Andar via da un paese in guerra: una storia russa
|
di Ksenia Filimonova e Giovanni Savino*
Le storie degli emigrati dalla Russia sono come le famiglie descritte da Tolstoj in Anna Karenina, le felici sono simili tra loro e le infelici lo sono a modo suo. Con la felicità più o meno è comprensibile, nuovi paesi, nuove possibilità, nuove carriere, si può qui inserire qualsiasi testo di coaching di crescita personale sull’uscire dalla comfort zone e sui successi. In questi giorni tra gli utenti russi di Instagram è diventata virale la bucket list dell’emigrazione, dove vi sono le attività tipiche e le situazioni in cui si trova chi ha lasciato il paese: è andato via, ha fatto richiesta di permesso di soggiorno, ha messo in vendita la casa (non solo per avere qualcosa con cui vivere, ma per evitare che possa essere requisita dalle autorità russe, visti i discorsi al riguardo), ha trovato la grechka (il grano saraceno), è stato dallo psichiatra, prende i farmaci antidepressivi e gli manca la neve.
La nostra storia assomiglia e non assomiglia a tutto ciò. Ho sempre detto che la nostra emigrazione è stata di quelle semplici, perché andando via non abbiamo avuto problemi nel trovare casa, per un periodo siamo stati dai genitori di Giovanni, e poi ci hanno aiutato tanto i nostri amici e i lettori dei nostri canali Telegram; se confrontato a quanto hanno dovuto passare chi è restato per giorni in fila alla frontiera con la Georgia o con il Kazakhstan, chi ha dovuto cercare con grande difficoltà dove vivere, insomma, c’è andata bene, ma fino a un certo punto.
Fino al febbraio del 2022 vivevamo a Mosca in un piccolo appartamento sul Leninskij prospekt, non lontano dal centro: avevamo due curricula solidi, lavoravamo in università prestigiose, la routine era simile a quella di tante famiglie moscovite - lavoro, scuola, scuola musicale e così via. Giovanni viveva da 10 anni a Mosca, prima aveva vissuto a lungo a San Pietroburgo, io ci sono nata e cresciuta, addirittura non avevo mai cambiato casa, avevo sempre vissuto sul Leninskij prospekt, dove avevo trascorso la mia infanzia sovietica, ero andata all’università, tra quelle mura sono cresciute le mie figlie.
Il 24 febbraio ha cancellato questa vita. Piangevano e piangevamo tutti. Ho fatto lezione online con gli studenti (c’era ancora la didattica a distanza in alcuni atenei) e abbiamo pianto insieme e deciso di non far lezione. I media italiani hanno cominciato a chiamare senza sosta Giovanni per commentare la situazione, e ha iniziato a scrivere articoli, apparire in radio e in tv, provando a spiegare cosa stava succedendo, ma spiegarlo è impossibile, perché questa guerra folle non ha spiegazioni. Poi a lezione Giovanni si è trovato ad affrontare il tema su richiesta degli studenti, anche loro sotto shock, e alla domanda su cosa pensasse della guerra ha risposto che si trattava di una tragedia immane, per l’Ucraina bombardata ma anche per la Russia.
Dopo una settimana c’è stata la proposta di introdurre una legge sulle fake news e il vilipendio delle forze armate, con pene detentive. Una legge diventata realtà, a causa della quale vengono inferte condanne a vari anni di galera, esempi più noti ne sono Ilya Yashin, Alexey Gorinov, condannati rispettivamente a 8 anni e 6 mesi e a 7, ma ci son tanti comuni cittadini ora in prigione per aver scritto un post sui social o detto qualcosa nel momento sbagliato. Era chiaro che per Giovanni la prospettiva era quella, rafforzata dalle minacce e dalle conversazioni poco piacevoli avute dopo la discussione con gli studenti, perché non era “patriota” secondo alcuni colleghi dell’università dove aveva iniziato a insegnare da poco, e nel giro di due ore la valigia era pronta, i biglietti per Pietroburgo e poi per l’Estonia presi: doveva essere il primo ad andarsene, e ci siamo riusciti grazie anche al sostegno di un paio di amici che lo hanno accolto a Tallinn e poi da lì mandato a Napoli.
Noi siamo restate per fare i documenti necessari per il trasporto dei cani, preparare i bagagli, mettere a posto varie situazioni. Non è una situazione unica, perché nel settembre del 2022, quando c’è stata la mobilitazione parziale, lo schema è stato questo, in men che non si dica gli uomini venivano mandati via dalla Russia e le donne restavano per impacchettare tutta la loro vita in scatoloni da inviare chissà dove, vendevano quello che avevano e si occupavano delle faccende burocratiche, dai documenti per gli animali fino alle deleghe da lasciare a parenti e amici.
Tre settimane dopo, anche noi siamo andate via. Mosca-Pietroburgo-Ivangorod, dove abbiamo attraversato il confine a piedi, con due valigie ognuna dal peso di 40 chili, due spitz, Fed’ka e Sanja, e la repressione lasciata al di là del confine. Però l’ansia ha cominciato a crescere, mia madre, non più giovane, era restata in Russia, e ne aveva viste tante, in quei giorni ricordava la crisi dei missili a Cuba nel 1962 e di come era terrorizzata da una possibile guerra, ancor di più lo era mia nonna, che vent’anni prima, nel 1942, giovane studentessa era stata mobilitata per scavare le trincee nei dintorni di Rzhev, dove caddero contro i nazisti più di un milione e trecentomila soldati sovietici, e sapeva quindi per esperienza diretta cosa volesse dire quella parola. Strane coincidenze, la nonna di Giovanni, che da giovane ragazza aveva vissuto i bombardamenti di Benevento e la distruzione della propria città, guardando le immagini provenienti dall’Ucraina ricordava quei momenti di cui aveva sempre parlato poco. Oltre il confine c’era Giovanni in auto, ci aspettavano dieci giorni per strada da Narva a Napoli. In macchina, nei parcheggi, nei caffè e negli ostelli abbiamo fatto le ultime lezioni online lì dove ci avevano ancora permesso di lavorare, ma poi poco dopo la didattica a distanza viene proibita, proprio per colpire quei docenti universitari andati all’estero, e così abbiamo perso il lavoro.
E poi è andata anche peggio: a giugno improvvisamente è morta mia madre, son dovuta andare a Mosca per organizzare i funerali e poco dopo è morto il padre di Giovanni; abbiamo seppellito i nostri genitori nel giro di tre settimane. In più ero ancora senza permesso di soggiorno e sono andata via con il visto in scadenza, un rischio perché ottenerne uno per i cittadini russi è diventato difficile se non impossibile: una nostra amica ha avuto ben due rifiuti per il visto britannico nonostante fosse entrata in un programma di studio di un ateneo, lo stesso è accaduto a un’ex studentessa di Giovanni che avrebbe dovuto iniziare a studiare in Italia, ma non aveva una somma sufficiente sul conto secondo le autorità consolari. In seguito tutto è andato secondo la bucket list: trovare un appartamento, per il quale è necessario avere referenze - non avendo mai vissuto a lungo qui una vera difficoltà, siamo stati aiutati dalla nostra vicina, anche lei amante degli spitz; aprire un conto bancario, e ben cinque banche mi hanno rifiutato, perché russa; iscrivere nostra figlia a scuola, dove però, nonostante gli sforzi degli insegnanti, per i migranti l’inclusione è più una bella parola che una realtà, checché ne dica qualche vecchio professore in editoriali vergognosi; e infine studiare la lingua. E nella lista non possono mancare lo psichiatra e i farmaci.
Per il primo anno sono andata in Russia quattro volte, portando nelle valigie la nostra vita precedente in Italia, e per ultima è arrivata la nostra gatta, Pugovitsa, che ha sempre vissuto con noi dalla nascita e non era mai uscita di casa. Ho capito che l’emigrazione sarebbe stata a lungo, forse per sempre, quando ho impacchettato e spedito in Italia la nostra biblioteca. Non sono stata a casa dall’agosto del 2023 e forse sarebbe più giusto dire che non so rispondere alla domanda dov’è casa mia. Abbiamo dovuto ricominciare da zero, perché la nostra carriera e le nostre storie professionali non valgono, tutta l’esperienza in Russia, il lavoro, l’insegnamento, non hanno alcun valore. A quarant’anni e più non è una bella scoperta. Per questo non abbiamo posti fissi all’università, ma solo a termine, alcuni contratti son stati davvero buoni, come visiting professor, ma si tratta di poco tempo: i nostri titoli accademici non valgono più, come le pubblicazioni in alcune riviste, insomma siamo senza storia. In questo momento ho un contratto d’insegnamento con una somma assai piccola che forse riceverò nell’autunno del 2024, e non ne capisco la logica, forse si pensa che i docenti, italiani e non, in un anno non debbano mangiare né pagare l’affitto. Sono stata direttrice per lo sviluppo del più grande centro culturale di Mosca, ma anche questo non conta. La domanda “come va con l’italiano” per me ancora oggi è molto dolorosa perché sembra che sia semplice studiare una lingua, e si tratti di pigrizia, ma per me è la quinta, senza contare il russo e la conoscenza passiva dello spagnolo e del francese. Vorrei rispondere “provateci voi a studiare a quest’età” ma invece mi sforzo ancor di più e pago i miei insegnanti e faccio sempre i compiti.
Per questo proviamo a rimboccarci le maniche e organizzare cose, tirar fuori il lavoro che ci piace e poter applicare le nostre conoscenze. A Mosca non avevo mai pensato di avviare una mia attività, avevamo tanto lavoro ma qui al momento sembra essere l’unica possibilità. Ci stiamo impegnando: corsi, il club del libro, canali Telegram, podcast, e presto anche il sito, l’attività di divulgazione era una parte importante della nostra vita moscovita e qui c’è un pubblico affezionato, di tante brave persone. Qualche volta qualcuno ci chiede se avevamo in mente di restare in Russia, e la risposta è che sì, più volte abbiamo pensato di andar via, ma come prospettiva di lungo termine, per trasportare la nostra vita lì da un’altra parte e non tranciarla di netto, com’è stato con la guerra: esser padroni del proprio destino dovrebbe esser qualcosa di normale per chiunque, ma oggi, in Russia e in Ucraina, dove la situazione è anche peggiore, non lo è per milioni di donne e uomini.
*Ksenia Filimonova insegna Lingua e letteratura russa presso l’Università Orientale di Napoli, si occupa della letteratura concentrazionaria in Unione Sovietica e in passato ha lavorato per il Dipartimento della cultura della città di Mosca. Cura il canale Telegram Non solo Dostoevskij
*Giovanni Savino, storico, si occupa di Russia e Europa orientale. Autore di saggi e articoli sul nazionalismo russo, e della monografia "Il nazionalismo russo, 1900-1914: identità, politica, società", Federico II University Press fedOA Press, Napoli 2022 (si può scaricare qui).
Se volete sostenere i progetti di Ksenia Filimonova e Giovanni Savino, autori dei canali Telegram Non solo Dostoevskij e Russia e altre sciocchezze, potete farlo con una donazione qui. C’è anche una newsletter gratuita a cui potersi iscrivere.
Immagine in anteprima: Ksenia Filimonova a Narva