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Debunking Silvio

2 Agosto 2013 3 min lettura

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Debunking Silvio

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«Viva l'Italia! Viva Forza Italia!». Così si conclude l'ultimo messaggio video di Silvio Berlusconi. Da poche ore è stato condannato in via definitiva per frode fiscale. Ma da pregiudicato lancia, come se nulla fosse, una "nuova" aspettativa politica. E mentre lo senti inneggiare «Viva l'Italia!», ecco che ti passano davanti come un treno in corsa le stesse identiche cose che ripete più o meno da più di vent'anni. Ma che ogni volta sembrano imporsi veloci, come se fosse la prima volta, nel panorama dell'opinione pubblica.

La partenza è un classico: la magistratura è diventata «un vero e proprio potere dello Stato» che ha «condizionato (...) la vita politica italiana, dalle inchieste di Tangentopoli fino ad oggi». Non ha importanza che per l'art.104 della Costituzione i magistrati siano un «ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere» che si deve muovere nei paletti del codice penale/civile. No. Per Silvio Berlusconi l'obbligatorietà dell'azione penale (art. 112 Cost.) nei suoi confronti ha la stessa valenza di una pretesa «rivoluzione etica». In questo modo al diritto e alle leggi si sostituisce una visione morale. La conclusione è istantanea e ti colpisce emotivamente: si giudica Silvio Berlusconi non per ipotesi di reato, ma perché "cattivo".

Un perseguitato, insomma, che dal momento della sua discesa in campo - 26 gennaio 1994 - ha subito solo aggressioni giudiziarie e dovuto sopportare «106 processi» / «oltre 50 processi» / «30 processi». Questo nonostante il fatto che i guai con la giustizia per Berlusconi siano antecedenti la sua decisione di entrare nell'agone politico e che il numero dei processi a suo carico non corrisponda alle sue cifre

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Ma, come afferma il presidente del Popolo della libertà nel suo videomessaggio, assicurando "al popolo" la sua innocenza, «questo ormai lo sanno tutti». Come sta agli atti di sentenze il fatto che il giuramento per cui «non esiste alcun fondo occulto all’estero che riguardi me e la mia famiglia» si scontra con la realtà delle società offshore emerse in vari processi - All Iberian, Mills, Mediatrade, Mediaset - in cui Silvio Berlusconi è stato imputato.

Ma i fatti nel suo racconto non hanno importanza. Quello che prevale è che l'Italia è stata ingrata nei suoi confronti. Perché Silvio non ha mai licenziato nessuno, Silvio con le sue Tv ha favorito «una maggiore libertà e pluralità al mondo dell’informazione», Silvio come capo di governo ha «rappresentato al meglio l’Italia nel mondo». Se poi anche le sue aziende hanno avuto a che fare con problemi di tagli per la generale situazione di crisi economica; se proprio la concentrazione del potere mediatico rappresentato dal conflitto d'interesse berlusconiano ha significato gravissime complicanze per la libertà e pluralità dell'informazione in Italia; se agli occhi della stampa estera, l'Italia, con il governo Berlusconi, ha perduto qualsiasi credibilità internazionale, tutto questo non conta. Resta solo l'amarezza che la sua lotta contro il male - il solito male: «il comunismo» - non sia stata adeguatamente sostenuta e che alla fine gli abbia portato solo «delle accuse e una sentenza fondata sul nulla assoluto».

E così come quei 5 partiti democratici che tra il '92 e il '93 «avevano governato l’Italia per oltre mezzo secolo e che, nonostante alcune ombre, avevano comunque assicurato il benessere e difeso la libertà» dalla minaccia appunto dei "rossi" si trovano spazzati via dalla "rivoluzione etica" dei magistrati, lo stesso destino - dice affranto - tocca alla sua persona-partito. Non ha importanza se nel 1994, nel suo primo discorso da politico, definì quella stessa classe politica «vecchia», «travolta dai fatti e superata dai tempi», schiacciata «dal peso del debito pubblico e dal sistema di finanziamento illegale dei partiti» con il lascito di «un Paese impreparato e incerto». Fondamentale è affermare che anche il suo primo governo cadde per mano di «un'azione ininterrotta della magistratura», anche se a causarne la fine fu la mozione di sfiducia voluta dall'alleato di governo Umberto Bossi e la sua Lega Nord, il 22 dicembre del 1994, dopo diversi contrasti politici.

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Passato il treno, finito il suo discorso, pensi che sia per l'ultima volta. Ma l'ultima volta non esiste, perché quelle parole fanno parte del vissuto culturale di questo Paese e il capolinea sembra ogni volta più lontano.

 

 

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