona bianca, nonbinaria, che ha autonomamente deciso di lasciare la Russia per via della situazione politica. Ho cominciato ad accarezzare l’ipotesi nel 2011, dopo le proteste contro i brogli elettorali. Nel 2014, quando la Russia invase la Crimea e iniziò una nuova guerra contro l’Ucraina, ho cominciato a lavorare seriamente verso questo obiettivo. Non è stata una scelta forzata: non sono mai stata arrestata, minacciata, o perseguitata dalle autorità. Avevo solo paura di finire in prigione per la mia arte politica, per andare alle manifestazioni, o per criticare apertamente il governo. Non sono in esilio, non posso appropriarmi di questa parola. Sono migrante.”
Per Anna, la scelta di andarsene ha un secondo significato: “Oltre alla mia sicurezza, è anche un gesto di protesta. Non voglio sostenere uno stato che uccide le persone. Concretamente, non voglio che le mie tasse vadano al governo e finanzino questa guerra. Non voglio lavorare per imprese russe. Voglio mettermi al servizio di altro.”
Questa posizione è molto diffusa fra i relokanty russi, come ha presentato la ricercatrice Galina Selivanova in uno studio preliminare sulle comunità russe all’estero. La scelta di andarsene è dovuta sì al presagio del pericolo concreto, ma spesso anche a una volontà di fuoriuscire da un sistema con cui non si è d’accordo, e di smettere di sostenerlo col proprio lavoro, nelle circostanze in cui non c’è più spazio per l’opposizione formale. Per molti relokanty, quindi, l’esilio si sfuma in una posizione politica attiva: la diserzione non solo dalla leva, ma dall’intero sistema.
Il lavoro
Chi ha lasciato il paese per assicurarsi la libertà, spesso l’ha cercata e trovata anche e soprattutto in ambito lavorativo. “Nel 2015, la Russia ha dato il proprio supporto a Bashar al-Assad e ha contribuito allo sterminio dei civili in Siria,” ricorda Sasha. “Ho lavorato a lungo a opere di protesta. Era chiaro che non avrei mai potuto esporle in nessuna galleria di prestigio. Ho contattato un amico che gestiva una piccola galleria indipendente, ma ha rifiutato anche lui, dicendomi che era troppo pericoloso. Lì ho preso la decisione definitiva. Dal 2017 non vivo più in Russia – qui posso lavorare liberamente”.
Il lavoro all’estero, però, può essere anche un’occasione di maturazione politica. Dice Oleg, ricercatore in Italia: “Quando ero in Russia, ed è scoppiata la guerra, volevo lasciare il mondo accademico. Poi è arrivata l’opportunità di trasferirmi, e allora ho deciso di continuare, e ho riflettuto sui temi a cui volevo dedicarmi. Ho cominciato a impegnarmi ancora di più nella ricerca sociale, a collaborare con colleghe e colleghi verso un obiettivo comune, verso una comprensione più profonda. Ora siamo molto più coesi.”
In questo senso, è più viva che mai la questione del legame fra vita professionale e vita personale, che nel caso di Oleg è principalmente positivo: “Studio le società civili russa e ucraina, mi occupo di rivoluzioni e di dissidenza. Cerco di capire le dinamiche che sottendono gli eventi di questi anni. E di conseguenza ho cominciato a partecipare più attivamente alla politica dal basso. La mia ricerca mi aiuta a capire in che direzione lottare, concretamente.”
E per chi lavora a contatto con la Russia? “Noi siamo in esilio, nel senso che non possiamo tornare senza ritrovarci in pericolo”, sostiene Leonid, coordinatore di OVD-Info, un’importante organizzazione russa per i diritti umani. “Ma, di fatto, nel nostro lavoro non cambia nulla. Il nostro gruppo è presente in tutta la Russia, o quasi. Ci basiamo su un’organizzazione efficace da remoto. La maggior parte dei nostri volontari e colleghi si trova sul campo, siamo in contatto costante con loro, e sul loro lavoro si basa il nostro: in questo senso, se devo lavorare su dati raccolti a Ekaterinburg, non cambia molto farlo da Mosca o da Barcellona. Abbiamo sempre lavorato così, e funziona. Al momento, per noi, non c’è alcun distacco, solo la volontà di potenziare ancora di più le nostre capacità.”
Le conseguenze della diaspora
“A Londra mi sono trovato bene”, racconta Ivan. “Sono fortunato. È una città multiculturale, di spirito liberale: a nessuno importa da dove vieni, qual è il tuo colore della pelle o il tuo orientamento sessuale. Quando ci siamo trasferiti [con la famiglia, NdA], avevo paura del giudizio degli altri nel sapere che siamo russi. Invece siamo stati accolti con cordialità e amicizia. C’è da dire, però, che la comunità russa londinese mi sembra equivoca. Da un lato, si organizzano eventi, conferenze alla Pushkin House, manifestazioni sotto l’ambasciata. Dall’altro, però, non ci sono azioni concrete. Sono solo parole. Non ci sono reti di mutuo supporto, di aiuto concreto per chi è appena arrivato e ha bisogno di indicazioni, o per chi è ancora in Russia e vuole emigrare. Nel privato non si parla quasi mai della guerra.”
“Avevo l’impressione che nessuno volesse ricreare una ‘società civile russa’ a Londra”, continua Ivan. “Le persone non sono politicamente impegnate, sia quelle che sono arrivate dopo il 24 febbraio, sia quelle che sono qui da anni. È strano, perché secondo molte ricerche è una città con un enorme ‘capitale sociale’: ci sono tantissime persone con grandi disponibilità economiche e culturali. Quindi dovrebbe esserci un forte potenziale per l’auto-organizzazione. Ma non è quello che succede”.
Insieme alle aspettative deluse, il rapporto con passato è spesso fonte di tormento. Una nuova vita non significa necessariamente una rinascita positiva. Racconta Angelina: “Sono stata depressa per mesi dopo il trasloco. Mi sentivo sopraffatta dalla burocrazia, e vedevo il mio paese fare cose sempre più orribili. Non riuscivo ad alzarmi, volevo solo dormire. Ho perso due persone a me care in Russia (non per via della guerra), e non sono potuta andare al funerale. È stato molto difficile da accettare. Ma poi c’è stata la realizzazione: la mia vita ora è qui. Continuo a essere molto triste – per quello che succede in Ucraina, per cosa è diventato il mio paese, perché mi mancano i miei amici e la mia città. A volte mi ritrovo a ‘camminare’ per le vie di San Pietroburgo con Google Street View. Questa tristezza è a tutti gli effetti parte di me ora, anche se sento di aver iniziato una nuova vita.”
Anche per Anna le cose non sono state facili. “Qui a Francoforte non conoscevo nessuno. Mi è molto difficile ambientarmi, sto studiando tedesco, ma mi vergogno perché non lo parlo bene. Tutti i miei affetti sono lontani: amici, famiglia, fidanzato. Ma forse è il prezzo da pagare per la sicurezza e per la libertà.”
I ponti fra il paese ospitante e la madrepatria sono difficili da costruire, e ancora più difficili da mantenere. La nostalgia è un sentimento condiviso, ma che non si presenta mai da solo.
“Da fuori, percepisco sempre un maggiore distacco con la vita quotidiana in Russia.”, dice Katya. “Per via del mio lavoro sono sempre aggiornata sui fatti di cronaca. Ma non basta. Non vedere cosa succede nelle strade di Mosca, non sapere di cosa parla la gente, non vedere i cartelloni pubblicitari per il reclutamento militare, non poter parlare liberamente con mio fratello, che va a scuola e ogni giorno segue lezioni intrise di propaganda a favore della guerra… Tutto ciò alza un muro fra me e in Russia. Ho sentito per molto tempo un senso di perdita e di dolore. Ora lo sto superando, sento di appartenere alla comunità berlinese, ma mai del tutto. Un po’ a metà.”
“La nostalgia di casa non mi abbandona mai. In fin dei conti la Russia è casa mia. Ma ogni volta che penso di tornare, mi prende la paura. Non è una cosa che posso programmare. Non me la sento di correre un rischio così grande”, spiega Oleg.
“Provo grande vergogna”, dice Sasha. “Me ne sono andata per paura del pericolo che rimanere e combattere avrebbe implicato. Questa vergogna non mi lascerà mai”.
Nell'ambito dell'iniziativa Valigia Blu Live, Claudia Bettiol (corrispondente dall'Ucraina per Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa), Andrea Braschayko (giornalista tra gli autori del libro 'Ucraina. Alle radici della guerra', Maria Chiara Franceschelli (Scuola Normale Superiore di Pisa, co-autrice, con il professor Federico Varese, del saggio 'La Russia che si ribella'), Giovanni Savino (storico, si occupa di Russia e nazionalismi nell’età contemporanea presso l'Università Federico II di Napoli) interverranno il 21 aprile al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia nell’evento “Russia e Ucraina due anni dopo”.
Immagine in anteprima: frame video CBS News via YouTube