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“Prima o poi questo inferno finirà”. Le voci della diaspora iraniana in Italia a un anno dalla morte di Jina Mahsa Amini

19 Settembre 2023 7 min lettura

“Prima o poi questo inferno finirà”. Le voci della diaspora iraniana in Italia a un anno dalla morte di Jina Mahsa Amini

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«Oggi siamo qui per ricordare a tutto il mondo cosa sta succedendo in Iran, per denunciare questo governo di assassini. Anche se non ci sono parole per descrivere la brutalità di questo regime». Hanieh, 30enne di Shiraz, sembra quasi incredula mentre racconta della repressione in atto nel suo paese e spiega perché ha deciso di partecipare alla manifestazione che si è tenuta a Roma il 16 settembre. Esattamente un anno prima, la notizia della morte della 22enne curda Jina Mahsa Amini, in custodia della polizia morale con l’accusa di non indossare correttamente l’hijab, ha innescato un’ondata di proteste che ha coinvolto tutto l’Iran. Nonostante le proteste siano meno frequenti e abbiano perso l'intensità dell'inizio, l’anniversario di questo lutto è stato celebrato con iniziative e manifestazioni di solidarietà in diverse città in tutto il mondo. Nelle stesse ore gli iraniani in patria hanno affrontato l’imponente dispiegamento delle forze di polizia, da settimane allertate per prevenire la rivolta, che non hanno esitato a sparare sui manifestanti della capitale e ad arrestare centinaia di persone nella regione del Kurdistan. All’avvicinarsi dell’anniversario della morte di Amini, le autorità hanno arrestato diversi familiari delle vittime delle proteste, compreso il padre della ragazza che è diventata il volto della sollevazione. «Questo regime opera in maniera mafiosa», dichiara a Valigia Blu Leila Shirvani, violoncellista di origini anglo-iraniane, nata e cresciuta a Roma. «È una violenza psicologica non solo verso il padre di Jina, ma verso tutti gli altri. Il messaggio è chiaro: se uscite a protestare farete la stessa fine».

«È diventato molto difficile manifestare. La polizia è dappertutto e Internet viene bloccato o controllato», spiega Yaya, una studentessa originaria di Teheran. Ha il volto coperto da grandi occhiali scuri e dalla mascherina. Anche chi vive all’estero non può considerarsi totalmente al sicuro. «Tantissime ragazze sono state minacciate anche qui in Italia, perché l’Ambasciata iraniana manda delle persone a fotografarle per poterle identificare», aggiunge Shirvani. La stessa cosa è successa ad Afrooz, che vive in Italia da circa dieci anni. «L’anno scorso sono andata a protestare davanti all’Ambasciata a volto scoperto, e poco dopo ho ricevuto una telefonata anonima in persiano. Mi hanno insultata e ho subito riattaccato. Ho capito che per il momento è troppo rischioso tornare in Iran, anche se tutta la mia famiglia è lì e non la vedo da cinque anni».

Shiva Boroumand porta una maglietta bianca che le lascia la pancia scoperta. Sulla pelle ha scritto la parola “libertà”. Lavora nel campo del turismo, ma è anche impegnata come attivista per i diritti umani e fa parte di diverse associazioni. In mano regge un piccolo cartello con lo slogan curdo diventato simbolo della rivolta iraniana: “Donna, vita, libertà”. «Mi hanno fermata diverse volte qui a Roma, solo perché avevo un cartello come questo». Per questo motivo, continua l’attivista, «dobbiamo scendere in piazza e batterci per i nostri diritti. In Iran come in qualsiasi altra parte del mondo». E in Iran si continua a protestare, nonostante la repressione della Repubblica Islamica abbia causato la morte di più di 600 persone (tra cui 79 minorenni) e oltre 22.000 arresti. A Zahedan, una delle città più duramente colpite dalle forze dell’ordine, le persone continuano a mobilitarsi. «Ogni venerdì, dopo la preghiera, c’è una manifestazione», racconta Niusha Eskandarzadeh, studentessa di architettura e attivista. Sta scrivendo la sua tesi sull’ architettura rivoluzionaria in Iran, in cui parlerà di diversi edifici, tra cui proprio una moschea di Zahedan. «Lì le persone sono molto credenti e il fatto che stiano portando avanti la protesta contro la Repubblica islamica è molto significativo».

Gli iraniani stanno cercando nuove forme e strumenti per esprimere il loro dissenso. «In questo momento ad esempio ci sono molti scioperi. I negozi rimangono chiusi e la gente cerca di boicottare il governo in diversi modi», racconta Shirvani. «Anche dalle prigioni, dove ci sono tantissimi attivisti e intellettuali, il movimento va avanti», spiega Boroumand. Nel reparto femminile del carcere di Evin, sette prigioniere politiche, Azadeh Abedini, Sepideh Gholian, Shakila Manafzadeh, Golrokh Iraee, Narges Mohammadi, Mahboubeh Rezaei e Vida Rabbani, hanno rilasciato un comunicato per dare notizia della loro iniziativa in solidarietà “con il popolo e per protestare contro il regime”. «Una delle forme più belle di protesta per me è legata alla musica, che fin dall’inizio ha accompagnato la nostra rivoluzione», dice Eskandarzadeh. «Come Baraye di Shervin Hajipour, che ha vinto il Grammy Award, o la nuova canzone del rapper Hichkas Ma Edame Darim, che ha riportato l’attenzione sulle proteste. La nostra cultura è da sempre legata alla poesia e alla musica, e ancora una volta il popolo iraniano si sta unendo attraverso l’arte, specialmente attraverso l’hip hop che è un mezzo potentissimo di protesta. Il regime ha paura dell’arte, ma non può fermarla».

Una donna con una benda rossa agli occhi protesta durante le manifestazioni a un anno dalla morte di Jina Mahsa Amini. Nonostante le proteste siano meno frequenti e abbiano perso l'intensità dell'inizio, l’anniversario della morte di Jina Mahsa Amini è stato celebrato con iniziative e manifestazioni di solidarietà in diverse città in tutto il mondo. Abbiamo raccolto le voci della diaspora iraniana in Italia.
Foto di William Frezzotti

La conquista più grande è quella ottenuta dalle donne, che da quando hanno osato togliersi il velo in pubblico non se lo sono più rimesso. Formalmente, l’hijab continua a rimanere obbligatorio e attualmente il governo sta lavorando all’approvazione di una legge ancora più severa. Ma Samane, che vive in Italia da tredici anni, ha trovato un paese completamento diverso quando, il mese scorso, è tornata in Iran. «Non potevo credere di vedere le donne girare per strada a Teheran senza l’hijab e vestite in maniera più libera. Io stessa ho cominciato a non portarlo e vedevo che nessuno diceva niente, nemmeno le persone più religiose». «Abbiamo perso tanti giovani e forse anche un po’ di speranza», dichiara una ragazza che ha scelto di parlare in condizione di anonimato, «ma il fatto che le donne escano senza velo è già una grande conquista. Le persone manifestano senza armi né violenza contro un regime potente e armato, che però ha paura delle donne». «Le donne iraniane sono molto coraggiose», afferma Arman, dottorando in telecomunicazioni, «se fossi al posto loro non so se lo sarei altrettanto. Noi uomini dobbiamo supportarle. Per fortuna la mentalità maschile sta cominciando a evolvere, ma abbiamo bisogno di un cambiamento ancora più profondo».

Un cambiamento che parte dalla libertà delle donne ma che non si esaurisce in questo. Secondo Eskandarzadeh, «questa è una rivoluzione progressista e inclusiva, che parla a tutti i generi, a tutte le etnie. Il movimento “Donna, Vita, Libertà” è un ponte che può unire tutti, nel Medio Oriente e nel mondo». Le fa eco Shirvani: «Questa rivolta non è né politica né religiosa, ma semplicemente in difesa dei diritti umani». «Ho vissuto in Iran per 26 anni – ricorda Hanieh – e ho sofferto tantissimo, in ogni passaggio della mia vita: scuola, università, lavoro, società. E non posso credere di aver vissuto “in quel mondo”, che sono cresciuta con quel sistema». Un sistema che opprime i propri cittadini sotto ogni punto di vista. «La situazione economica non fa che peggiorare, così come l’istruzione: insegnano solo bugie e cose inutili. Non fanno che instillare paura e superstizione. I giovani crescono in un ambiente talmente chiuso e opprimente che poi ci vogliono anni per recuperare la sanità mentale», conclude Hanieh.

Durante quest’anno di proteste abbiamo visto il regime islamista guidato da Ali Khamenei scricchiolare, ma non crollare. Secondo Shiva Boroumand, «finché i potenti del mondo non vogliono che la Repubblica islamica cada e supportano questo governo noi non possiamo fare niente. Gli iraniani continueranno a sacrificare le loro vite inutilmente. La mentalità delle persone sta cambiando, ma non possiamo aspettarci che lo farà anche il regime». Leila Shirvani auspica azioni concrete da parte del governo italiano: «È nostro dovere sostenere il popolo iraniano, per esempio chiudendo l’Ambasciata perché non rispetta minimamente i principi della nostra Costituzione». Se da un lato, c’è chi esprime gratitudine verso l’Italia che, ricorda Samane, «ha fornito cure alle persone ferite agli occhi dalla polizia», dall’altro, è palpabile la delusione nei confronti della comunità internazionale. «Gli altri paesi dicono di stare dalla nostra parte, ma non è così», dice Afrooz, «ci sono troppi interessi. La Gran Bretagna, ad esempio, si è rifiutata di inserire i pasdaran (IRGC) nella lista delle organizzazioni terroristiche». 

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«Noi non chiediamo nulla alla comunità internazionale – continua Boroumand – se non di smetterla di stringere le mani ai nostri governanti. E invece di continuare a imporre sanzioni che non fanno altro che affamare gli iraniani, che gli impediscono perfino di accedere alle medicine, dovrebbero sanzionare il regime». Niusha Eskandarzadeh ricorda che gli Stati Uniti hanno appena scongelato fondi bloccati iraniani per sei miliardi di dollari per consentire uno scambio di prigionieri. «Noi sappiamo benissimo che quei soldi serviranno a finanziare la guerra in Yemen, Siria, Iraq e che forniranno armi alla Russia. Abbiamo urlato a tutto il mondo: “Smettetela di alimentare questo mostro che ci sta uccidendo”, non solo noi in Iran, ma anche i cittadini di altri paesi. Questo non è morale, non è diplomazia. È solo disgustoso».

Un anno è forse un tempo troppo limitato per fare un bilancio di questa ondata di proteste. La sensazione che traspare dalle parole degli iraniani in diaspora, intervistati da Valigia Blu, è che la speranza di un cambiamento si sia affievolita, ma nessuno di loro crede che sia del tutto spenta. «La speranza va e viene – dice Hanieh – mi chiedo sempre: come fare a cambiare le cose? Faccio la mia parte, ma non è abbastanza. Ma noi continuiamo a credere che prima o poi questo inferno finirà».

Immagine in anteprima e nell'articolo di William Frezzotti

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