Alzheimer: l’importanza di una diagnosi precoce, farmaci e terapie, l’assistenza in Italia e la necessità di più fondi
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Uno sguardo diverso, una dimenticanza che poi diventano due e poi col tempo si smettono di contare, abitudini che cambiano in modo bizzarro, inusuale. Poi la diagnosi. E la solitudine.
Maria Grazia Patané ha vissuto tutto questo dopo quarant’anni di matrimonio con Carmelo, suo marito. Un’intera vita insieme, che le ha permesso di riconoscere subito che qualcosa non stava andando per il verso giusto.
Carmelo aveva 64 anni quando ha iniziato a raccontare con convinzione cose che Maria Grazia sapeva perfettamente non essere mai accadute. “Era come se mentisse, con la differenza che in quello che diceva credeva davvero. Aveva uno sguardo strano, diverso. Gli capitava di comprare continuamente chili e chili di spaghetti, senza un motivo. Oppure andava in edicola ogni giorno e acquistava un giornale che poi non leggeva mai. Routine incomprensibili. Poi ha iniziato a dimenticarsi le cose, a essere molto distratto. Sembrava depresso, pensavo fosse successo qualcosa a lavoro. E invece no.”
È stato un medico amico di famiglia a consigliare a Maria Grazia di portare Carmelo a fare un controllo: “Abbiamo fatto una visita neurologica all’ospedale, ma il medico non riscontrava niente. Io però mi sono permessa di insistere perché Carmelo aveva sempre quello sguardo strano… La diagnosi è arrivata almeno dopo un anno e mezzo di tentativi.”
Agli esami clinici e alla diagnosi, sono seguite negli anni frustrazione, solitudine, la consapevolezza che da moglie sarebbe diventata caregiver. “Con lui avevo una relazione, in quella relazione c’era la nostra storia con dentro tantissime cose. È come se il treno su cui stai viaggiando si fermasse all’improvviso e tu non hai altra scelta se non scendere. Devi fare i conti con tutto quello che c’è stato prima, rielaborarlo, superarlo e andare avanti. Magari avevi delle aspettative su quella che sarebbe stata la vostra vita, invece si rimane soli, non si può contare più su nessuno. Devi dimenticarti di tutto quello che sei e quello che sei stata, perché ora hai davanti una persona diversa.”
Di cosa parliamo in questo articolo:
Alzheimer, in Italia colpisce oltre un milione di persone
La malattia di Alzheimer è la forma più comune e conosciuta di demenza (che invece è una condizione che raggruppa diversi sintomi e di cui esistono più classificazioni sindromiche) e riguarda circa il 60-80% dei casi complessivi. Secondo il ministero della Salute “attualmente in Italia il numero totale dei pazienti con demenza è stimato in oltre un milione, di cui circa 600.000 con demenza di Alzheimer.” A questo si aggiungono i 3 milioni di persone direttamente o indirettamente coinvolte nella loro assistenza, con conseguenze anche sul piano economico e organizzativo. In pratica, i caregiver familiari.
Avere a disposizione numeri accurati non è così semplice, banalmente perché non tutti nel mondo hanno uguale accesso alle diagnosi. L’Alzheimer’s Disease International stima che a livello globale il 75% delle persone affette da demenza non abbia ancora ricevuto una diagnosi, percentuale che potrebbe raggiungere il 90% in alcuni paesi a basso e medio reddito. Secondo i dati più recenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nel 2019 nel mondo si stimavano 55 milioni di persone affette da demenza, e si prevede che diventeranno 139 milioni nel 2050.
Come si sviluppa
L’Alzheimer si sviluppa molti anni prima (almeno 20 o 30) dell’insorgenza dei primi sintomi evidenti ed è uno dei motivi per i quali una diagnosi precoce potrebbe davvero fare la differenza nel rallentare il decorso della malattia, agendo negli stadi iniziali. Si tratta di una patologia prevalentemente legata all’invecchiamento, anche se sono frequenti casi di persone relativamente giovani, sui 58-59 anni. Esistono anche forme genetiche rare che possono insorgere verso i 40 anni. Tendenzialmente comunque l’incidenza della malattia aumenta in maniera esponenziale con l’età, soprattutto dai 70 anni in poi: “Circa un quarto delle persone sopra gli 80 anni vive un decadimento cognitivo, di queste un 60% è affetto da Alzheimer”, spiega la neurologa della Fondazione don Gnocchi Elisabetta Farina. Le donne sono le più colpite.
Secondo le principali teorie, la malattia di Alzheimer è causata dalla presenza nel cervello di sostanze anomale, come la beta-amiloide, che a cascata innesca dei meccanismi molto complessi e la deposizione di un altro elemento, la proteina Tau, che si insinua nei neuroni in una sua forma modificata, chiamata tau fosforilata. La deposizione di queste sostanze agisce in maniera tossica sui neuroni, facendo loro perdere i contatti gli uni con gli altri e causandone la morte.
“I meccanismi che innescano la malattia sono tanti e molto complessi”, spiega ancora Farina. “Ad esempio è ormai assodato che anche l’infiammazione del sistema nervoso centrale ha un ruolo. Inoltre, secondo recenti studi, anche la carenza di sonno potrebbe contribuire al deposito di beta-amiloide favorendo l’insorgenza della malattia. E quindi è probabile che non si riuscirà a curare completamente con un solo tipo di approccio farmacologico”.
Le fasi della malattia
Si comincia da una fase relativamente precoce, in cui i disturbi di memoria possono essere addirittura soggettivi ma non compromettono totalmente la vita di tutti i giorni. Si tratta della fase in cui vengono studiati i nuovi farmaci, perché qui si possono preservare meglio le funzioni cognitive. “Si passa poi a fasi iniziali di depressione e ansia, sia per motivi biologici ma anche perché la persona inizia a rendersi conto di non essere più performante come prima”, spiega Farina. “Piano piano la persona inizia a perdere autonomia, prima nelle cose più complesse, ad esempio in certe attività lavorative o burocratiche e poi nella vita quotidiana, come fare la spesa, gestire i soldi e la propria terapia farmacologica. A quel punto si comincia ad avere bisogno di aiuto.”
Con il tempo i disturbi di memoria iniziano ad aggravarsi. E iniziano i problemi di linguaggio, deficit di ragionamento, disturbi del comportamento fino ad arrivare anche a deliri e allucinazioni. “Nelle fasi più avanzate della malattia i disturbi comportamentali crescono. E la persona può vivere episodi di wandering, ovvero muoversi molto, camminare in maniera incessante, oppure cominciare a spostare oggetti. Molto spesso a questo punto si vive la cosiddetta sindrome del tramonto: nell’orario del tardo pomeriggio la persona si agita e inizia a cercare casa sua, non riconoscendo più dove si trova”, conclude Farina.
La diagnosi: un momento delicato
La diagnosi per una persona con malattia di Alzheimer è un momento cruciale. Prima arriva, prima è possibile impostare delle terapie anche non farmacologiche per rallentare il decorso (inevitabile) della malattia, per impostare un percorso non soltanto per la persona in sé, ma per tutto il nucleo familiare. E anche il momento stesso della diagnosi deve avvenire con tutte le accortezze del caso.
“Per una persona con Alzheimer o con il sospetto di avere l’Alzheimer, ricevere la diagnosi è un diritto”, spiega Marco Trabucchi, direttore scientifico del Gruppo di Ricerca Geriatrica di Brescia. “E attenzione, questo non significa dire a una persona ‘hai l’Alzheimer’, ma iniziare a costruire intorno al malato e alla sua famiglia una situazione di protezione che lo accompagni poi nelle diverse fasi della malattia. La diagnosi va adeguata alla capacità della famiglia di capirla, di accettarla. Ci vuole umanità, ci vuole attenzione alla persona. Ci vuole predisposizione a capirne la storia, l’instaurazione di una relazione. Nessun medico deve avvicinare un malato se non conosce la sua storia”.
Un approccio, quello al paziente con Alzheimer, che deve essere sempre multidisciplinare, includendo più figure professionali, come spiega la dottoressa Farina: “Serve lo psicologo, il terapista occupazionale, l’educatore, l’infermiere, l’oss, ma anche determinati setting di cura come ad esempio l’RSA aperta prevista in Regione Lombardia, l’educazione dei caregiver e l’aiuto ai familiari.”
Sì, le famiglie. Le persone che si trovano in prima linea, ma che troppo spesso fanno fatica ad accedere ai servizi a causa di scarsa informazione sulle possibilità presenti sul territorio. Questa confusione impedisce una presa in carico continuativa. Inoltre le liste d’attesa per arrivare agli specialisti sono lunghissime.
Lo stato dell’assistenza in Italia
“I malati e le loro famiglie hanno un estremo bisogno della collaborazione del mondo sanitario, assistenziale e della società nel suo complesso”, spiega Marco Trabucchi. Una frase che sembra scontata, ma che nel mondo dell’Alzheimer è cruciale perché questa malattia più di altre lascia le persone sole e disorientate.
“Quando sei catapultato in questo mondo danno per scontato che tu sappia già tutto. Serve qualcuno che ti accompagni, che ti dica cosa puoi chiedere, pretendere, e invece sbatti sempre contro un muro di gomma, di burocrazia. I familiari sono lasciati soli nel capire cosa possono o non possono fare, nell’essere informati dei loro diritti”, racconta Maria Grazia, che a partire dalla diagnosi si è dovuta districare da sola, raccogliendo informazioni di qua e di là, scoprendo i propri diritti quasi per caso. Dove vive lei, in provincia di Catania, non ci sono centri diurni, solo alcune attività organizzate da una onlus a cui cerca di far partecipare suo marito Carmelo il più spesso possibile, anche se la cadenza degli incontri non è sufficiente a costruire il percorso costante di cui lui avrebbe bisogno.
In Italia quello dell’assistenza per chi soffre di Alzheimer è un tema caldo: “Ci sono aree con una buona qualità assistenziale e altre in cui c’è totale assenza di servizi”. Mario Possenti, segretario generale della Federazione Alzheimer Italia, racconta che solo il 50% delle regioni italiane ha promosso un percorso terapeutico diagnostico e assistenziale per persone con demenza.
“In molte regioni del Sud Italia non ci sono centri diurni, fondamentali per portare avanti attività costante con personale specializzato e dare sollievo alle famiglie”, prosegue. Dove non sono presenti, le famiglie sono costrette a ricorrere a un aiuto privato, pagando un badante di tasca propria o attraverso l’accompagnamento (che però non sempre è sufficiente a garantire sia l’assistenza sia tutti i presidi medici), oppure – come soluzione estrema – a portare il proprio caro in RSA (che però non sempre sono attrezzate per occuparsi di un malato di Alzheimer).
“L’indennità di accompagnamento spesso viene negata alla prima domanda. Occorre quindi rifare una procedura di aggravamento, poiché si tende a valutare soprattutto la capacità di deambulazione, mentre spesso chi ha problematiche cognitive riesce a muoversi tranquillamente ma non per questo ha meno bisogno di supporto. Questo è infatti un aspetto che si sta cercando di modificare con la nuova legge sull’autosufficienza”, aggiunge Possenti.
Il Piano Demenze: 15 milioni in tre anni. E adesso?
Nel 2014 per la prima volta è stato lanciato un “Piano demenze”, rimasto però senza fondi fino al 2021, quando sono stati messi a disposizione 15 milioni di euro in tre anni. I soldi sono poi stati ripartiti tra le regioni a partire dal 2022, di questi un milione è stato destinato all’Istituto Superiore di Sanità. Con i fondi del Piano demenze ogni regione ha avuto la possibilità di implementare dei percorsi seguendo cinque linee progettuali: diagnosi precoce, diagnosi tempestiva, telemedicina, tele-riabilitazione e trattamenti psico-educazionali, ad esempio le terapie non farmacologiche.
“Su questi aspetti le regioni hanno implementato gli interventi, che concluderanno entro la fine di quest’anno per poi presentare i risultati. Ma i fondi sono esauriti e ancora non sappiamo se saranno prorogati o se ce ne saranno altri”, prosegue Possenti. “Noi speriamo che i fondi diventino strutturali, vorremmo che entrassero a far parte del bilancio dello Stato senza essere costretti ogni volta a combattere per avere qualcosa in più. Anche perché 15 milioni in tre anni per un problema che riguarda direttamente oltre un milione di persone sono veramente pochi”.
Una cifra sostanziosa ma insufficiente insomma, perché le necessità sono tante e nessuna è sacrificabile.
“Occorrono centri privilegiati che possano accompagnare le persone nel corso della malattia e anche questa non è una cosa facile. I cosiddetti centri per le demenze sono sovraccarichi di lavoro, hanno poco tempo, pochi operatori e quindi troppo spesso capita che i malati e le famiglie non sappiano a chi rivolgersi. E questo provoca grande dolore e grande sofferenza”, spiega Trabucchi.
Senza contare casi eccezionali e specifici come ad esempio un ricovero in ospedale. “Se un malato di Alzheimer si fa male e deve andare in ospedale, non può essere trattato come un paziente qualsiasi. Fa fatica a recepire le indicazioni, tendenzialmente non ricorda ciò che gli viene detto, va curato con grande specificità.”
E poi c’è la questione RSA: “Quando la famiglia non ce la fa più e la fatica diventa superiore alla possibilità concreta di realizzare qualcosa, allora deve rivolgersi a una residenza, con tutta la sofferenza che può comportare per il malato che si disorienta e si confonde. Anche le RSA devono essere in grado di accogliere le persone con demenza in modo specifico. Dovrebbe essere il sistema nel suo complesso che accetta di occuparsi di queste persone”, continua Trabucchi.
E le prospettive future, in una società in cui l’aspettativa di vita è sempre più alta e quindi gli anziani - e potenzialmente i malati di Alzheimer - saranno sempre di più, non sono rosee. “Presto sarà tutta la società a subire le conseguenze dell’invecchiamento della popolazione”, conclude Trabucchi. “Ma sembra che ci sia una grande cecità collettiva su questo tema. Per questo bisogna continuare a richiamare l’attenzione della politica ma soprattutto della comunità civile per imparare a occuparsi gli uni degli altri. Perché in una società in cui ci sono sempre meno giovani, chi si prenderà cura degli anziani ammalati?"
Farmaci per l’Alzheimer: a che punto siamo?
Non esiste un farmaco per curare l’Alzheimer. Tutti i farmaci attualmente in circolazione servono a modificare il decorso della malattia: “Attualmente i farmaci approvati anche in Italia sono quattro”, spiega Stefano Govoni, professore emerito di Farmacologia dell’Università di Pavia. “Sono farmaci relativamente vecchi, l’ultimo è stato approvato nel 2002”. I farmaci a cui fa riferimento il professore sono la rivastigmina, la galantina, il donepezil e la memantina. Agiscono tutti sui sintomi modificando la neurotrasmissione, quindi si utilizzano quando la malattia è già in corso.
Negli ultimi anni si è parlato molto di due nuovi farmaci, Aducanemab e Lecanemab, al momento approvati negli Stati Uniti dalla Food and Drug Administration, che agirebbero in maniera diversa. Ovvero attaccando la beta-amiloide presente nel cervello: “Sicuramente la scoperta di queste nuove sostanze ha stimolato molto la ricerca farmaceutica per trattare la malattia di Alzheimer”, prosegue il professor Govoni. “Tuttavia, pare che questi due farmaci agiscano prevalentemente nelle fasi molto precoci della malattia e quindi possano essere utilizzati su un campione molto ristretto di pazienti. Inoltre sono stati riscontrati effetti collaterali importanti”.
“La ricerca che ha portato maggiori risultati è quella relativa alla prevenzione e alle terapie non farmacologiche che, ormai è assodato scientificamente, rappresentano un aspetto fondamentale nella vita delle persone che lottano contro l’Alzheimer”, conclude Govoni.
Terapie non farmacologiche e socialità
L’isolamento e la solitudine sono tra le conseguenze più comuni nella vita delle persone su cui si abbatte una diagnosi di Alzheimer. E questo ha degli effetti anche sul decorso della malattia. Comunicare, socializzare, fare attività di vario genere e ricevere così stimoli cognitivi è infatti fondamentale per mantenere il malato attaccato al presente il più possibile. Ed è qui che entrano in gioco le terapie non farmacologiche e tutte quelle dinamiche sociali che possono re-inserire il malato in un contesto di comunità e far sentire i familiari meno soli. Senza contare i benefici che le terapie non farmacologiche hanno sia a livello fisico sia a livello mentale.
Si tratta di attività che non richiedono l’ausilio di farmaci ma che sono comunque molto utili per migliorare le condizioni e le prestazioni dei malati grazie ad alcuni stimoli sensoriali che aiutano ad allenare la mente e il corpo. Ne esistono diverse e l’efficacia dipende dalle necessità dell’individuo. C’è la doll therapy, dove i pazienti si prendono cura di una bambola come se fosse un bambino; c’è la terapia dei viaggiatori che ripropone il vagone di un treno su cui la persona ha la sensazione di spostarsi verso luoghi che le piacciono o di tornare a casa. O ancora l’arteterapia, la musicoterapia, la danzaterapia.
Come abbiamo già detto, non esiste una pillola magica che possa curare l’Alzheimer da un momento all’altro. “Quello che ci resta da fare è puntare sugli interventi non farmacologici”, spiega Possenti. “È ormai un dato assodato, tant’è che queste terapie sono inserite anche nel Piano Demenze”.
A questo si aggiunge il bisogno, spesso dimenticato, del malato di esercitare la propria socialità. Ciò può accadere sia in apposite strutture o in gruppi dedicati, sia nella stessa comunità in cui le persone vivono. Carmelo, ad esempio, nonostante ormai faccia molta fatica a comprendere il linguaggio e a comunicare in modo razionale, ama andare in chiesa. Maria Grazia lo porta ogni volta che può. “Andare in chiesa gli piace perché lì si fanno sempre le stesse cose. La gente sta ordinata, seduta, per lui è rassicurante”.
Una dinamica, questa, che è possibile ritrovare nei paesi demenza friendly. Ovvero comunità (paesi o città o porzioni di territorio) che hanno l’obiettivo di integrare le persone con demenza all’interno della società facendole sentire parte attiva e aumentando la consapevolezza e la sensibilità dei cittadini. “Facilitare la vita dei malati all’interno della comunità aiuterebbe tutti ad avere più consapevolezza sul tema”, conclude Possenti. “In altre parole, formare la cittadinanza e creare servizi per far sì che l’Alzheimer non sia più una malattia dimenticata ma diventi una disabilità da affrontare collettivamente”.
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