Le critiche dal punto di vista giuridico al DDL Zan contro l’omobitransfobia smontate una per una
7 min letturaDel disegno di legge Zan (DDL Zan) – “Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità” - si è parlato su vari piani. Sembra opportuno svolgere considerazioni su quello del diritto, forse il più trascurato.
Il ddl Zan in sintesi
Il DDL Zan inserisce il riferimento ad alcune condizioni personali all’interno sia dei reati previsti dall’art. 604 bis c.p., sia nell’aggravante di cui all’art. 604 ter c.p.. In particolare, il testo dispone sanzioni per chi commette atti di discriminazione fondati "sul sesso, sul genere, sull'orientamento sessuale o sull’identità di genere o sulla disabilità”; per chi istiga a commettere o commette violenza per gli stessi motivi; per chi partecipa o assiste organizzazioni aventi tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza sempre per tali motivi. Inoltre, per qualsiasi reato commesso per le finalità di discriminazione o di odio la pena viene aumentata fino alla metà. Il condannato può ottenere la sospensione condizionale della pena se presta un lavoro in favore delle associazioni di tutela delle vittime dei reati. Il DDL Zan prevede anche l’istituzione di una giornata nazionale per promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione nonché per contrastare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere, e programmi di sensibilizzazione su questi temi vanno inseriti nell’offerta formativa delle scuole. L’Istat farà indagini con cadenza almeno triennale su discriminazioni e violenze contemplate dal DDL Zan «al fine di verificare l’applicazione della riforma e implementare le politiche di contrasto». Nel provvedimento c’è anche uno stanziamento annuale per i centri contro le discriminazioni motivate da orientamento sessuale e identità di genere.
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A cosa serve il DDL Zan
Il DDL Zan serve? E a cosa serve?
Innanzitutto, la proposta di legge rappresenta il modo, da un lato, di dare riconoscimento giuridico, mediante una tutela rafforzata, a realtà che al momento sono ignorate dal diritto; dall'altro lato, di sanzionare con particolare severità atti di discriminazione o violenza commessi a danno di determinate persone per ciò che esse “sono”, da parte di chi reputa sbagliato essere in un certo modo. In altre parole, attraverso la particolare tutela fornita, si dà cittadinanza nell’ordinamento a dimensioni personali ulteriori rispetto a quelle già presenti a diversi fini nelle norme nazionali. E non solo: si riconosce che le condizioni contemplate dalla proposta di legge rappresentano il movente di atti odiosi, e per tale motivo li si sanziona in maniera specifica. La legge, dunque, non tutela “minoranze” - come talora è stato impropriamente detto, anche con l’intento di escludere dall’ambito della legge le donne, perché non sono una minoranza - ma assicura il riconoscimento giuridico a situazioni di vita ritenute meritevoli di particolare protezione. Perché esse meritano tale attenzione? Si è cercato di ancorare la risposta al dato numerico delle denunce per i reati previsti dalla nuova disciplina, al fine di dimostrare che essa riguarda condotte che non rappresentano una “emergenza”, quindi non serve che il legislatore intervenga. Premesso che non occorre essere di fronte a un’emergenza perché si attivi un intervento normativo, il DDL Zan serve non solo e non tanto ad arginare il compimento di certi reati, ma – come detto – a dare riconoscimento giuridico a condizioni personali, alcune delle quali possono pure non essere riconosciute sul piano culturale, ma è odioso che, per tale motivo, siano rese oggetto di condotte di violenza e discriminazione. Pertanto, esse vengono perseguite.
Una delle obiezioni al progetto di disciplina è che gli atti dalla stessa contemplati sono già sanzionati dall’ordinamento, e quindi non sarebbe necessario intasare il sistema normativo con nuove disposizioni, che andrebbero ad affastellarsi su quelle precedenti. È vero: atti di violenza e discriminazione a danno delle persone che si trovino in una delle condizioni previste sarebbero comunque puniti. E, secondo qualcuno, varrebbe l’aggravante sancita dal codice penale per “motivi abietti e futili”. Ma, come spiegato, il fine del DDL Zan è quello di fornire riconoscimento giuridico a certe situazioni personali le quali costituiscono la causa, il movente, di determinati reati. Non c’è, quindi, sovrapposizione con altre normative già vigenti. Un esempio può spiegare meglio. La legge quadro sulla disabilità (l. n. 104/1992), aggrava la pena prevista per taluni reati quando gli stessi siano commessi a danno di persone disabili. Invece, il DDL Zan colpisce discriminazioni e violenze commesse su individui con disabilità "in quanto disabili", cioè per ciò che essi “sono”, come detto. Parimenti, la tutela rafforzata in ragione del sesso non è una duplicazione rispetto a quanto già disposto da normative che sanzionano, ad esempio, reati ai danni delle donne per intenti di possesso, prevaricazione e altro: a prescindere da tali intenti, il DDL Zan attiene ad atti commessi da chi consideri il fatto di essere donna come una sorta di colpa.
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Il DDL Zan sanziona le opinioni?
Una delle obiezioni alla proposta di legge in esame è che, se essa passasse, potrebbe essere sanzionato chi diffondesse opinioni ritenute non “politicamente corrette” nei riguardi di persone che si trovano in una delle situazioni contemplate. Si paventa l’introduzione di una sorta di reato d’opinione, che restringerebbe la libertà di esprimersi e agire, ad esempio, secondo convinzioni religiose o morali le quali non riconoscono orientamenti sessuali e identità di genere difformi rispetto al sesso biologico di un individuo. Al riguardo, si osserva che il DDL Zan non tratta l’espressione di opinioni – anzi, esclusa dall’ambito della legge, come si vedrà in prosieguo – ma sanziona, oltre ad atti di violenza e discriminazione, l’istigazione a commettere atti di violenza o discriminazione, cioè atti specificamente volti a indurre condotte delittuose. Peraltro, la propaganda di idee - sanzionata se esse sono “fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico” (art. 604-bis, c.p.) - non viene estesa dal DDL Zan alle idee relative a sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere e disabilità. Tantomeno, ai sensi di tale legge, potrebbe quindi essere punita la mera manifestazione di idee, che sta a un livello inferiore alla propaganda.
Nonostante ciò, molti continuano ad avanzare dubbi, affermando che la disposizione del DDL Zan che fa salve «la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori e violenti» (art. 4) si tradurrebbe in una intollerabile limitazione della libertà per quanto previsto dopo il “purché”. Una premessa: alcuni di quelli che sostengono tale tesi sono esponenti della parte politica – il centro-destra - per volontà della quale la disposizione stessa è stata introdotta nel DDL Zan come clausola di salvaguardia della libertà di espressione. Insomma, essi lamentano che tale libertà sia compressa da una norma che hanno voluto proprio a garanzia della libertà stessa.
Detto ciò, quel “purché”, secondo qualcuno, lascerebbe le opinioni personali sottoposte all’arbitrio decisionale di un giudice chiamato a valutarne la lesività. Ma quanto disposto dopo il “purché”, da un lato, esplicita le condizioni della libertà di espressione, che non è assoluta – non esistono diritti “tiranni”, ogni valore costituzionale va contemperato con altri di pari rango - ma incontra limiti nell’ordinamento; dall’altro lato, spiega l’opera che il giudice compie ogni volta che, dovendo valutare una certa condotta potenzialmente lesiva, bilancia interessi parimenti rilevanti, in questo caso libertà di espressione e dignità umana. E ciò accade anche quando il “purché” non sia esplicitato. In altre parole, se pure la previsione in esame non ci fosse, la necessità di un equilibrio fra istanze contrapposte, valutabile in via giudiziaria, sarebbe già desumibile dall’ordinamento. A ciò si aggiunga che la limitazione alla libertà di espressione già esiste per discriminazioni razziali o etniche. Dunque, chi reputa che il DDL Zan sia una minaccia per la libertà di opinione con riferimento a omotransfobia, genere e disabilità, dovrebbe avanzare gli stessi dubbi circa le altre fattispecie già previste: altrimenti, l'incoerenza minerebbe la credibilità dell'obiezione.
Tassatività delle definizioni
Il DDL Zan è oggetto di critica anche per la non sufficientemente esaustiva, precisa e comprensibile definizione delle situazioni personali oggetto della disciplina, e cioè "sesso”, “genere”, “orientamento sessuale”, “identità di genere” (manca la disabilità, essendo definita dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, resa esecutiva con l. n. 18/2009).
Tali situazioni sono state meglio precisate a seguito delle osservazioni della Commissione Affari Costituzionali e del Comitato per la legislazione, ai fini del rispetto del principio di tassatività e, quindi, di una più puntuale determinazione delle fattispecie. La definizione delle diverse condizioni protette rappresenta il tentativo, da un lato, di identificarle in base a criteri utilizzabili dal giudice nell’applicazione delle relative norme; dall’altro lato, di non cristallizzarle, così che ne possa comunque essere ricompreso l’evolversi e il vario atteggiarsi. Indubbio è che alcune di esse presentino margini di sovrapposizione, perché ciò è nella realtà delle cose. Le definizioni suddette, peraltro, sono il portato di anni di pronunce giurisprudenziali su temi connessi. Secondo qualcuno, esse non sarebbero immediatamente comprensibili dal cittadino comune, come invece dev’essere la legge perché chiunque possa sempre conoscere quali condotte sono sanzionabili. Questa obiezione pare sottendere un disagio non tanto per la complessità della formulazione della norma, quanto invece per la realtà sottostante, che è complessa, in quanto sfaccettata, e ciò si riflette nell’enunciato normativo. Tale realtà può sfuggire a chi non rivolga la necessaria attenzione all’evoluzione sociale o non disponga degli strumenti per comprenderla - e tali strumenti vanno di certo rafforzati - ma le carenze individuali non possono tradursi in una critica alla legge. Secondo qualcun altro invece la normativa, per un verso, lascerebbe fuori dalla tutela alcune situazioni parimenti meritevoli di particolare attenzione; per altro verso, realizzerebbe una sorta di discriminazione all’incontrario nei riguardi di chi non sia ricompreso nelle situazioni protette. Circa il primo punto, la scelta di garantire alcune condizioni personali, anziché altre, dipende da valutazioni del legislatore il quale può prevedere trattamenti differenziati sulla base di una ragionevole e adeguata motivazione. Circa il secondo punto, la maggiore garanzia offerta dalla nuova normativa per motivi di "sesso”, “genere”, “orientamento sessuale” ecc. si attiva in caso di violenza o discriminazione qualunque sia il sesso, il genere, l’orientamento sessuale ecc., quindi la tutela è pari per chiunque.
Infine, è vero che servono interventi di tipo culturale per sviluppare maggiore sensibilità e strumenti di comprensione riguardo a istanze di inclusione, e la cultura non si cambia per legge. Compito della legge, tuttavia, è anche quello di riconoscere la cultura che cambia, “nell’alveo di una civiltà giuridica in evoluzione, sempre più attenta ai valori, di libertà e dignità, della persona umana” (Corte Costituzionale, sent. n. 161/1985).
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