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Gli effetti del decreto sicurezza di Salvini sulla vita delle persone e sul paese

24 Gennaio 2020 24 min lettura

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Gli effetti del decreto sicurezza di Salvini sulla vita delle persone e sul paese

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23 min lettura

di Claudia Torrisi e Andrea Zitelli

Poco meno di quattro mesi fa Luciana Lamorgese, ministra dell’Interno, aveva dichiarato che il governo Conte II sarebbe intervenuto entro l’inizio del 2020 per modificare i cosiddetti “decreti sicurezza” voluti e sostenuti con forza dal suo predecessore al Viminale, Matteo Salvini. 

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Intervenendo a "Otto e mezzo", a metà gennaio, Lamorgese ha anticipato per sommi capi lo schema di revisione di queste norme: ad esempio la riduzione delle multe alle navi che non rispettano il divieto di entrare in acque territoriali italiane (oggi le sanzioni amministrative pecuniarie vanno da un minimo di 150mila euro a un massimo di 1 milione di euro), previste nel “decreto sicurezza bis” e l’ampliamento dei permessi umanitari, dopo che il primo “decreto sicurezza e immigrazione” aveva abolito la protezione umanitaria, per evitare l’aumento di marginalità con l’aumento di persone irregolari nelle città italiane. Ad oggi, comunque, non è stato presentato nessun testo ufficiale con gli interventi che il governo vuole apportare sui “decreti sicurezza”. 

Nell’attesa di capire quali saranno le mosse del governo, abbiamo analizzato quali sono stati ad oggi gli effetti del primo “decreto sicurezza e immigrazione” dopo più di un anno dalla sua introduzione: meno integrazione, più marginalità e conseguenze negative sull’intero settore dell’accoglienza. 

Cosa prevede in breve il primo “decreto sicurezza”

Per analizzare e comprendere al meglio quali sono stati finora gli effetti del decreto, è necessario riassumere brevemente come il testo è intervenuto sui diversi aspetti del sistema dell’accoglienza in Italia.

Il provvedimento è stato approvato dal Consiglio dei ministri del governo Conte I – sostenuto da Movimento 5 stelle e Lega – il 24 settembre 2018 ed è stato poi convertito in legge in Parlamento, con voto di fiducia, il 28 novembre successivo.

Si tratta di un decreto legge che interviene su differenti ambiti: pubblica sicurezza, accoglienza, cittadinanza e contrasto alla mafia. È stato emanato in un momento in cui in Italia gli arrivi di migranti segnavano un calo dell'80% rispetto al 2017 e dell'86% rispetto al 2016, una diminuzione netta delle richieste di asilo sia nel nostro paese che in Europa e una progressiva riduzione della presenza di persone nel sistema di accoglienza. Inoltre, dal 2015 si registrava una flessione dei reati in Italia, soprattutto di criminalità predatoria.

Un quadro che aveva portato diversi esperti e costituzionalisti a parlare di incostituzionalità del testo perché, oltre ad altre questione sollevate, non rispettava i requisiti di omogeneità e urgenza richiesti ai decreti legge.

Nello specifico, gli interventi del decreto sull’immigrazione che ad oggi hanno avuto ricadute più significative riguardano: la modifica del sistema di accoglienza in Italia, l’abolizione della  protezione umanitaria, l’esclusione dei richiedenti asilo dall’iscrizione anagrafica.

Come è cambiato il sistema di accoglienza

Prima dell’approvazione del decreto “sicurezza e immigrazione”, per i richiedenti asilo in Italia c'era una “prima accoglienza” e una “seconda accoglienza”.

Hub regionali e CAS, cioè i Centri di accoglienza straordinaria, componevano la “prima accoglienza”, che serviva per soddisfare “le esigenze essenziali” come l'identificazione dello straniero, l'avvio della procedura di esame della domanda di asilo, l'accertamento delle condizioni di salute e la sussistenza di eventuali situazioni di vulnerabilità che comportavano speciali misure di assistenza. 

La seconda accoglienza, invece, era formata dalla rete territoriale dello SPRAR – con progetti di Enti locali, che vi accedono volontariamente, in cui vengono coinvolti piccoli gruppi di migranti – puntava principalmente all’integrazione della persona e si attivava una volta esaurita la prima fase di accoglienza e nel caso in cui i richiedenti fossero privi di mezzi di sussistenza adeguati. Nonostante questa fosse la previsione sulla carta, nella pratica la maggior parte dei richiedenti asilo restava comunque nei CAS senza mai accedere alla fase successiva.

Il decreto del governo Conte I ha tolto ogni riferimento alla seconda accoglienza per i richiedenti asilo, che in questo modo hanno accesso solo alle misure "essenziali" fornite dalla prima accoglienza (Hotspot e CAS).

I CAS sono però un sistema criticato da più parti perché assente di un controllo metodico, pubblico e imparziale che permetta di monitorare la qualità e il verificarsi di “fenomeni speculativi legati alla lunga durata dell’accoglienza, con il conseguente rischio di generare interessi degli enti gestori”, aveva sottolineato la Commissione di inchiesta parlamentare sull’accoglienza.

Negli SPRAR, dunque, hanno accesso non più i richiedenti asilo e le persone a cui era stata riconosciuta la domanda di protezione internazionale, ma solo chi ha già ottenuto una protezione internazionale, titolari dei permessi dei soggiorni “speciali”, i minori stranieri non accompagnati (in questo caso, richiedenti e non).

Un cambiamento che ha comportato anche la modifica del nome della rete, passato da SPRAR a SIPROIMI, cioè “Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per i minori stranieri non accompagnati”. 

All’epoca, Daniela Di Capua, direttrice dello SPRAR, aveva affermato che il fatto che i richiedenti asilo non potevano accedere a questa rete avrebbe comportato due conseguenze: molte persone in uscita dalla prima accoglienza e che non potranno più entrare nello SPRAR, prive di strumenti utili per una loro parziale autonomia per il tempo di permanenza in Italia, avrebbero rischiato di creare nuova sacche di marginalità sociale, anche rafforzando il lavoro nero e la piccola criminalità; la seconda è che, per come è stato concepito lo SPRAR, l’ideale è la presa in carico del richiedente fin dal primo momento, non dal momento in cui diventa titolare di una protezione internazionale come previsto del decreto, perché altrimenti lo straniero si sarebbe trovato a ricominciare da capo il suo percorso nell’accoglienza.

Queste norme rientrano nel piano generale del governo Conte I che ha puntato, nel suo anno e poco più di vita, a una rivisitazione del sistema di accoglienza anche tramite una “razionalizzazione” dei servizi ad esso collegati, spiega il Servizio Studi della Camera dei Deputati. 

Nel dicembre 2018, il Ministero dell’Interno, guidato dal leader della Lega, ha pubblicato infatti il “nuovo schema di capitolato” per la fornitura di beni e l’erogazione dei servizi di accoglienza dei centri di prima accoglienza che le Prefetture avrebbero dovuto seguire per le procedure di affidamento. Come riassunto nella relazione di giugno 2019 del Dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione del Viminale, il nuovo schema di capitolato “al fine di ridurre i tempi di permanenza nei centri e i costi conseguenti”, tra le altre cose, come rafforzare le misure di verifiche e controllo delle strutture, “individua i servizi di accoglienza limitandoli ai servizi essenziali alla persona” e “fornisce la stima dei costi medi da assumere a riferimento per la determinazione del prezzo di base di asta”. Viene così stabilito un ribasso del costo medio giornaliero per ogni migrante accolto che passa da 35 euro a 21,90 euro (con una differenza nella cifra in base al numero di persone accolte: 19,33 euro per un centro superiore a 1800 posti, 20,84 euro per i centri da 300 a 600 posti, 26,35 euro per i centri fino a 300 posti, 21,35 euro per l'accoglienza individuale in abitazioni).

Salvini, a giugno di due anni fa, nell’annunciare l’intervento sui 35 euro aveva dichiarato che la volontà era far rientrare “nella media europea” questa spesa per lo Stato, “perché tutti i Paesi europei spendono di meno, e anche noi vogliamo spendere di meno”. In realtà, come aveva verificato il sito di fact checking Pagella Politica, l’allora ministro dell’Interno sbagliava perché erano “diversi infatti gli Stati dell’Ue che spendono di più, in particolare tra i Paesi dell’Europa Occidentale”.

Alla sua presentazione questo “nuovo capitolato” aveva ricevuto diverse critiche per i suoi possibili effetti negativi sia sui beneficiari che sui lavoratori del settore. Simone Andreotti, presidente di In Migrazione – una società cooperativa sociale che dal 2015 è impegnata nella ricerca, nell’accoglienza e nel sostegno agli stranieri in Italia – aveva dichiarato che si trattava di «un provvedimento che appare esclusivamente e ossessivamente incentrato sul tagliare i famosi 35 euro, abdicando alla necessità di riformare il malandato sistema di prima accoglienza italiano. Voci di costo tagliate che comportano un complessivo peggioramento della situazione, con possibili effetti gravi, tanto sui richiedenti asilo accolti, quanto sulla comunità ospitante». Vita.it spiegava infatti che “i tagli previsti dalle nuove linee guida riguardano esclusivamente costi legati all’erogazione di servizi (integrazione, vulnerabilità, presidio della struttura, sanità) garantiti con l’impiego di risorse umane, ovvero di figure professionali specializzate. Un’occupazione principalmente giovanile che dal Sud al Nord del Paese era stimata in oltre 36.000 posti di lavoro qualificati”, con il rischio di perderne la metà.

A marzo del 2019 diverse cooperative sociale in Lombardia hanno così presentato un’istanza di annullamento al Tar del Lazio dei nuovi bandi perché “risulterebbero del tutto incongrui rispetto ai costi minimi che l’operatore economico sarebbe tenuto a sostenere in caso di aggiudicazione”: «Contestiamo la legittimità di questi bandi che derivano dalle indicazioni del Ministero degli Interni che escludono gli attori sociali e che propongono cifre che non solo non hanno nessuna rispondenza nella realtà ma che negano ogni possibilità di integrazione e inclusione alle persone ospitate», aveva detto Valeria Negrini, portavoce dell'Alleanza cooperative sociali della Lombardia. 

Cooperative sociali in più parti d’Italia non si sono presentate alle gare di appalto, mandandole in alcuni casi deserte, con la conseguenza che diverse Prefetture hanno deciso di allungarne i tempi o rinviarle, raccontava Quotidiano.Net. Come aveva denunciato Simone Ferretti, responsabile immigrazione dell’Arci: «Non possiamo fare accoglienza soltanto per garantire pasti e posti letti. C’è un livello di dignità collegata all’accoglienza che con questo bando scompare, per cui ci tiriamo indietro. Non è una questione di soldi ma di qualità dell’accoglienza».

Bandi andati deserti o con poche candidature sono continuati fino ad oggi, come in Friuli Venezia Giulia dove a gennaio alla Prefettura di Trieste è stata presentata un’unica offerta da una cooperativa della provincia di Salerno per l'accoglienza diffusa dei richiedenti asilo sul territorio. Il Tg regionale della Rai specifica anche che “in ogni caso, anche se venisse accolta l'offerta, sarà necessario un nuovo bando per rinnovare la gestione del grosso dell'accoglienza diffusa che al momento resta affidata in regime di proroga a Ics e Caritas, i due enti che non hanno partecipato al nuovo bando ritenendolo economicamente non sostenibile”.

I primi effetti delle politiche del Conte I sul sistema di accoglienza

A più di anno da queste politiche a firma Lega, varie sono le analisi uscite sugli effetti al sistema di accoglienza finora riscontrati e sui rischi connessi.

A inizio novembre Openpolis e ActionAid pubblicano un dossier dal titolo “Centri d’Italia: la sicurezza dell’esclusione”. Nel report si legge che nel tempo “l'andamento della distribuzione dei posti tra i centri del Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR) e i Centri di accoglienza straordinaria (CAS) – dove si è concentrata “la gran parte delle criticità legate alla poca trasparenza e agli scarsi controlli” – racconta come i secondi siano aumentati a dismisura” e che “invece di agire su questo insano squilibrio, riducendo la parte più problematica (CAS) e potenziando quella più virtuosa (SPRAR), la nuova normativa voluta dal governo Conte I “è andata nella direzione esattamente contraria”. Un decisione che mostra come “l'integrazione non è più, neanche formalmente, un obiettivo generale del sistema di accoglienza ma diventa un privilegio per pochi, i soli rifugiati e titolari di forme residuali di protezione”.

La pubblicazione del nuovo capitolato, poi, spingerebbe, in base ai dati finora raccolti (non completi), “a penalizzare i centri più piccoli e ad incentivare quelli medi e soprattutto grandi, per i quali sono possibili economie di scala”: “Questo però significa anche favorire la selezione di gestori di medie grandi dimensioni, a danno delle piccole cooperative e associazioni che impiegano personale qualificato con costi non comprimibili”.

Stessa conclusione descritta nel rapporto “I sommersi dell’accoglienza” del ricercatore Marco Omizzolo e pubblicato da Amnesty International Italia: “L’entità dei tagli (pesanti) ai piccoli centri è praticamente uguale a quella prevista per le grandi strutture. In altre parole, gestire un centro di accoglienza con 300 ospiti (che genera finanziamenti complessivi importanti e che gode di evidenti economie di scala) ottiene lo stesso pro die di un centro con 150 utenti. (...) Si determina così un dato di realtà per cui “un grande centro di prima accoglienza collettivo conviene; un piccolo centro collettivo di accoglienza invece non è economicamente sostenibile”.

I nuovi bandi per la gestione della prima accoglienza hanno anche avuto come conseguenza la protesta degli enti gestori “che si sono opposti alle nuove regole sia dal punto di vista della sostenibilità economica sia contestando il taglio dei servizi”, anche presentando vari ricorsi ai giudici, continua il report di Openpolis e ActionAid : “A un anno dall’approvazione del decreto sicurezza e del nuovo capitolato, risulta sempre più chiaro come questo rifiuto abbia causato per molte prefetture una effettiva difficoltà ad assegnare tutti i posti ritenuti necessari. Si tratta in questo caso di una difficoltà dettata da elementi strutturali. La nuova normativa infatti è molto chiara e fornisce pochissimo spazio di manovra agli uffici territoriali del governo, che si trovano schiacciati tra la necessità di garantire un servizio previsto dalla legge e delle regole che trovano difficile applicazione”.

Se poi le prefetture non dovessero riuscire ad assegnare i posti ritenuti necessari tramite la ripetizione di nuove gare, per Stefano Trovato, membro dell'esecutivo nazionale del CNCA (Coordinamento nazionale comunità di accoglienza), al di là dello strumento della proroga dei contratti in corso o di una trattativa sulla proroga, «a un certo punto però il ministero dovrà scegliere se modificare il capitolato o utilizzare altri modi». Lo scorso settembre, il prefetto di Firenze, Laura Lega, ha dichiarato che i bandi stavano andando «purtroppo pressoché deserti. Credo ci sia una posizione che va modificata e sarà importante lavorare insieme in questa direzione».

Per Openpolis e ActionAid si tratta di un “fenomeno potenzialmente esplosivo, che per ora rimane sotto traccia grazie al ridotto numero di nuovi ingressi nei centri, dovuto al drastico calo degli arrivi (di flussi di richiedenti asilo che mai – è utile ribadirlo – hanno rappresentato un’emergenza né un’invasione), ma che in ogni caso produce effetti distruttivi sui percorsi di integrazione di migliaia di richiedenti asilo”. Il rapporto si chiede così “cosa accadrebbe se i numeri dovessero aumentare? Quali sono i piani e le opzioni a disposizione se le strutture attive non dovessero essere più sufficienti?”.

Un altro effetto problematico di queste politiche è quello sui lavoratori specializzati, formati e con competenze che stanno perdendo il proprio lavoro o l’hanno già perso, come descritto da testimonianze, rapporti e inchieste giornalistiche.

Massimiliano Enrico Broggi, un insegnante di italiano per stranieri, a metà dicembre ha raccontato a Repubblica che lui e i suoi colleghi stavano aspettando la lettera di licenziamento perché il progetto per cui stava lavorando, attivo da circa cinque anni nella Provincia di Ascoli Piceno, aveva chiuso: «Rispetto al tipo di accoglienza dei primi anni ci sono stati degli sprechi, in termini economici, anche in termini di forme di assistenzialismo dannose sia per il beneficiario stesso che per l’associazione. Adesso invece ci troviamo di fronte alla situazione opposta, per cui anche i diritti e i bisogni fondamentali spesso vengono negati». Secondo Stefano Sabato, Funzione Pubblica (FP) della CGIL, ad oggi «circa 5mila persone hanno già perso il posto di lavoro, per la stragrande maggioranza giovani, altamente formati: assistenti sociali, insegnanti di lingua italiana, mediatori linguistici e culturali». In totale i posti a rischio nel settore sarebbero all’incirca 15 mila.

In questo contesto di difficoltà che si è andato sviluppando, Matteo Biffoni, sindaco di Prato e delegato Anci all’immigrazione, ha dichiarato: “Abbiamo bisogno di leggi che ci evitino di dover lavorare nell’emergenza e come Anci abbiamo formulato al Governo proposte chiare e concrete per superare queste criticità, partendo innanzitutto dal ritorno al sistema SPRAR, garante di una forma di inclusione rispettosa delle persone arrivate e delle comunità che accolgono”. Nel frattempo, in Svizzera lo scorso 14 dicembre il Tribunale amministrativo federale (TAF) ha deciso che, per via degli effetti del "decreto sicurezza" che pongono "nuove difficoltà che complicano l’accesso diretto alla procedura d’asilo e alle prestazioni di accoglienza", le autorità italiane dovranno fornire garanzie ancor più concrete riguardo alle condizioni di accoglienza nei centri governativi per le famiglie e i richiedenti gravemente malati trasferiti in Italia.

Le conseguenze dell’abolizione della protezione umanitaria

Tra le misure contenute nel “decreto sicurezza” c’è la cancellazione del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Si tratta di uno strumento introdotto in Italia nel 1998 all’interno del Testo Unico sull’immigrazione in aggiunta allo status di rifugiato politico e alla protezione sussidiaria. Il permesso per motivi umanitari veniva rilasciato dalla questura se la persona richiedente protezione internazionale non aveva i presupposti per la concessione dell’asilo ma c’erano comunque “seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello stato italiano”.

Al posto della protezione umanitaria il decreto voluto da Salvini ha introdotto dei permessi di soggiorno speciali di diversa durata per alcune categorie di persone: per cure mediche, per le vittime di violenza, violenza domestica o grave sfruttamento anche lavorativo (ma in questo caso il lavoratore deve aver presentato denuncia), per situazioni di “contingente ed eccezionale calamità” che non consentono alla persona il rientro e la permanenza nel paese di provenienza in condizioni di sicurezza, per atti di “particolare valore civile”, per i casi di non possibilità di espulsione e respingimento verso uno Stato in cui il richiedente possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali  o dove possa essere sottoposto a tortura. 

Il nostro paese non era l’unico in Europa ad avere una qualche forma di protezione umanitaria. Come ricostruito da Pagella Politica, infatti, nel 2017 in Europa, “19 Paesi – di cui 16 dell’Ue – hanno dato un esito positivo a una domanda d’asilo fornendo una forma di protezione per ‘ragioni umanitarie’. Con questa espressione, Eurostat fa riferimento proprio ai richiedenti asilo che non ottengono lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria – ossia le due forme di protezione internazionale – ma vengono comunque accolti dai Paesi europei su basi umanitarie, perché, per esempio, sono minori non accompagnati o persone malate”.

Avendo maglie meno strette dello status di rifugiato e anche della protezione sussidiaria, il permesso di soggiorno per motivi umanitari è stato largamente utilizzato in Italia, specialmente negli ultimi anni: dal 2014 al 2017, nella maggior parte dei casi esaminati, è stata la forma di protezione più concessa. Secondo i numeri del Ministero dell’Interno, nel 2017 su 130.119 richieste di protezione internazionale, nel 25% dei casi è stato concesso il permesso di soggiorno per motivi umanitari. Lo stesso anno lo status di rifugiato è stato accordato all’8% dei richiedenti, il 7% ha ricevuto altre forme di protezione, mentre nel 52% dei casi la domanda è stata respinta. Nel 2018 i numeri delle richieste di protezione internazionale sono stati più bassi – 53.596 in totale – e sono aumentati i dinieghi (67%). Il 21% di coloro che hanno fatto domanda di protezione ha ricevuto il permesso di soggiorno per motivi umanitari, il 7% lo status di rifugiato e il 5% la protezione sussidiaria.

L’abolizione della protezione umanitaria ha dunque inciso su una larga fetta di persone arrivate nel nostro paese. Il primo effetto, come spiegato nel dossier realizzato da Openpolis e ActionAid, è stato quello dell’aumento della percentuale dei “diniegati”, ossia di coloro ai quali viene negato il riconoscimento di una qualche forma di protezione internazionale, passati dal 67% del 2018 all’80% del 2019.

Nonostante – come stabilito anche da una sentenza della Corte di Cassazione di gennaio 2019 – il decreto non sia retroattivo e quindi si applichi solo alle domande di protezione internazionale proposte dopo il 5 ottobre 2018, giorno dell’entrata in vigore, in sede amministrativa le cose sono andate diversamente. Un articolo di Altreconomia ricostruisce come le commissioni territoriali abbiano infatti drasticamente ridotto il tasso di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari, passando dal 29% delle domande esaminate tra agosto 2017 e fine luglio 2018 al 6% del periodo tra agosto 2018 e fine luglio 2019.

Il vicepresidente dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione Gianfranco Schiavone aveva denunciato che già a novembre 2018 – un solo mese dopo l’entrata in vigore del “decreto sicurezza” – su oltre 7.700 domande esaminate, quelle rigettate erano state ben l’80% e la protezione umanitaria era stata concessa solo al 5% dei richiedenti.

Come ricostruito da un articolo del Post, infatti, uno dei gli “effetti politici” del “decreto sicurezza” è stato che moltissime persone che avevano richiesto una protezione nei mesi precedenti all’approvazione della misura, “in quelli successivi hanno visto respinta la propria richiesta in una percentuale molto superiore a quella degli anni precedenti”. Addirittura, non è chiaro se per indicazioni ministeriali o altre pressioni, le commissioni giudicanti “avevano già smesso di considerare un’opzione il permesso per motivi umanitari ancora prima che il decreto entrasse in vigore”. Basta guardare i dati di settembre 2018: un mese prima dell’approvazione del provvedimento, è stata registrata la percentuale più alta di dinieghi fino a quel momento (il 72% delle richieste), mentre quella dei permessi di soggiorno per motivi umanitari sul totale di quelli garantiti è diminuita considerevolmente, passando dal 30% dei primi mesi dell’anno al 17%.

Luciana Breggia, presidente della sezione specializzata in materia di immigrazione del Tribunale di Firenze, ha spiegato che nei primi sei mesi del 2019 è stato registrato il 40% di ricorsi in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente: «Tra le ragioni ci sono senz’altro l’aumento delle decisioni delle commissioni territoriali, spinto dal rafforzamento degli organici, e anche l’incremento dei dinieghi».

Il risultato della cancellazione della protezione umanitaria è stato dunque quello di rendere molto più difficile se non impossibile l’eventualità di un soggiorno legale, e di conseguenza accrescere il numero di persone “irregolari” – ossia presenti senza un valido titolo – nel nostro paese. Una cifra che secondo la Fondazione ISMU al 1 gennaio 2019 era di 562 unità.

Sul punto sono state fatte diverse stime. Una è quella contenuta nel rapporto di Openpolis e ActionAid, secondo cui il numero degli irregolari – in costante crescita dal 2013 a causa principalmente della sostanziale chiusura dei canali legali ingresso per motivi lavorativi – è aumentato nel 2019 di quasi 60mila unità, e potrà superare i 750mila a gennaio del 2021. Il calcolo è stato fatto ipotizzando come costanti il numero di sbarchi, rimpatri e dinieghi e che i 40mila permessi umanitari concessi tra 2017 e 2018 vadano in scadenza nei due anni successivi diventando dinieghi definitivi.

Secondo Matteo Villa, ricercatore dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI), “la rimodulazione della protezione umanitaria sta avendo degli effetti ‘aritmetici’ sull’aumento della presenza di stranieri irregolari in Italia”. I nuovi irregolari “sono il risultato di un maggior numero di dinieghi di protezione rispetto ai rimpatri effettuati nello stesso mese”.

In questo grafico elaborato da Villa, le linee blu rappresentano quello che sarebbe successo nel caso la protezione umanitaria non fosse stata praticamente abolita: “A fine ottobre 2019 in Italia ci sarebbero comunque circa 70.000 irregolari in più rispetto a giugno 2018, e questo semplicemente perché a giugno 2018 decine di migliaia di persone erano ancora in attesa del responso sulla loro richiesta d’asilo, ed era naturale attendersi che in circa la metà dei casi l’esito sarebbe stato comunque negativo”. Le linee arancioni, invece, rappresentano “il numero di stranieri irregolari in più, generati dalla rimodulazione della protezione umanitaria e dunque da un aumento del numero dei dinieghi”, quasi 30mila in più in soli 12 mesi.

Lo studio “I sommersi dell’accoglienza” di Amnesty International stima che che tra giugno 2018 e dicembre 2020 il numero degli irregolari in Italia tenderà ad aumentare di almeno 140.000 unità. Il rapporto ritiene che “l’aumento maggiore di migranti privi di un regolare permesso di soggiorno in Italia in proiezione avverrà entro la fine del 2020. Se l’Italia avesse mantenuto i tre livelli di protezione internazionale (status di rifugiato, protezione sussidiaria e protezione umanitaria) originariamente previsti, i migranti privi di regolare permesso di soggiorno sarebbero aumentati di circa 60.000 unità”. Con il decreto sicurezza, “al numero dei nuovi irregolari previsti dallo scenario base si devono aggiungere ulteriori 70.000 migranti privi di un permesso regolare, finendo col più che raddoppiare il loro numero nel paese”.

In totale, prosegue lo studio di Amnesty, “entro il 2020 il numero di migranti irregolari presenti in Italia potrebbe superare quota 670.000. Un numero più che doppio rispetto ad appena cinque anni fa”. Tutte queste persone verranno evidentemente assorbite in gran parte “dal mercato del lavoro irregolare, amplificando la platea di lavoratori e lavoratrici vittime di sfruttamento lavorativo,grave sfruttamento lavorativo, caporalato e forme più o meno vaste di lavoro nero”.

Queste qui sopra, comunque, sono stime basate su metodologie di calcolo. Ottenere dei numeri precisi, infatti, non è possibile. Nel suo “Venticinquesimo Rapporto sulle Migrazioni” la Fondazione ISMU scrive che l’impatto dell’abolizione del permesso di soggiorno per motivi umanitari “sul numero finale degli irregolari è di difficile quantificazione”. La ricezione di un diniego “non si tramuta necessariamente nell'immediata perdita dello status di regolarità, poiché a coloro che presentano ricorso, nella maggior parte dei casi, viene sospeso l'ordine di lasciare l'Italia”. L’abolizione della protezione umanitaria “avrà un significativo impatto sulla presenza irregolare, di cui però non è quantificabile con sicurezza l’orizzonte temporale, grazie alla non retroattività della norma che presumibilmente darà luogo a sentenze positive in fase di appello”.

Al di là dei numeri, un aspetto non trascurabile dell’abolizione della protezione umanitaria sono le conseguenze disastrose sulle vite e sui diritti delle persone – molte delle quali magari vivevano e lavoravano già in Italia da anni.

Come ha spiegato l’avvocata Nazzarena Zorzella, socia anche lei di Asgi e parte della redazione della rivista Diritto Immigrazione e Cittadinanza, «coloro che già erano usciti dal circuito amministrativo-giudiziario della protezione internazionale, da un giorno all’altro, si sono ritrovati sostanzialmente privi del diritto di conservare il permesso. Chi aveva un lavoro è riuscito in alcuni casi a ottenere la conversione. A chi era iscritto alle liste per l’impiego o in disoccupazione, o assunto con contratti tipici precari rinnovati anche di giorno di giorno attraverso agenzie interinali, invece, difficilmente è stato rinnovato il permesso di soggiorno».

Il team legale del Baobab Experience, associazione di volontari che dal 2015 dà assistenza di vario tipo ai migranti a Roma, si sta occupando in questo momento di venti casi sospesi per rinnovo della protezione umanitaria. Erano il doppio fino a poco tempo fa, ma venti sono riusciti a sbloccarli. «Parliamo di casi che sono sospesi da oltre un anno, persone che non possono sottoscrivere contratti di lavoro o affittare una casa», spiega a Valigia Blu Giovanna Cavallo, coordinatrice del team legale.

Uno di questi casi è quello di S., un ragazzo senegalese di 25 anni arrivato in Italia nel 2014. È partito dal suo paese in autobus, passato dal Mali, dal Burkina Faso, dal Niger e poi è giunto in Libia, dove è rimasto otto mesi, alcuni dei quali rinchiuso in una prigione. Scappato da quel luogo dove, ricorda, «venivamo trattati e venduti come animali», S. ha lavorato come fornaio, fin quando un suo amico gli ha detto che si sarebbe imbarcato per l’Italia. «Tornare nel nostro paese era troppo pericoloso: quando sei in Libia e dici di voler tornare indietro ti prendono un’altra volta, ti rimettono in una prigione, ti chiedono soldi, li chiedono alla tua famiglia. Quindi dovevo attraversare il mare», racconta. S. si è quindi messo in mano ai trafficanti, ha pagato ed è sbarcato in Calabria.

In Italia ha fatto richiesta di protezione internazionale, e dopo un anno e mezzo ha ottenuto un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Nel frattempo è stato nel CAS di Fiano Romano, ha lavorato per due anni, con diversi contratti di lavoro. A marzo del 2018 il suo permesso è scaduto. Qualche mese prima S. è andato in questura per prendere un appuntamento per il rinnovo, che gli hanno fissato tre mesi più tardi. Da allora è stato un continuo andare e tornare dall’ufficio, senza successo. Con l’approvazione del “decreto sicurezza”, quest’estate gli è stata imposta la conversione in permesso di lavoro, che è stata però rigettata, lasciandolo completamente senza documenti. Nel frattempo con il team legale del Baobab S. aveva fatto ricorso per la lungaggine burocratica, e il giudice ha sentenziato che avrà diritto a ricevere il permesso perché la sua richiesta era antecedente all’entrata in vigore del decreto.

Per il momento però resta in attesa, in una sorta di limbo, senza documenti. «L’anno scorso ho lavorato a Roma cinque mesi come addetto alle pulizie di uffici. Poi il capo mi ha detto che con un cedolino del 2018 non potevo lavorare nel 2019, quindi quel lavoro l’ho perso», racconta. Gli è successa la stessa cosa con un altro impiego, stavolta in una carrozzeria: dopo due mesi l’hanno mandato via perché non aveva il permesso rinnovato. «Da circa un anno non riesco a dormire, ho la testa pesante. Senza permesso di soggiorno non posso trovare lavoro, e se non ho lavoro è anche difficile trovare una casa», spiega S. Perlopiù dorme ospitato da amici o all’accampamento del Baobab.

Un’altra questione per i titolari di protezione umanitaria riguarda la loro fuori uscita dai centri d’accoglienza, dai percorsi degli SPRAR – oggi SIPROIMI, e anche dai CAS. Un punto su cui si sta combattendo a suon di ricorsi, nonostante l’applicazione del "decreto sicurezza" non possa essere retroattiva.

A giugno del 2019 il Tar del Lazio ha deciso sul caso di una giovane nigeriana con un figlio piccolo titolare di permesso di soggiorno per motivi umanitari che era stata espulsa dalla prefettura da un CAS nel dicembre 2018 con la motivazione dell’entrata in vigore del decreto sicurezza. La donna si trovava nel CAS in via temporanea, in attesa di essere collocata in un centro SPRAR. I giudici hanno stabilito il suo diritto a essere accolta in un percorso SIPROIMI. Decisioni simili sono state prese qualche mese prima anche dal Tar della Basilicata, poi da quello di Brescia e da quello del Veneto.

Lo scorso dicembre la Direzione centrale dei servizi per l’immigrazione e l’asilo del Ministero dell’Interno ha inviato una circolare agli enti locali titolari dei progetti SIPROIMI in scadenza per sollecitare l’uscita dal sistema d’accoglienza dei titolari di protezione umanitaria a partire dal primo gennaio 2020 e il loro trasferimento verso strutture di prima accoglienza. Molte associazioni del settore avevano protestato: Asgi, ad esempio, aveva definito la circolare “infondata e illogica”, oltre che illegittima dal momento che il “decreto sicurezza” non può essere applicato retroattivamente – e i titolari di protezione umanitaria devono rimanere fino alla scadenza del progetto.

Successivamente il Viminale ha diramato una nota in cui afferma che “nessuno dei 1.428 titolari di permesso di soggiorno per motivi umanitari, attualmente presenti nel nuovo Sistema di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati perderà l’assistenza”.

Un’inchiesta di Altreconomia, realizzata attraverso la procedura dell’accesso civico generalizzato, ha mostrato come le prefetture finora abbiano tenuto invece tutt’altro atteggiamento, espellendo dall’entrata in vigore del “decreto sicurezza” almeno 2.291 persone dai CAS di tutta Italia.

Una delle norme del decreto sicurezza maggiormente criticate, poi, sin dalla sua approvazione prevede che il permesso di soggiorno per richiesta d’asilo non possa più essere utilizzato come documento valido per l’iscrizione anagrafica. Una misura che secondo l’Asgi contiene profili di incostituzionalità perché comporterebbe una disparità di trattamento “nell’iscrizione anagrafica che colpisce una sola categoria di stranieri legalmente soggiornanti (i titolari di permesso di soggiorno per richiesta di asilo, appunto), violando il principio di parità di trattamento coi cittadini italiani prevista dall’art. 6 d.lgs. n. 286/1998 per gli altri stranieri regolarmente soggiornanti”. Una discriminazione che “non solo nega ad essi il diritto di essere parte a pieno titolo di una comunità locale, ma anche rende per loro estremamente difficile l’accesso a quei rapporti privati e a quei servizi pubblici che sino ad oggi sono stati erogati sulla base della residenza come accertata dalla iscrizione anagrafica”.

Anche questa previsione è stata oggetto di ricorsi in tutta Italia. Secondo il presidente della onlus Avvocato di strada, Antonio Mumolo, sono «decine e decine»: a giugno l’associazione ne aveva presentati «sette o otto in Emilia-Romagna e molti altri nelle altre regioni. Del resto, la norma è chiara non c'è nessun motivo per cui un richiedente asilo non possa ottenere l'iscrizione all'anagrafe». La prima sentenza favorevole è stata pronunciata a maggio 2019 a Bologna, dove la sezione civile del Tribunale ha imposto al Comune di iscrivere alla propria anagrafe due richiedenti asilo che avevano fatto ricorso – uno presentato da Avvocati di Strada e l’altro da Asgi – contro il diniego stabilito dal decreto sicurezza. Contro la decisione il Viminale aveva presentato ricorso, che però è stato respinto.

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A quella pronuncia di Bologna ne sono seguite altre in diverse città, ad esempio a Parma, a Firenze, a Genova, ad Ancona.

Nonostante i risultati positivi ottenuti nei tribunali, secondo l’avvocata Zorzella di Asgi – tra i legali che più si sono occupati di questo tema – non si può parlare di una piena vittoria: «Quella giudiziaria è l’estrema frontiera di una battaglia civile. E a meno che ci sia un intervento della Corte costituzionale, il rischio è che cause dall’esito positivo rimangano macchie di leopardo, ristrette a quella persona e a quel territorio», ha spiegato ad Altreconomia. Oltre che sul piano giuridico, dove la battaglia è aperta nelle aule di giustizia, il “decreto sicurezza” ha agito su quello culturale: «Il messaggio pubblico che è passato è l’assenza del diritto alla residenza, tradotto automaticamente nella negazione di ogni diritto, con ‘chiusure’ sempre più frequenti da parte dei datori di lavoro o delle banche».

Foto in anteprima via Ansa

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