La ‘dark participation’ e come superare la tossicità del gaming online
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Secondo Thorsten Quandt, professore di Scienze della Comunicazione presso l’Università di Munster, la dark participation si riferisce a qualsiasi comportamento deviante avvenga online. All’interno di questo fenomeno è in aumento la “tossicità” nel mondo del gaming, soprattutto online. La dark participation riguarda una sola parte della community del gaming. È importante portare alla luce questi argomenti nel tentativo di arginare il problema, ma lo è altrettanto non gravare sull’intera popolazione dei videogiocatori, già stigmatizzati dai tanti stereotipi.
La cultura tossica nel gaming si manifesta attraverso molestie online di vario grado, aggravate dal rifiuto di assumersene la responsabilità. La tossicità nel gaming si può esprimere tanto con le parole quanto con le azioni.
Sono espressione di tossicità verbale: il trash talking (linguaggio squalificante e scurrile); il griefing (atti distruttivi intenzionali ai danni di ciò che un altro giocatore ha costruito); molestie sessuali (insulti basati sul genere), hate speech (discorsi d’odio ad esempio a sfondo religioso o razziale) e minacce di violenza o morte.
Sono esempi di azioni tossiche: il contrary play (giocare intralciando l’obiettivo comune), il cheating (barare), il doxxing (condivisione pubblica di informazioni personali altrui) e lo swatting (inviare servizi di emergenza all’indirizzo di qualcuno a sua insaputa).
La natura tossica di un comportamento va però sempre valutata nel contesto in cui avviene, per capire se si tratta davvero di un abuso. Il trash talking può ad esempio essere considerato normale in alcune community multiplayer online.
Rachel Kowert - direttore della ricerca presso l’organizzazione non-profit Take This che si occupa di salute mentale tra i videogiocatori e nella game industry - descrive i fattori alla base della tossicità nel gaming, la prevalenza del fenomeno e le conseguenze.
Queste forme di ostilità sono più diffuse tra chi si riconosce come “gamer”. Mentre in italiano utilizziamo il termine unico “videogiocatori”, in inglese la community si divide in players, cioè tutti i giocatori anche occasionali che non identificano se stessi come videogiocatori (per scarsa frequenza dell’attività e tipo di titoli giocati, ad es. giochi mobile per cellulari) e gamers cioè i videogiocatori che costruiscono invece la propria identità intorno al gaming. Non tutti i gamer adottano però un comportamento tossico.
Sentirsi un gamer vuol dire essere parte di un gruppo verso cui si prova un forte sentimento di appartenenza. Come in qualsiasi gruppo, si condividono interessi e valori e si rispettano le regole comuni. Solamente chi appartiene al gruppo può decidere chi può farne parte e chi no. Chi assume questo ruolo decisionale è mosso da un senso di protezione di uno spazio sociale che sente suo e che teme venga minacciato dagli outsiders. Nati per un pubblico di giovani maschi bianchi che giocavano titoli hardcore, cioè un genere che richiede molto tempo e dedizione, i video games non sono però più un fenomeno di nicchia. Il profilo dei gamer si sta trasformando grazie alle diversità che i videogiocatori portano con sé e non sempre la community si comporta in modo accogliente ed inclusivo con i nuovi arrivati.
Fattori che facilitano la tossicità nel gaming online
Kowert cita come fattori che possono facilitare i comportamenti tossici nel gaming: l’ambiente, la personalità e l’esperienza di gioco.
I membri della community possono apprendere i comportamenti tossici dall’ambiente se il gruppo normalizza le molestie come tollerabili, facilitando tra l’altro l’emulazione. Quando si agisce in gruppo, inoltre i singoli non si sentono direttamente responsabili. La causa principale di tossicità su internet sembra comunque essere l’effetto disinibizione online. Invisibilità e anonimato fanno sentire le persone libere di agire e non sanzionabili.
Anche caratteristiche di personalità quali estroversione, senso di inferiorità, depressione e sadismo sembrano associate ad azioni tossiche. Mentre i più giovani sottovalutano le manifestazioni di dark participation, considerandole normali, sono gli adulti a commettere più molestie (Mattinen e Macey, 2018). Cosa spinge a comportarsi così? Le motivazioni principali sono: attacco, ricerca di sensazione e ricerca di interazione.
Alcuni fattori presenti nel gioco - come lo scarto tra le abilità dei giocatori e la sfida (Cook, 2019) oppure un alto livello di competizione (Zubek e Khoo, 2002) - possono facilitare comportamenti tossici. Se è vero che il design può cercare di progettare con maggiore consapevolezza in mente, resta il fatto che sia i singoli giocatori che la community devono tenere un comportamento rispettoso e responsabile.
Prevalenza e impatto della cultura tossica nel gaming
La percentuale dei videogiocatori vittima di molestie nel gaming multiplayer varia dal 50% (Bryter, 2020) all’81% (Anti Defamation League, 2020). Le cause delle molestie sono principalmente: razza/appartenenza etnica, religione, disabilità, genere, orientamento sessuale. Le videogiocatrici sarebbero più esposte a molestie a sfondo sessuale e comportamenti di esclusione.
Una percentuale non trascurabile di gamers considera la tossicità una parte del gaming online, esprimendo così un senso di esasperazione e impotenza. I comportamenti tossici nel gaming online posso avere effetti dannosi sulla salute mentale non solo delle vittime ma anche dei testimoni scatenando ansia, depressione e pensieri suicidari.
Nell’estate 2014 su Twitter si diffuse una campagna di molestie e minacce online verso giornaliste, designer, studiose e critiche di video games, accompagnate dall’hashtag #GamerGate (GG). Target principali della campagna GamerGate furono le sviluppatrici Zoe Quinn e Brianna Wu e la critica Anita Sarkeesian. Questi attacchi contro le donne nel mondo del gaming continuarono per anni.
Il movimento GG era formato da singoli individui non formalmente organizzati. Il loro comportamento non seguiva un piano, ma le azioni di alcuni leader difficilmente identificabili a causa dell’anonimato online (Mortensen, 2016).
Non dobbiamo andare tanto lontano nello spazio e nel tempo per ritrovare episodi simili in Italia. Nel gennaio 2021, Stefania Sperandio giornalista videoludica e caporedattrice di Spaziogames.it pubblica una recensione del videogioco Hitman 3. I commenti sui social non tardano ad arrivare, mettendo in dubbio che una femmina possa parlare di videogiochi e dubitando che una donna possa far parte dei professionisti del settore, figurarsi come caporedattrice!
C’è un elefante nella stanza che nessuno qui vuole nascondere. Il livello di tossicità contro le donne nel gaming è elevato, ma poco distante c’è un altro membro del branco che è sempre più bersaglio di attacchi tossici. Stiamo parlando degli stessi sviluppatori di videogiochi, sempre più spesso attaccati dai destinatari del proprio lavoro creativo. Questa forma di molestie sta facendo sentire i suoi effetti. Nel migliore dei casi le polemiche distraggono dal lavoro, ma la loro persistenza e la brutalità dei comportamenti tossici cui sono esposti gli sviluppatori, può arrivare a comprometterne la salute mentale, provocando problemi di ansia, depressione o disturbo post-traumatico da stress, tanto da spingere alcuni di loro a dimettersi dal posto di lavoro.
Nathan Fisk, docente presso di Dipartimento di Scienze e Tecnologie del Politecnico Rensselaer in una conversazione con Polygon ha affermato che “i fan sono investiti emotivamente nelle storie e nei mondi creati dagli sviluppatori e alcune decisioni di design possono essere vissute come minacce a quelle storie e a quei mondi.” Quando le scelte di produzione vanno in una direzione differente dalle aspettative del pubblico, le molestie rappresentano secondo il professore un tentativo di reclamare potere nei confronti degli sviluppatori, che ne sono i detentori.
Gli sviluppatori hanno ormai profili social personali da cui spesso interagiscono con la community a titolo informale. Il pubblico dei videogiocatori approfitta di questa accessibilità e invade questi spazi, attribuendo impropriamente ai game developers il ruolo ufficiale di portavoce all’interno degli studi e dell’industria.
Nel 2010, Capcom svelò la nuova versione di “DmC: Devil May Cry” - commissionata allo studio inglese Ninja Theory - in cui il protagonista Dante cambiava totalmente aspetto rispetto agli episodi precedenti. Più giovane, scontroso e con un nuovo taglio di capelli scuri, il protagonista Dante non assomigliava per nulla alla versione originale dal taglio a caschetto color argento. Il publisher aveva intenzionalmente richiesto allo studio Ninja Theory un revamp totale di gameplay, stile artistico e storia. Senza aver visto un solo minuto di gameplay, la risposta del pubblico fu rapida e ostile. Tameem Antoniades, co-fondatore e direttore artistico dello studio, percepì da subito le reazioni al vetriolo dei giocatori che continuarono per i due anni successivi, durante i quali i membri del team furono tempestati di minacce di morte. Le polemiche del pubblico finirono per incidere significativamente sulle vendite, che non soddisfarono le aspettative.
Nel 2020, Daniel Klein, senior game designer per Respawn Entertainment ha dichiarato di essere riluttante a rispondere ai fans sui social media a causa dell’alto livello di tossicità direttamente sperimentato. “La raffica costante di negatività e le persone che ti dicono che fai schifo nel tuo lavoro, chiedendoti di dimetterti, ti logorerà. Le persone a volte hanno un grave trauma psicologico quando si sentono sotto pressione per essere esposti a tutta questa negatività”.
Sempre nel 2020, anche il pluripremiato “The Last of Us 2” dello studio Naughty Dog è stato oggetto di molteplici attacchi tossici da parte del pubblico. All’uscita del gioco, una parte dei giocatori non ha apprezzato l’orientamento omosessuale di Ellie, protagonista del nuovo episodio, ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso della tossicità è il personaggio di Abby, antagonista femminile dal fisico forte e muscolare. The Last Of Us presenta dunque ben due rappresentazioni di femminilità distanti dall’immagine della donna proposta sinora dai media. Gli attacchi sono stati diretti principalmente a Laura Bailey, attrice che ha doppiato il personaggio di Abby e ha ricevuto minacce di morte molto cruente dirette a lei e al figlio da parte dei fan della saga. (Va detto, che l’account Twitter dell’attrice è stato inondato da manifestazioni di supporto di altri videogiocatori e di altri colleghi.) Perché tanto astio? Abby per vendetta uccide Joel, personaggio molto amato dal pubblico. I fans sembrano però non distinguere tra Abby e Laura Bailey, scatenando sull’attrice la delusione per le aspettative infrante. Il gioco inoltre mette i giocatori non solo nei panni del personaggio amato di Ellie, ma anche in quelli scomodi di Abby, di cui pian piano si conoscerà la storia, stabilendo maggiore empatia con lei. Il risultato è un conflitto emotivo, che alcuni hanno mostrato di non reggere.
Anche il Direttore Creativo Neil Druckmann è stato coinvolto e travolto da insulti a sfondo antisemita, commenti transfobici e minacce di morte. Lo studio ha pubblicamente condannato le minacce ricevute dai membri del team: “Benché le discussioni critiche sono benvenute condanniamo ogni forma di molestia o minaccia diretta al team di sviluppo e al cast di attori” e ancora “dobbiamo lavorare insieme per sradicare questi comportamenti e mantenere una discussione costruttiva e comprensiva.”
A Dicembre 2020, viene pubblicato il video game Cyberpunk 2077, ma neanche l’atmosfera prenatalizia placa l’orda tossica. Le molestie erano cominciate ancor prima, quando lo studio di produzione CD Project RED comunicò che l’uscita del gioco sarebbe stata posticipata e lo sviluppatore Andrzej Zawadzki ricevette messaggi d’odio e minacce di morte dai fans.
Al rilascio del gioco, altro veleno si è scatenato per i difetti presenti nelle versioni destinate ad alcuni dispositivi. Altri episodi hanno investito la vice-caporedattrice Liana Ruppert, che ha ricevuto dozzine di messaggi di finto supporto in cui si nascondevano in realtà stimoli fotosensibili. Il motivo? La Ruppert soffre di epilessia e aveva scritto un articolo avvertendo i videogiocatori del rischio di crisi epilettiche scatenate da alcuni giochi di luce e animazioni, dopo aver avuto più attacchi durante il gioco.
Videogiocatori e sviluppatori: una relazione ambivalente
La passione per il gaming, lega i videogiocatori agli sviluppatori. I primi sono in una posizione dipendente dagli ultimi, perché hanno bisogno che questi creino i videogiochi per poter giocare. Gli sviluppatori sono al contrario in una posizione di vantaggio rispetto ai primi, perché hanno potere creativo e controllo sul processo di produzione, rispetto ai consumatori.
Durante l’esperienza di gioco, i videogiocatori sperimentano un senso di connessione con il video game e attraverso di esso con altri giocatori. Quando questa connessione si interrompe improvvisamente, ad es. per la presenza di bug nel gioco oppure perché le aspettative non sono soddisfatte, i videogiocatori scaricano la frustrazione sui creatori. Questi sono oggi facilmente accessibili grazie ai social media e dunque esposti al pubblico. In tutto ciò, non si considera sufficientemente che gli sviluppatori non sono onnipotenti e anche la loro libertà creativa si esprime entro limiti editoriali. Ciò nonostante, gli attacchi investono principalmente gli sviluppatori, mentre i publisher sono solitamente meno coinvolti. Gli scambi tossici avvengono a livello informale, sugli account social privati degli sviluppatori, che non sono però investiti ufficialmente del ruolo di rappresentanti dallo studio o dal publisher.
La Dr. Natalie Coyle prova a interpretare la tossicità nel gaming attraverso la psicologia del mondo del marketing. I videogiocatori si sentono consumatori fedeli e quindi speciali, degni di attenzione. Sentono di sostenere economicamente l’azienda con i loro acquisti e in diritto perciò di avanzare richieste. Quando i nostri bisogni vengono ripetutamente ignorati possono scatenare un senso di esclusione cronico, di fronte a cui alcune persone reagiscono con maggiore insistenza per ricevere attenzione e ascolto e i social media sono porte facilmente accessibili cui bussare.
La Dr. Coyle chiama in causa anche la responsabilità delle aziende, che spesso cercano di affiliare i clienti richiamando l’appartenenza ad un’unica famiglia. Quando la relazione tra consumatore e produttore passa da asimmetrica a “famigliare” dunque paritaria, lascia più spazio alle aspettative, ad esempio di ricevere risposta ad ogni commento.
Come superare la tossicità nel gaming online?
La tossicità nel gaming non può prescindere dal riconoscimento dell’esistenza di un problema all’interno di questa cultura, che rientra sì nella dark participation, ma ha connotati specifici rispetto ad esempio al cyberbullismo.
Gli attori coinvolti sono molteplici: industria, stampa, community e videogiocatori. La soluzione richiede un’assunzione di responsabilità comune, al fine di progettare interventi a livello di prevenzione degli abusi e promozione di relazioni interpersonali sane all’interno della community.
Le aziende possono intervenire sul design dei giochi e le relative community, con l’obiettivo di prevenire e contenere la tossicità, ma anche promuovere comportamenti solidali ed empatia tra i videogiocatori.
I laboratori di ricerca delle aziende potrebbero sviluppare sistemi di valutazione della salute della community. Con che frequenza si manifestano comportamenti molesti e in che modo? Chi viene colpito e come? Questi dati potrebbero essere integrati nelle linee guida della community e nei sistemi di reporting e penalizzazione. I lavoratori delle aziende che si confrontano con il pubblico sui social media dovrebbero essere supportati e tutelati contro i comportamenti lesivi da parte del pubblico. La game industry dovrebbe tutelare i lavoratori esposti e comunicare chiaramente al pubblico a chi rivolgersi in caso di necessità e attraverso quali canali.
Non mancano le organizzazioni in grado di supportare la game industry per contrastare la tossicità. Anti Defamation League (ADL) è un movimento contro l’odio online con un suo centro di ricerca situato nella Silicon Valley. Obiettivo delle analisi è migliorare la qualità della cittadinanza digitale, soprattutto tra i giovani. ADL sviluppa soluzioni costruttive per le piattaforme tecnologiche.
Fair Play Alliance è una coalizione globale di cui fanno parte lavoratori della game industry e compagnie al fine di sviluppare giochi di qualità. L’organizzazione consente ai partecipanti di condividere buone pratiche per interazioni rispettose tra i giocatori che fanno parte della community.
Ethicalgames.org è infine un’iniziativa più recente che coinvolge professionisti della game industry e rappresentanti del mondo accademico per migliorare l’etica nei video games. L’obiettivo è quello di scrivere un codice etico che stabilisca delle linee guida per la game industry. Il codice è focalizzato sul benessere di videogiocatori, community e lavoratori dell’industria.
Anche il ruolo della stampa, tradizionale o digitale che sia, è cruciale. Conoscenza e consapevolezza del problema e della sua complessità sono sempre il punto di partenza per non banalizzare. I toni della comunicazione devono tenere conto che possono incidere sulla parte del pubblico più facilmente infiammabile e determinare conseguenze a lungo raggio. E’ sempre bene chiedersi se le nostre parole possono scatenare odio in chi ha questo tipo di fragilità.
Ognuno può fare la sua parte. Anche i videogiocatori possono contribuire a migliorare l’immagine del gaming rispetto alla tossicità, partendo da conoscenza e comprensione delle dinamiche psicologiche che entrano in gioco negli ambienti digitali, per dar loro la giusta definizione e ridurre l’atteggiamento di normalizzazione. Sempre più organizzazioni mettono in piedi interventi di sostegno per le vittime di abusi online e percorsi educativi che forniscono al pubblico generale gli strumenti per migliorare il clima della community.
Alcune delle vittime del #GamerGate hanno messo in piedi iniziative per contrastare la cultura tossica nel gaming. Si tratta di servizi di emergenza gratuiti che offrono alle vittime di molestie online il supporto di esperti. Il sostegno è rivolto a videogiocatori, sviluppatori, streamer e proplayer. La prima iniziativa è “Crash Override” fondata dalla sviluppatrice Zoe Quinn, mentre “The Games and Online Harassment Hotline” è un servizio nato più recentemente, che vede come capofila l’attivista Anita Sarkeesian.
Raising Good Gamers è invece un’iniziativa più orientata alla prevenzione ed alla promozione del benessere, creata per catalizzare un cambiamento positivo nella cultura del gaming online tra i giovani. Designer, tecnologi, attivisti, ricercatori, finanziatori, genitori ed educatori collaborano per aiutare i giovani a sviluppare capacità socio-emotive che rendano il mondo del gaming più abitabile.
I video games rappresentano una passione per ben un terzo della popolazione globale. Tra il popolo dei videgiocatori, alcuni manifestano comportamenti d’abuso ai danni di altri membri della stessa comunità. Il fenomeno della tossicità nel gaming soprattutto online, rientra nella definizione a ombrello di dark participation, ma ha dei connotati specifici legati alla cultura del gaming. Nata nel contesto storico e sociale degli anni 70’, la cultura del gaming è cresciuta e per sopravvivere è oggi necessario fare un salto evolutivo che comporta l’assunzione di maggiori responsabilità per conquistarsi una meritata maturità. Vogliamo un ambiente digitale più accogliente e oggi abbiamo gli strumenti per mettere in atto questo cambiamento. La call to action non risparmia nessuno: game industry, media, community e videogiocatori.
Foto anteprima Kelly Hunter sotto licenza CC BY 2.0