Come Der Spiegel ha scoperto che un suo famoso giornalista ha inventato storie per anni
9 min letturaAggiornamento 28 dicembre 2018: Claas Relotius non ha solo manipolato le storie che raccontava, ma avrebbe addirittura tratto profitto dai suoi reportage. In uno speciale di 23 pagine dedicato a spiegare l’intera vicenda, pubblicato lo scorso fine settimana, Der Spiegel ha scritto che il giornalista avrebbe inviato un’email ai lettori tramite la sua posta privata per chiedere di fare delle donazioni sul proprio conto corrente a favore di una coppia di orfani siriani in Turchia.
I due fratellini per i quali Relotius aveva chiesto ai lettori di donare erano i protagonisti del reportage intitolato “I figli del re”, pubblicato nel 2016, e grazie al quale il giornalista ha vinto due premi: il Reemtsma Liberty Award e il Catholic Media Prize. L’articolo raccontava la storia di Ahmed e Alin, due orfani siriani, fratello e sorella, fuggiti dalle bombe in Siria e costretti a vivere per strada, come immigrati clandestini, in Turchia. Alin, scriveva il giornalista, lavorava in una fabbrica sotterranea di abbigliamento a Mersin, Ahmed era finito a lavorare in una discarica a Gaziantep dopo aver anche raccolto cotone e frutta, dieci ore al giorno, sette giorni su sette. Relotius descriveva dettagliatamente nel pezzo gli effetti del duro lavoro sul corpo di Ahmed: i lividi sulle spalle, le cicatrici sullo stomaco, i segni sul collo delle scintille incandescenti che bruciavano sulla sua pelle. Entrambi i bambini sognavano “una regina di nome Merkel e la lontana isola d’Europa”, ma non riuscivano a trovare un modo per arrivarci.
Nella suo colloquio con il capo-dipartimento del settimanale tedesco, Ullrich Fichtner, Relotius aveva affermato che l’articolo non era stato manipolato ma anche su questa storia ci sono forti dubbi. Secondo la testimonianza di Emin Oezmen, il fotografo che ha accompagnato il giornalista sul campo, i due bambini non sono fratelli e, inoltre, Relotius avrebbe drammatizzato fortemente alcuni aspetti della biografia di uno degli orfani. Facendo leva sull’emotività suscitata dalla storia, prosegue Der Spiegel, probabilmente il giornalista è riuscito a ottenere le donazioni dai lettori.
In una lettera pubblicata dal suo avvocato, Relotius ha sostanzialmente ammesso di aver raccolto in privato i soldi dei lettori (circa 7000 euro, incrementati fino a 9000 euro), specificando di non averli tenuti per sé ma di averli utilizzati per un'altra buona causa.
Però, scrive il settimanale tedesco, non risulta che il denaro sia mai stato recapitato ad associazioni benefiche e non è ancora chiaro “quanti donatori ci sono stati, quanto denaro è stato raccolto e cosa è stato fatto con quelle stesse somme”. Der Spiegel ha precisato che questa iniziativa era del tutto sconosciuta alla redazione, che nessun lettore si è mai rivolto al giornale per versare delle donazioni e che presenterà alla Procura tutte le informazioni raccolte.
Solo poche settimane fa, il 3 dicembre, aveva vinto il German Reporter Award 2018 nella categoria “Best Reportage”. Ma aveva inventato tutto.
Ein Reporter des SPIEGEL hat in großem Umfang eigene Geschichten manipuliert. Durch interne Hinweise und Recherchen erhärtete sich in den vergangenen Tagen der Verdacht gegen Claas Relotius. Auch andere Medien könnten betroffen sein. https://t.co/hxOf8WdGTH
— DER SPIEGEL (@DerSPIEGEL) 19 dicembre 2018
È la storia di Claas Relotius, 33enne giornalista tedesco, che per Der Spiegel negli ultimi 7 anni aveva scritto reportage, molto apprezzati da lettori e colleghi, spesso sugli Stati Uniti, come i presunti abusi in una scuola della Florida; "The Last Witness", la storia di Gayle Gladdis, che si presentava come cittadina comune alle esecuzioni di condannati a morte per iniezione letale; "Lion Cubs", che parla di due bambini iracheni che si ritiene siano stati rapiti e riformati dall'Isis; "Numero 440" su un presunto prigioniero a Guantanamo; “Il Confine di Jaeger”, la storia di un vigilante americano che sorvegliava la frontiera tra Messico e Stati Uniti; “Gioco da ragazzi”, il ritratto di un giovane ragazzo siriano che ha spruzzato graffiti contro Assad su un muro a Daraa.
Proprio per il reportage sul giovane siriano, Relotius era stato premiato all’inizio di dicembre. I giurati avevano apprezzato la storia per la sua “leggerezza, poesia e rilevanza”. In precedenza, il giornalista tedesco aveva vinto altri quattro premi per i suoi reportage (come il Peter Scholl Latour Prize, il Konrad Duden Prize, il Kindernothilfe Prize, il Catholic and Coburg Media Prize), era stato nominato “giornalista dell’anno” dalla CNN nel 2014 e inserito da Forbes nel 2017 tra i migliori under 30 nella sezione “Europe Media”.
Ma in almeno 14 dei suoi 60 articoli, Claas Relotius “aveva inventato storie e protagonisti”, scrive Der Spiegel in un lungo articolo che ricostruisce come (e in quali casi) il giornalista tedesco in questi anni ha manipolato i suoi racconti. Il settimanale tedesco (che vende circa 725mila copie al mese e ha un pubblico online di 6,5 milioni di persone) si è detto “scioccato” della scoperta, si è scusato con i suoi lettori e ha avvertito che anche altri articoli scritti da Relotius per altri giornali potrebbero contenere “citazioni false, dettagli personali inventati o scenari del tutto frutto della fantasia”.
Der Fall Relotius: Wie der SPIEGEL auf die Fälschungen reagiert. https://t.co/vK7vaRRQip
— DER SPIEGEL (@DerSPIEGEL) 19 dicembre 2018
A tradire Relotius è stato l’articolo “Jaegers Grenze” (ndr, “Il confine di Jaeger”), la storia di un vigilante americano che sorveglia il confine tra Messico e Stati Uniti dove i migranti tentano di entrare negli USA, scritto insieme a un altro giornalista che lavora per Der Spiegel dal 2007, Juan Moreno, e pubblicato il 18 novembre 2018.
Bürgerwehr gegen Flüchtlinge: Jaegers Grenze https://t.co/ejh3VROQYd via @spiegelplus
— Franz W.Winterberg (@FWWinterberg) 18 novembre 2018
È stato proprio Moreno il primo ad avere dubbi sulla veridicità di alcuni passaggi, presenti nell’articolo, scritti dal giornalista tedesco. Insospettito da alcuni particolari dettagli inseriti nel pezzo, Moreno riferisce a Der Spiegel i suoi dubbi ma, come avviene con un informatore che non è ritenuto credibile, non viene preso sul serio. La fama di Relotius è troppo alta per essere messa in discussione.
Allora Moreno inizia una vera e propria indagine giornalistica personale a sue spese, ripercorre il reportage di Relotius, incontra le fonti citate nel pezzo per verificare quanto scritto dal giornalista tedesco e portare alla luce le sue manipolazioni, mettendo così a rischio il proprio lavoro.
Fino a quando Relotius non ha ceduto e confessato di aver inventato parte delle sue storie, per Der Spiegel, ammette Ullrich Fichter, redattore capo del settimanale tedesco, in un lungo articolo che ricostruisce tutta la vicenda, Moreno è stato ritenuto il vero “cattivo” di questa storia. Per 3 o 4 settimane, scrive Fichter, “Moreno passa attraverso l’inferno perché i suoi colleghi e i supervisori del giornale non credono alle sue accuse. Relotius? L’umile Claas? Uno che inventa le sue storie?”.
Di fronte alle prime accuse, Relotius riesce facilmente a svicolare, smonta gli attacchi, semina il dubbio fino a far passare Moreno per un calunniatore. Ad aiutarlo la solidità della struttura dell’articolo, la cura dei particolari citati e l’attenzione ai riferimenti incrociati inseriti nel pezzo, tali da superare anche le verifiche della redazione del giornale.
Eppure ci sono dei particolari che già durante la stesura provvisoria dell’articolo non convincono Moreno: i nomi dei personaggi, le loro biografie, le loro identità. Alcuni passaggi suonano al collega di Relotius già sentiti: una parte dei giorni trascorsi con il vigilante Tim Foley riecheggiano un reportage di Shane Bauer su Mother Jones, anche i nomi di altri vigilanti del confine tra Messico e Stati Uniti sono gli stessi che ricorrono nell’articolo di Bauer (Jaeger, Ghost, Spartan). È solo una coincidenza?, si chiede Moreno.
E perché poi nell’articolo viene riutilizzata la foto di uomo in mimetica, già pubblicata in un articolo del New York Times nel 2016, ma con una didascalia differente? L’uomo nella foto è Chris Maloof come indicava il New York Times o Chris Jaeger come riferito da Relotius?
A destare altri sospetti era, inoltre, l’assenza di immagini dei vigilanti. La spiegazione fornita da Relotius – praticamente tutti avevano rifiutato di farsi fotografare – non aveva convinto Moreno perché il capo dei vigilanti, Tim Foley, era una figura pubblica, tra i protagonisti di un documentario pluripremiato, "Cartel Land". C’era qualcosa che non tornava.
Moreno scrive un’e-mail alla redazione del settimanale esprimendo i propri dubbi e specificando, però, di non avere nulla di concreto in mano al punto da fermare il reportage. Dopo la pubblicazione dell’articolo, il 18 novembre 2018, Moreno parla con il suo capo dipartimento, Matthias Geye, che gli chiede di mettere nero su bianco le sue accuse. Di fronte ai dubbi insinuati sui suoi confronti, Relotius si difende in modo brillante tanto da far sembrare il suo accusatore uno stalker, racconta Ullrich Fichter su Der Spiegel.
Allora Moreno decide di andare fino in fondo. Durante un reportage negli Stati Uniti sul pugile Floyd Mayweather, l'atleta più pagato di tutti i tempi, per la redazione sportiva di Der Spiegel, inizia a raccogliere materiale contro Relotius e per proteggere se stesso. Non riesce ad accettare che il suo nome firmi un articolo che contiene informazioni inventate di sana pianta. Con lui parte il fotografo Mirco Taliercio.
Durante il reportage, Moreno contatta Tim Foley, il capo dei vigilanti, e grazie a lui riesce a incontrare anche Chris Maloof, l’uomo ritratto in mimetica e indicato nell’articolo con il nome di Chris Jaeger.
E qui c’è il colpo di scena. Moreno e Taliercio incontrano Foley, disposto a parlare dietro un compenso di 200 dollari. I due registrano un video in cui intervistano il capo dei vigilanti. Durante l’intervista, osservando una foto di Relotius, Foley dice di non averlo mai visto né incontrato.
La scena si ripete pochi giorni dopo. È il 4 dicembre, all'indomani del German Reporter Award 2018. Questa volta viene intervistato l’uomo ritratto in mimetica, Chris Maloof/Jaeger. Davanti alle telecamere il presunto Jaeger mostra il suo badge, si chiama Chris Maloof, come giustamente indicato nella stessa foto pubblicata dal New York Times due anni prima. Anche a lui viene mostrata la foto di Relotius e la sua risposta è identica a quella di Foley: «Non ho mai visto quest'uomo nella vita». Poi mostra le sue mani – Relotius nell’articolo aveva scritto che sul dorso erano tatuate le parole “Forza” e “Orgoglio” – ma non ci sono tatuaggi.
Era tutto falso. Gran parte dei particolari citati da Relotius erano stati inventati, le descrizioni particolareggiate di luoghi e persone attinte da video YouTube, post su Facebook, vecchi articoli di giornali e blog. Chris Jaeger non è mai esistito, e così anche i personaggi di altri articoli, commenta Fichter nella lunga ricostruzione della vicenda: “Gayle Gladdis, Neil Becker da Fergus Falls, Nadim e Khalid a Kirkuk, Ahmed Alin di Aleppo, Mohammed Bwasir da Guantanamo, non sono persone in carne e ossa, vivono solo sulla carta e il suo creatore è Claas Relotius”.
Di fronte alle prove schiaccianti e all’insistenza del suo supervisore Özlem Gezer, vicepresidente del dipartimento aziendale di Der Spiegel, Relotius cede e ammette di aver inventato personaggi, luoghi, storie. Durante la confessione al suo giornale, ha detto: «Avevo paura di fallire. La pressione è diventata sempre più grande, man mano che aumentava il successo. Sono malato e ho bisogno di aiuto». “Ha abusato del suo talento”, ha scritto Die Welt su Twitter. Relotius ha restituito tutti i premi vinti.
Der Fall Relotius: Die Antworten auf die wichtigsten Fragen. https://t.co/2JvxhfSwyz
— DER SPIEGEL (@DerSPIEGEL) 19 dicembre 2018
Claas Relotius, scrive sempre Der Spiegel in un altro articolo che sintetizza l’accaduto, “ha ingannato in modo metodico con l'intento di farlo. Non ha mai incontrato o parlato con molti dei protagonisti dei suoi articoli. I suoi resoconti erano basati su informazioni ricavate e riprese da altri media. Relotius creava le storie dei suoi personaggi attraverso un collage di persone reali, inventando anche dialoghi e citazioni”.
Si tratta, prosegue Der Spiegel, del “punto più basso nei 70 anni della nostra storia”, iniziata nel 1947. I giornalisti del settimanale, rinomato per i suoi approfonditi lavori investigativi, sono scioccati: “È come se avessimo avuto un lutto in famiglia. Gli obiettivi che ci eravamo autoimposti sono stati persi, i vecchi valori feriti”.
Grazie alla sua maestria, Relotius ha saputo ingannare anche chi revisionava gli articoli. I pezzi alternavano descrizioni, che trovavano conferma nelle operazioni di verifica della redazione, a passaggi completamente inventati: le descrizioni dei luoghi, magari prese da Internet, facevano da cornice a dettagli non verificabili e probabilmente inventati, dove l’unico testimone era proprio il giornalista.
Il fatto che le manipolazioni di Relotius siano rimaste nascoste per anni, “pone domande all'organizzazione interna”, scrive Spiegel Online. Per questo, per rispondere alle critiche e trarre un insegnamento da questa vicenda, è stata istituita una commissione interna per esaminare tutto il lavoro di Relotius per il settimanale. I risultati di questa indagine saranno poi resi pubblici e visibili a tutti.
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