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Depressione post partum: uscire dal silenzio e dallo stigma, creare consapevolezza

12 Marzo 2024 9 min lettura

Depressione post partum: uscire dal silenzio e dallo stigma, creare consapevolezza

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Il 4 agosto 2023 la Food and Drug Administration ha approvato lo zuranolone, il primo farmaco per via orale per il trattamento della depressione post partum. Con una terapia prevista di 14 giorni, gli studi hanno dimostrato che i suoi effetti si mantengono anche quattro settimane dopo aver assunto l’ultima dose. “Penso sia un passo nella giusta direzione, perché le neomadri hanno bisogno di assistenza tempestiva”, ha detto a Valigia Blu la Professoressa di Psicologia presso la Purdue University e specialista di salute mentale Shannon Pickett, sottolineando che “è molto importante che le donne sappiano che esiste questa soluzione”.

La depressione post partum è un disturbo che generalmente insorge attorno alla sesta settimana e che può durare fino a dodici mesi dopo la nascita. Ne soffre circa una donna su cinque al mondo. Differente dal cosiddetto baby blues, che consiste in uno stato di vulnerabilità e umore instabile dovuto più probabilmente ai cambiamenti ormonali in seguito al parto e che tende a rientrare entro pochi giorni o un paio di settimane, la depressione post partum è caratterizzata da profonda tristezza, insonnia, irritabilità, fino ad arrivare ad avere pensieri di suicidio o violenti contro di sé o il neonato. 

In Italia, ad esempio, il suicidio in gravidanza e nell’anno che segue la nascita riguarda 2,3 donne ogni 100.000 nati vivi. Nelle sue manifestazioni più gravi, la depressione post parto può durare anche fino a 11 anni dopo la nascita e, in generale, può avere delle ripercussioni sul benessere del bambino, poiché aumenta il rischio di sviluppare problemi comportamentali e sintomi depressivi durante la crescita. Lo stress e il disagio psicologico possono inoltre manifestarsi già durante la gravidanza e nel periodo attorno alla nascita, e per questo motivo all’espressione “depressione post partum” oggi si preferisce quella di “depressione peripartum o “perinatale”.

“Il peripartum, che si estende fino a un anno dopo il parto, è una fase estremamente delicata nella vita di una donna che si trova ad affrontare numerosi cambiamenti sia a livello psicologico e sociale sia biologico, neuroendocrino, immunitario”, ha spiegato a Valigia Blu la dottoressa Ilaria Adulti, specialista psichiatra, dirigente medico presso il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura di Frascati e membro dello sportello di ascolto S.O.S. Mamma al Policlinico Tor Vergata e del progetto Osservatorio multicentrico per la depressione perinatale. 

Secondo alcune stime, infatti, la probabilità che una donna sviluppi una depressione in questo periodo sarebbe addirittura due volte più alta di quella in qualunque altra fase della vita. “Le stesse fluttuazioni ormonali sono, almeno in parte, responsabili di molti sintomi psichiatrici e psicologici che possono verificarsi in questa fase”, ha detto la dottoressa Adulti, ma tanti sono anche i fattori di rischio:

La genetica indubbiamente svolge un ruolo: figlie di donne che hanno manifestato depressione peripartum hanno più alto rischio di svilupparla a loro volta, ma la relazione non è lineare, in quanto profondamente influenzata da altri fattori. La presenza di familiari e di un partner che siano di supporto sono importanti elementi di protezione. Al contrario, disagio socioeconomico, relazioni instabili o addirittura violente con il partner rappresentano importantissimi fattori di rischio. La giovane età della madre, la gravidanza non programmata, l’incertezza economica e la disoccupazione, la bassa scolarità sono intuitivamente fattori di rischio, ma non dobbiamo pensare che le donne che hanno fortemente desiderato la gravidanza ne siano esenti: numerosi sono i casi di depressione peripartum anche in donne che si sono sottoposte a procedimenti di fecondazione assistita, proprio perché le terapie ormonali possono facilitarne la comparsa. 

Molto importante, ha spiegato la dottoressa Adulti, è anche “l’anamnesi personale e in particolare il ruolo del trauma, soprattutto quando questo avviene in epoca precoce: donne che sono state vittime di traumi infantili sono risultate costantemente a rischio aumentato di sviluppare depressione perinatale. È dimostrato anche l’effetto dose-dipendente del trauma: maggiori sono numero e gravità delle esperienze traumatiche precoci, tanto più elevato sarà il rischio di depressione perinatale”.  

La depressione post partum tra scarsa consapevolezza e pressioni sociali

Nonostante l’ampia diffusione e soprattutto la gravità dei sintomi e delle sue conseguenze, non vi è però ancora molta consapevolezza sulla depressione perinatale. Da un lato alcuni sintomi fisici e psicologici ascrivibili a questo disturbo, come nausea, insonnia e stanchezza, si sovrappongono e possono dunque essere facilmente confusi con gli effetti di una gravidanza. Allo stesso tempo, lo stigma che ancora incombe sulla salute mentale e in particolar modo su quella delle madri e delle neomadri, fa in modo che riconoscere, accettare e diagnosticare per tempo la depressione post partum sia ancora molto difficile. 

“Lo stigma dei disturbi mentali in maternità, come l’ho vissuta io, è reale. Non appena le persone ne sentono l’odore, si allontanano, come se le tue difficoltà fossero contagiose, al pari dell’influenza”, ha scritto a questo proposito la scrittrice Jessica Cornwell, che nel suo libro Birth notes ripercorre il trauma fisico e psicologico vissuto durante il parto gemellare e la depressione che ne è seguita. Anche la dottoressa Adulti riconosce il ruolo dello stigma: “Per la società la madre, quando lo diventa, ‘deve’ essere felice e non sono previsti e concepibili i sentimenti contrastanti che inevitabilmente attraversano una donna in quella fase”, ha detto la specialista.

L’idealizzazione della gravidanza e della maternità, la narrazione comune per cui questi momenti costituiscono esclusivamente motivo di gioia e appagamento, rappresentano di per sé motivo di ansia e stress, soprattutto in chi non si ritrova in questa descrizione o in chi è alla prima esperienza di maternità. È proprio su chi è madre per la prima volta che il timore di non riuscire a rivestire il ruolo idealizzato di "brava madre” ha il potere di influire sull’umore e acuire ansia e insicurezze. 

Nel suo memoir, Cornwell racconta di come si sentisse “vuota” ogni volta che guardava i suoi bambini, dell’oscillazione quotidiana tra uno stato di torpore e uno di paura e di come questo la facesse sentire in colpa, convinta di essere una cattiva madre: “Non era il ruolo di madre a essere difficile, nella mia infelicità ero io a essere difficile. Ero io il problema”. Il senso di colpa di cui parla Cornwell è ciò che porta molte donne che soffrono di depressione perinatale a non riuscire o non volere chiedere aiuto: “C’è una forte pressione nei confronti delle madri e soprattutto delle neomadri a trovare un equilibrio tra le cose e fare quadrare tutto”, ha spiegato Shannon Pickett a Valigia Blu, “per cui già ammettere di avere un problema è molto difficile, chiedere aiuto richiede uno sforzo ancora maggiore”. 

Le donne temono anche che una diagnosi di depressione o disturbo mentale potrebbe riconoscerle come incapaci di prendersi cura dei loro figli e dunque allontanarle da loro. “Parlare avrebbe esposto la mia cattiveria, perciò ‘no’, pensavo, ‘non parlare’”, ha scritto Cornwell. Per questo motivo, sostiene Pickett, “è qui che devono entrare in gioco la famiglia e gli amici, che dovrebbero offrire aiuto e supporto invece di aspettare che questo aiuto venga loro chiesto. Educare i familiari su quali sono i segnali da tenere in considerazione al fine di lavorare insieme e aiutare una neomadre è molto importante”, ha affermato l’esperta, “perché sì, l’arrivo di un bambino nel mondo è un evento meraviglioso, ma anche la madre ha bisogno di cure e questo bisogno non cessa una volta che il bambino è nato”.

L’importanza della continuità assistenziale e della prevenzione

Il concetto espresso dalla professoressa Pickett è ciò che l’Organizzazione mondiale della sanità chiama “continuità assistenziale”, ovvero quell’insieme di cure, supporto e assistenza che dovrebbero accompagnare la donna e le famiglie prima e dopo l’evento nascita. A sostegno dell’importanza della continuità assistenziale, nel 2022 l’OMS ha pubblicato delle linee guida volte proprie a garantire la migliore esperienza pre e post-natale. Tra le 63 raccomandazioni, si trovano visite domiciliari e valutazioni fisiche della madre dopo il parto, screening per patologie specifiche, trattamenti farmacologici in caso di manifestazione di dolore in seguito alla nascita, ma anche azioni preventive: l’OMS ad esempio raccomanda il ricorso a strumenti di screening psicologici e valutazioni psicosociali per prevenire un disturbo depressivo. 

Anche se “non è possibile prevenire la depressione post partum al 100%, per via della genetica e degli ormoni”, come sostiene la professoressa Pickett, è possibile comunque attuare una serie di pratiche utili:

Nel caso in cui una donna sia più a rischio sulla base della propria storia personale o familiare, si potrebbero mettere a punto delle strategie per gestire la situazione prima che il bambino nasca, ad esempio aiutandola a mettersi in contatto con un gruppo di madri e assicurandosi che ci sia una buona rete di supporto attorno alla donna e che la famiglia sia disponibile a darle una mano. 

Secondo la dottoressa Adulti, inoltre:

La prevenzione sta tutta nell’informazione e nello screening precoce: sarebbe necessario a mio avviso inserire nei normali percorsi pre-parto anche visite o quantomeno screening psicologici. Così come si fa l’ecografia, si dovrebbe periodicamente effettuare un semplicissimo test psicologico, che permetterebbe di individuare precocemente dei segnali di rischio. Le risorse purtroppo sono scarse, ma questa semplice azione permetterebbe davvero di supportare le donne in questa delicata fase.

Prevenire la depressione post partum vuol dire anche eliminare o quantomeno limitare fattori stressanti in gravidanza e maternità: molte donne ad esempio si sentono impreparate sia da un punto di vista fisico sia mentale ad affrontare il parto, la cura del proprio figlio e l’allattamento, per cui ricevere informazioni adeguate dal personale sanitario aiuterebbe a ridurre ansia e insicurezze su cosa fare e cosa potrebbe succedere. Allo stesso tempo, poter fare affidamento su servizi di cura e assistenza sul territorio, soprattutto quando non si ha attorno una rete familiare e amicale stabile, rappresenta un aiuto fondamentale. 

Un ruolo molto importante in questo senso in Italia è svolto dalla figura delle ostetriche, che possono garantire la continuità assistenziale di cui parla l’OMS, e dai consultori familiari, che tra le altre cose offrono corsi di accompagnamento alla nascita, sostegno all’allattamento e in generale supporto e assistenza fisica e psicologica. Entrambe le funzioni però sono al centro di una forte crisi: il numero delle ostetriche nel nostro paese è infatti al di sotto della media europea di 14,2 punti, per un totale di 29 ostetriche ogni 100.000 abitanti, mentre i continui tagli e penalizzazioni subite dai consultori negli anni hanno portato alla chiusura di molte sedi, a una forte carenza di personale e risorse, oltre che a una distribuzione sul territorio nazionale disomogenea e inadeguata rispetto alle necessità.

Per la prevenzione e il trattamento della depressione post partum però la sola presenza di servizi e personale non è sufficiente: “È fondamentale soprattutto aumentare la conoscenza. Troppe persone, spesso purtroppo anche i nostri colleghi non psichiatri, non sono adeguatamente formate sull’argomento”, ha evidenziato la dottoressa Adulti a Valigia Blu. Un’analisi recente, ad esempio, ha rilevato un’attenzione insufficiente nei confronti della salute mentale perinatale in Italia, per cui molto spesso diagnosi pregresse di disturbi mentali non sono registrate in fase di diagnosi ostetrica e anche le donne con un alto rischio di suicidio non vengono indirizzate a servizi specializzati in salute mentale. Per questo motivo, secondo uno studio pubblicato dall’Istituto superiore di sanità, è necessario “migliorare sia la valutazione anamnestica dei problemi di salute mentale in epoca perinatale sia la comunicazione e la continuità delle cure fra servizi per la maternità e servizi per la salute mentale”.

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Se aver approvato il farmaco zuranolone per trattare la depressione post partum in maniera tempestiva è stato dunque considerato un passo importante nella cura delle neomadri che soffrono di questo disturbo, esperte ed esperti hanno messo in evidenza anche come questo non basti e piuttosto il lavoro dovrebbe cominciare da lontano, da un cambio di prospettiva nel modo in cui guardiamo alla maternità e alle difficoltà individuali e sociali che questa comporta. Lamentando l’assenza di informazioni sulla depressione post partum e la normalizzazione del disagio e della tristezza che possono insorgere nel periodo perinatale, Jessica Cornwell nel suo libro ha scritto:

Quella che pensavo fosse una sofferenza unicamente mia non era affatto unica. Perché gli operatori sanitari e i familiari definiscono la sofferenza in termini così infantili? Le ostetriche che ci hanno consegnato opuscoli sul baby blues? Promettere che la tristezza passerà in pochi giorni? O i bisbigli sommessi sui problemi materni? Perché queste persone non hanno parlato più liberamente della natura selvaggia della maternità? Del modo in cui ti isola? Il modo in cui ha un impatto sul rapporto con i tuoi figli, con il coniuge, il partner, gli amici o la famiglia, con il mondo che ti circonda? E se ti senti afflitta dal parto, ma non hai un linguaggio con cui comunicarlo, come e quando potrai guarire? Allora non lo sapevo, ma questo fu il primo passo di un lungo processo di guarigione. Nel porre queste domande, avevo iniziato a colpire il vasto e opaco silenzio della mia reclusione materna.

Immagine in anteprima via davidgratzer.com

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