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DDL Zan, perché il concetto di identità di genere è importante per la comunità transgender e chi vorrebbe rimuoverlo

26 Maggio 2021 7 min lettura

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DDL Zan, perché il concetto di identità di genere è importante per la comunità transgender e chi vorrebbe rimuoverlo

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di Nathan Bonnì (Progetto Genderqueer)

Il dibattito sulla proposta di legge Zan, già acceso nel periodo in cui è stata discussa alla Camera, è diventato infuocato da quando è in programma la sua discussione al Senato, rendendone più vicina l’approvazione.

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A parte la totale contrarietà delle destre reazionarie e dei cattolici integralisti, il principale punto di discussione, nel mondo che si autopropone come progressista, è il concetto di "Identità di Genere". Per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dal bisogno di compiere un percorso di transizione medicalizzata.

Il cosiddetto movimento Gender Critical, principale oppositore della comunità transgender, ha messo insieme anime che su altri temi sono divise: uomini conservatori, gruppi femminili ad ispirazione cattolica, sentinelle in piedi e “no gender”, gruppi separatisti lesbici, personalità femminili storicamente di sinistra, e alcune frange del femminismo trans-escludente.

Le richieste di questi gruppi vanno dalla non approvazione della legge alla richiesta di emendamento, in modo che venga rimosso il concetto di identità di genere e venga sostituito con quello di “transessualità”.

Per chi non conosce da vicino la comunità transgender, le sue istanze e le sue problematiche, questo cambiamento può sembrare indolore, ma è importante fare una panoramica sul perché questo cambiamento sarebbe problematico, dal punto di vista simbolico, ma anche da quello pratico.

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La comunità transgender ha ottenuto, nel lontano 1982, una legge (la 164/82) che è stata oggetto di lunga contrattazione e che, anche se all’avanguardia per l’epoca, già escludeva molte soggettività sotto l’ombrello transgender, creando una “sanatoria” per chi, avendo praticato chirurgia genitale all’estero, poteva finalmente avere la “rettificazione di attribuzione di sesso”.

Tuttavia, rimaneva esclusa dalla possibilità di cambiare i documenti una gran parte della comunità transgender, quella composta da persone in percorsi non binari o non medicalizzati.

Il binarismo di quella legge ne rappresenta la sua forza e debolezza: se chi poteva accedervi otteneva, nel bene e nel male, un riconoscimento completo come persona del sesso corrispondente al suo genere d’elezione (quindi una donna transgender veniva riconosciuta come persona di sesso femminile, come una qualsiasi donna biologicamente femmina e viceversa: un uomo transgender riconosciuto maschio alla pari degli uomini nati maschi), tante erano le soggettività escluse dall’iter: non solo quelle già citate, ma anche altre, escluse per ragioni anche solo interpretative (le persone transgender non eterosessuali dovevano subire ostacoli nel percorso, così come chi non desiderava una medicalizzazione canonica, e chi presentava identità o ruoli di genere non binari).

Le sentenze della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale hanno in parte migliorato la situazione, proponendo interpretazioni della legge che permette il cambiamento dei documenti a chi fa “semplicemente” un percorso ormonale, e gli enti e i consultori preposti all’assistenza durante il percorso alle persone transgender hanno migliorato i protocolli, mostrandosi maggiormente accoglienti verso persone transgender omo e bisessuali e verso persone meno aderenti agli stereotipi di genere legati al genere d’elezione, ma ancora adesso l’Italia rimane fanalino di coda per quanto riguarda i diritti delle persone transgender e non binary.

Limitare la tutela da atti di discriminazione alle sole persone all’interno dell’iter della legge 164 significa escludere una grande parte di persone da quella tutela.

La propaganda gender critical propone una dicotomia tra la persona “transessuale” (termine che la comunità transgender ha deprecato, perché di origine psichiatrica), buona, “realmente sofferente di disforia”, e che conduce un percorso il più possibile binario e medicalizzato (tramite la legge 164), e la persona “che si spaccia per transgender” solo per ingannare la società.

In realtà, questa linea di demarcazione tra “vere” e “finte” persone transgender non esiste. Sempre più attivist* transgender, che a suo tempo hanno fatto un percorso canonico, rifiutano politicamente la parola transessuale e sostengono la libertà di genere al di fuori delle rigide categorie identitarie maschile e femminile e a qualsivoglia obbligo di body modification (Acet - Associazione per la Cultura e l’Etica Transgender, Circolo Culturale TBIGL Rizzo Lari Milano, ex Harvey Milk, Antonia Monopoli, Gruppo Trans Bologna)

Inoltre, anche il concetto di disforia è ormai obsoleto.

«Transessualità, transgenerità e non conformità/incongruenza di genere - spiega Laura Caruso, attivista trangender  - non sono più patologie mentali per l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS). Infatti, durante la 72° Assemblea Mondiale della Sanità (WHA), in corso dal 20-28 maggio 2019, l’OMS ha ufficialmente adottato l’undicesima revisione della classificazione statistica internazionale delle malattie e dei problemi sanitari connessi (Icd-11), che entrerà in vigore il 1° gennaio 2022. A partire da tale data, l'incongruenza di genere rientrerà tra le condizioni della salute delle persona».

Attualmente al di fuori della legge 164/82 (e che quindi rimarrebbero al di fuori delle tutele della legge Zan, se passasse l’emendamento del movimento Gender Critical) per i più svariati motivi ci sono:

  • Persone transgender giovanissime, che, seppur interessate ad un percorso canonico, ancora non hanno accesso al percorso, ma che sono oggetto, a causa dell’aspetto fisico e dei comportamenti, a bullismo. Le linee di orientamento del Miur contro bullismo e cyberbullismo, includono le discriminazioni per identità di genere
  • Persone transgender che hanno forti vincoli che impediscono di iniziare un percorso: persone che verrebbero buttate fuori di casa, o perderebbero il lavoro se iniziassero una transizione.
  • Persone che non possono iniziare, per ragioni personali o di salute
  • Persone che, a causa del binarismo degli operatori addetti, sono scartate dalla possibilità del percorso per ragioni legate a stereotipi di genere o al loro orientamento sessuale
  • Persone in lista per entrare nell’iter canonico, ma in attesa da anni per via della farraginosità del percorso.
  • Persone che non sentono l’esigenza di prendere ormoni e/o che hanno un’identità di genere non binaria.

Tutte queste persone, tutt’altro che poco visibili a chi vuole praticare bullismo, mobbing, discriminazione, esclusione, violenza fisica, verbale, quanto non sessuale, sono spesso maggiormente esposte di chi è all’interno di un percorso canonico, e le proposte di emendamento della corrente Gender Critical le lascerebbero esposte a questi rischi.

Oltre alle questioni pratiche appena esposte, ci sono tante altre questioni che chiamare simboliche sarebbe riduttivo.

  • Sostituire “identità di genere” con “transessualità” (oltre al fatto che, come già detto, la comunità internazionale ha deprecato questo termine scegliendo transgenerità/transgenderismo) creerebbe un’asimmetria con la dicitura di orientamento sessuale: perché mai dovrebbe essere usata una logica diversa per persone LGB rispetto alle persone T?
    Anche volessimo affiancare “omosessualità” a “transessualità”, per eliminare questa asimmetria, va tenuto presente che “omosessualità” comprende solo persone omosessuali, mentre orientamento sessuale comprende tutte le sfumature, come la pansessualità  e la bisessualità (quindi tutela, ad esempio, dalla bifobia, che non sempre proviene da persone eterosessuali), e paradossalmente tutelerebbe anche un etero discriminato, se un giorno fosse necessaria questa tutela. 
  • Se venissero sostituiti i termini “omosessuale” e “transessuale” ad “orientamento sessuale” e “identità di genere”, verrebbe richiesta una certificazione esterna alle persone transgender (una perizia, una medicalizzazione), mentre la persona omosessuale procederebbe con un’autodichiarazione, creando una grave asimmetria. È ridicolo che una cosa personale come il “coming out” sia mediata da una conferma esterna di uno “specialista” esterno alla comunità LGBT.
  • Parlare di discriminazioni per “identità di genere” e “orientamento sessuale” pone l’accento sul movente e non su motivazioni legate all’identità presunta della vittima, che potrebbe non essere LGBT, ma essere percepita tale, o potrebbe non voler rivelare la sua condizione in fase di denuncia (che, altrimenti, diventerebbe un interrogatorio per la vittima, non per il colpevole), e potrebbe rinunciare alla denuncia se costretta ad un simile stress.
    Del resto, anche la legge Mancino sanziona il razzismo di un’azione il cui movente era l’etnia “presunta” della vittima. I cambiamenti richiesti dagli emendamenti, invece, eliminano questo approccio virtuoso, togliendo l’accento sul colpevole e spostandolo sulla vittima, costretta a dover “dimostrare” di essere LGBT, con l’intervento anche di un certificatore esterno, nel caso di una vittima transgender. 

Il movimento Gender Critical cita tante questioni non pertinenti alla Legge Zan, come ad esempio il timore per una riforma della legge 164/82 che includa altre soggettività, e diffonde allarmismo rispetto alla paura che “chiunque” possa cambiare i propri documenti senza che un percorso ormonale imposto ne “certifichi” la reale intenzione.

Non è necessario entrare in questa polemica fuori tema, perché la legge Zan offre solo una tutela contro discriminazioni e violenza, e non può in alcun modo estendere il cambio documento alle soggettività escluse, nonostante questa sia una delle istanze in agenda della comunità transgender, ma che prevederà, in futuro, un dibattito, una contrattazione con altri movimenti, in modo che all’eliminazione dell’imposizione di trattamenti ormonali non richiesti corrisponda una regolamentazione, presente già in altri paesi che hanno eliminato l’obbligo della medicalizzazione per il cambio documenti.

In Irlanda, ad esempio, come fa presente l’attivista Peter Herold, si deve fare una “statutory declaration” (una dichiarazione davanti a un notaio, con penali per dichiarazioni infedeli) in cui si afferma di avere la convinta intenzione (settled and solemn intention) di vivere per il resto della vita nel genere scelto, capire le conseguenze della decisione, fare la dichiarazione delle tua propria libera volontà. 

L’esempio irlandese va solo inteso come uno dei tanti possibili esiti di una mediazione politica tra la comunità transgender, che chiede la libertà di genere, e le soggettività che chiedono una regolamentazione.

Se queste precisazioni e regolamentazioni sono necessarie per un processo impegnativo e definitivo come il cambio dei documenti, non ha senso che la tutela da aggressioni e discriminazioni richieda requisiti formali per accedere, perché il bullismo, la discriminazione, il mobbing, non guardano tessere e diplomi.

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Immagine in anteprima: Roberto Gordo Saez (R0b3rt0), CC BY 3.0, via Wikimedia Commons

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