Salute mentale, depressione e media: le voci assenti di chi è direttamente coinvolto
10 min letturaA volte ho avuto pensieri suicidi/ E non ne vado fiero: questi versi tradotti dal francese fanno parte del nuovo singolo di Stromae, artista belga noto per l’intensità dei suoi temi, spesso scomodi e complessi. "Enfer" è la parola scelta per il titolo, di sicuro appropriata a descrivere l’ambiente mentale di chi soffre di depressione: è un inferno, esattamente come la considerazione che normalmente si ha della salute mentale. Qualcosa che brucia, qualcosa di inavvicinabile.
È indicativo che questo inferno sia finito in una canzone. Sembra quasi che negli ultimi anni il racconto della salute mentale abbia perso un po’ dello stigma che le aleggiava intorno. È un buon segno, ma fino a che punto? E in cosa si sta trasformando questo racconto? È lecito dire che per quanto la consapevolezza culturale o la rappresentazione nei media della sofferenza psichica sia più alta di qualche anno fa, questo non corrisponda sempre a migliori condizioni per le persone che soffrono?
La difficoltà di dare risposte è evidente, oltre che costellata di ostacoli. C’è una considerevole assenza delle voci delle persone direttamente coinvolte nelle questioni di salute mentale, quelle di persone sofferenti, portatrici di una idea di malattia come sintomo di qualcosa di più grande e collettivo di un problema individuale. Questa è un’idea continuamente rigettata, conviene di più dare spazio a soluzioni immediate, che curano il singolo e annullano il sintomo, che non coinvolgono l’ambiente sociale in cui le persone soffrono, che dipingono queste come meno adatte e più deboli rispetto al resto.
Prendiamo la depressione e il modo in cui è comunemente percepita, ovvero come mal funzionamento di un individuo che non riesce più a svolgere le attività tipiche della buona cittadinanza: lavorare, socializzare, rispettare le regole, raggiungere il successo, fare carriera (spesso per la classe media), o anche solo sopportare senza fiatare quelle che vengono percepite socialmente come le normali difficoltà della vita a cui si è destinati (spesso per la classe lavoratrice). Questa visione non interroga le disuguaglianze sociali, né alcuna struttura di potere, e dunque le condizioni non solo biologiche e chimiche, ma anche sociali in cui il disagio e poi la malattia si sviluppano. Se iniziassimo a considerare i sintomi depressivi come un rifiuto a tollerare l’intollerabile, a continuare a performare una finzione insensata su un pianeta che sta diventando oggettivamente invivibile, un rifiuto a conformarsi, una denuncia dell’inaccessibilità di un progetto di vita felice, la percezione delle persone depresse sarebbe di sicuro differente: l’anomalia diventerebbe chi il malessere non lo prova. Ciò non aiuta a risolvere la sofferenza, è chiaro, e di sicuro nessuno desidera che di colpo si ammalino tutti, ma può servire a cambiare la considerazione delle persone malate come delle creature deboli e incapaci di funzionare in un sistema considerato perfetto.
Alma [nome di fantasia] ha 38 anni, è autistica e soffre di ansia e depressione. Da diversi anni è paziente del servizio sanitario pubblico, ed è una di quelle voci che nel discorso non entrano mai, perché la sua è, come tante, una storia molto dura: “La mia depressione è stata diagnosticata a nove anni, ma esiste da quando ne ho memoria.” spiega a Valigia Blu. “La mia stessa famiglia non era estranea alla depressione e altri disturbi, ma al tempo non usava mettersi in discussione o curarsi per qualcosa che non riguardasse il corpo. Dunque, sono stata la prima, a quindici anni, a ricevere una cura farmacologica con lo scopo di rendere il mio dolore meno visibile, più gestibile dall'esterno.”
La narrazione della malattia come problema individuale per Alma e per molte altre persone sofferenti regge poco. È un’opinione diffusa anche tra chi lavora nel settore. Sui limiti nei trattamenti possiamo ad esempio, affidarci alle parole di Rosaria Gatta, psicologa e psicoterapeuta pugliese, oggi attiva con uno studio a Milano, e che ha lavorato in Italia sia nel pubblico che nel privato, oltre che con Medici Senza Frontiere in Africa, America Latina e Asia. «La cosa che manca in Occidente in particolare» ci spiega, «è la visione olistica della sofferenza mentale in generale e della depressione in particolare. La medicina ad oggi, nonostante i vari inviti della Organizzazione Mondiale della Sanità oltre che di molti medici e psicoanalisti, non vede ancora la depressione nell’ottica biopsicosociale, ma come un insieme di sintomi. Secondo la visione rapida e indolore dell’occidente, una volta curati questi sintomi si annulla la depressione. Non è così: un sintomo è qualcosa che vuole esprimersi e se il sintomo viene rimosso, una volta eliminato, nella maggior parte dei casi si trasformerà in altro.»
La difficoltà di raccontare
La depressione per molte persone è traducibile come la difficoltà di vivere e anche di raccontarsi, di seguire il filo della propria storia. Tuttavia, questo stadio è già uno di quelli più avanzati. Le persone depresse a volte smettono di raccontare il proprio dolore dopo averci provato per tantissimo tempo, in tanti modi, lanciando segnali, consciamente o inconsciamente, a volte persino col silenzio, e dopo aver riscontrato una amara verità: difficilmente hanno trovato terreno per un vero ascolto, o persone in grado di riconoscere e affrontare il problema, le radici primarie del malessere. Ovviamente non senza motivo.
Fuori da qualsiasi retorica, una persona con depressione che esprime il suo malessere nei periodi di crisi può risultare quanto di più frustrante esista al mondo: è assenza totale di motivazione ed entusiasmo, è un elenco di problemi per cui non esistono soluzioni, non c’è speranza, nessuna luce, è solo essere tirati dentro a un abisso. Si può svalutare il problema per la mancanza di una esperienza simile, per rabbia, per risentimento, per vergogna, si può pensare che la persona stia soltanto ricercando attenzione e chiedersi perché semplicemente non vada avanti e continui a vivere facendo finta di nulla. Si può credere che la guarigione dipenda dalla forza della volontà o dall’amore, che serva la religione, o l’omertà in famiglia, si può essere immobilizzati dal non sapere come comportarsi ed essere così spaventati da non riuscire a rispondere, interagire, a prendere provvedimenti.
«A molte persone con sofferenza psichica viene chiesto esplicitamente o implicitamente di nascondere la propria condizione» racconta Alma. «Molte persone vengono negativamente bollate come pigre, condizione da cui si dovrebbe uscire con la "forza di volontà", muovendosi, dandosi una mossa, e se non si riesce a farlo si diventa un "fallimento" che fa affondare l'intero nucleo familiare, infondendo un senso di colpa inestirpabile. Lo stigma è talmente interiorizzato che spesso ci giudichiamo male ancor prima che lo facciano gli altri. Molte volte questo porta a un aggravamento di uno stato depressivo che in certi casi avrebbe potuto essere passeggero».
Il senso di inadeguatezza della persona per non essere abbastanza adatta a svolgere le funzioni che tutti svolgono, per non riuscire a superare la depressione, raggiungerà picchi tali da preferire di gran lunga l’interazione con altre persone nella medesima condizione. Spiega Alma: «Negli interminabili mesi di ricovero, l'intervento terapeutico più funzionale e riabilitativo di cui ho avuto e continuo ad avere esperienza è il legame creato con altri pazienti. Ci sentiamo realmente, emotivamente capiti da chi ha avuto un'esperienza simile alla nostra. Ciò può accadere per caso, ma non dovrebbe essere un intervento lasciato alla fortuna. Molti di noi evitano il contatto sociale, ci viene chiesto di non parlare della nostra condizione, ci insegnano e chiedono di nasconderci il più possibile tanto non poter nemmeno riconoscerci fra di noi.»
Le manifestazioni accettabili della sofferenza psichica sono quelle che possono offrirci il cinema, la musica, la letteratura, con un tocco di glamour e romanticismo. Geni incompresi, gioventù bruciata, persone dotate di incredibile bellezza e talento che sembrano volerli sprecare per un capriccio incomprensibile. Possiamo gestire la rappresentazione artistica, ripulita magari della realtà anche disgustosa della depressione, ma molto meno i pensieri suicidari dei nostri amici più cari. Possiamo contemporaneamente affermare che l’arte, la rappresentazione in genere, possa diventare spesso un appiglio, uno strumento, una forma di sfogo, ma anche di comunicazione più efficace di molte altre.
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Davanti alle persone che soffrono sentiamo un ignoto, inesplorato abisso che parla delle nostre paure più profonde e si esprime nella sua forma più pura e semplice: il dolore di esistere. E fuori dalla rappresentazione filtrata o sublimata, questo dolore recupera lo stigma che ancora c’è nella vita reale. Parlare della propria condizione liberamente, con persone professioniste e non, è tutto ciò che chiedono le persone sofferenti, eppure è la cosa più difficile da realizzare. Infatti, a livello sociale, questa retorica fatta di dialoghi inconsistenti e irrilevanti persiste anche su altri piani: si esortano sempre le persone depresse a chiedere aiuto, a parlare con terapeuti, a rivolgersi alle persone care, ma sono parole vuote davanti a l'inaccessibilità della cura, o nei casi estremi al ricorso a provvedimenti coercitivi; diventano infine dei vicoli ciechi se consideriamo le condizioni materiali di chi non ha privilegi di classe e geografici, solo per citarne alcuni.
Accesso alle cure
L’accesso e l’adeguatezza delle cure è proprio il fulcro del problema. Anche quando le persone intorno riescono a capire che la malattia non si supera né con l’amore, né con la forza di volontà, non è detto che si possa accedere a un aiuto professionale. Cosa manca dal punto di vista di una paziente del servizio pubblico come Alma? «Manca innanzitutto la prevenzione, sia individuale che sociale. Spesso si arriva dal medico o dallo psicoterapeuta quando la situazione è già grave, a causa dello stigma, della tendenza a minimizzare il dolore emotivo e dalla mancanza di un supporto significativo. Il supporto, non solo medico, ma il mutuo-supporto penso sia qualcosa di essenziale da imparare fin dalle scuole elementari, se non prima. Il conoscere e prendersi cura sia delle proprie emozioni che di quelle degli altri sarebbe uno strumento molto potente su cui basare un programma di prevenzione. Per quanto riguarda i casi già in cura sarebbe necessario ripensare il ruolo e la forma dei Centri di Salute Mentale, che al momento offrono, oltre a poche sedute di psicoterapia, delle cure esclusivamente farmacologiche che hanno una funzione più contenitiva che curativa».
Le misure istituzionali carenti, l’assenza di azione e l’inerzia di fronte a diversi approcci farmacologici e non, incidono anche sui professionisti della cura, che lavorando in condizioni sempre più insostenibili, troppo spesso cedono al ricorso di farmaci per arginare le emergenze. «Per intraprendere un processo terapeutico ci vuole tempo» spiega Rosaria Gatta, «La farmacologia che risolve i sintomi è più veloce ed economica per il sistema sanitario. Ed è un sistema in cui in genere l’assenza del sintomo corrisponde alla guarigione». Questo si vede anche da altri aspetti sistemici: i posti letti dei reparti magari si riducono, le liste di attesa si allungano, ma i percorsi nel tempo si riducono a prescindere. «Se la persona arriva a percorsi estremi, con minaccia di suicidio» continua Rosaria «l’approccio è farmacologico: scampare il suicidio e un ricovero di tre giorni. È chiaro che non è responsabilità di chi lavora, ma delle scarsissime risorse messe in campo».
Il quadro naturalmente si è aggravato a causa della pandemia, sia per i problemi posti al contatto diretto con le persone in cura, sia per le ricadute della stessa e dei provvedimenti presi per contrastarla sulla salute mentale delle persone. Come sottolinea Gatta: «La situazione del covid ha attirato un’attenzione tale sulla sofferenza diffusa a livello psichico e sociale che avrebbe potuto essere un’occasione importante per parlare di salute mentale e allocare risorse. Il bonus del governo avrebbe legittimato questo tipo di dibattito, ma non è passato e questo la dice lunga sullo stigma che ancora esiste».
L’accesso alle cure e il ricorso a trattamenti alternativi o che non siano solo farmacologici o che siano semplicemente efficaci, incontrano numerosissimi ostacoli. Per concludere, forse è vero, si rappresentano più frequentemente e forse più facilmente i problemi di salute mentale, ma la cura è ancora per la maggior parte rappresentata come un vezzo della classe media. Una rappresentazione che può essere se non deleteria, di sicuro non risolutiva per molte persone. Bisognerebbe poter partire da una diagnosi appropriata cui tutti possano avere accesso, per capire tempestivamente la severità della depressione.
Nella totale assenza di piani d’azione e durante tutto il periodo pandemico, è stato perciò importante l’apporto di progetti nati dal basso e a livello popolare, che oltre ad alleviare l’urgenza di disagi, hanno sottolineato quanto sia politica e collettiva la questione della salute mentale.
Perché poco o nulla si genera, né si risolve individualmente, chi soffre in molti casi ha preso il carico di interrompere un ciclo, qualcosa che viene da molto lontano, e i suoi sintomi stanno provando a segnalare che c’è un problema. Non è un lavoro da poco, è il peso indicibile di chi sente intorno a sé o raccoglie l’eredità di un disagio irrisolto, qualcosa che magari altri hanno sofferto in precedenza o continuano a soffrire, ma per cui non esistevano né lo spazio, né il tempo, né le parole.
Essere coscienti di questo è una questione di cruciale importanza, eppure quando pensiamo alla cura della salute mentale, ci viene ancora in mente una persona sola in uno studio molto ben arredato a parlare dei simboli nei propri sogni, che non è in grado di lavorare, di vivere la vita, di avere relazioni e provare gioie. La dimensione più ampia del problema difficilmente viene contemplata e culturalmente siamo forse ancora allo stadio della diagnosi della malattia collettiva, ma spostando in modo riduzionistico la malattia alla collettività si sceglie ancora una volta di non vedere le persone con depressione, il diritto a diagnosi, cura e relazioni sociali. E in questo ritardo, nonostante la sofferenza psichica non discrimini nessuno, sono le fasce più deboli a pagare il prezzo più caro. Perché nell’assenza di cure adeguate accessibili, il privilegio diventa l’unica possibilità per il recupero e il benessere, la capacità di estinguere o ravvivare le fiamme di quell’inferno.
Se ti trovi in una situazione di emergenza, chiama il 118. Se hai amici o conoscenti con pensieri suicidi chiama il Telefono Amico allo 02 2327 2327, tutti i giorni dalle 10 alle 24, o il servizio della Samaritans Onlus, attivo dalle 13 alle 22, al numero verde 06 77208977.
Esiste inoltre AppToYoung, una app per smartphone e tablet, gratuita e facile da scaricare da GooglePlay e AppleStore. La privacy è garantita e tutti i dati sono protetti. Si può chattare per parlare con i ragazzi del Team Youngle, che hanno tutti tra i 18 e 21 anni o parlare direttamente al telefono, linea di ascolto attiva 24 ore su 24. Con AppToYoung, si può aiutare un amico o conoscente che non sa come fare a risolvere un problema: basta scegliere la funzione “Voglio parlare di qualcuno”, e poi si può parlare con il Team, chattando o parlando al telefono.