Damiano Tommasi vince a Verona: cinque riflessioni
5 min lettura1. Le roccaforti non esistono
Verona è stata governata dal centrodestra (più destra che centro, a dir la verità) per 20 anni ininterrotti. Le cronache cittadine su questo ventennio hanno rappresentato una comunità (politica, ma anche sportiva) nostalgica di tempi e modalità per cui non bisognerebbe provare nostalgia, con votazioni del consiglio comunale caratterizzate da un sistematico oscurantismo sui temi dei diritti e assai più bendisposta nei confronti di modelli poco democratici. Tutto questo, sia chiaro, è accaduto davvero; non si è trattato di una esagerazione giornalistica. Ma la persistenza di questo racconto ha lasciato intendere che Verona non avrebbe mai avuto la forza di cambiare direzione. E invece è accaduto, anche a causa di una serie di circostanze peculiari (di cui parlerò più avanti). Così come non esistono più le “Regioni rosse” nel Centro Italia (ce lo dice da tempo l’Istituto Cattaneo; ancora ieri Lucca è passata al centrodestra), allo stesso modo non esistono a priori le roccaforti “nere”, e questa campagna elettorale lo ha dimostrato. Oggi ogni territorio è contendibile, soprattutto a livello di voto amministrativo, e nessuna campagna elettorale è persa in partenza per ragioni di fedeltà ideologica.
2. Allo stesso tempo, non basta una singola elezione per modificare un ambiente
Se è vero che le roccaforti elettorali non esistono più in nessuna parte d’Italia e dunque non ci sono più baluardi politici inespugnabili, sarebbe ingenuo pensare che la vittoria delle elezioni da parte di Damiano Tommasi possa azzerare (almeno) venti anni di storia con un colpo di bacchetta magica. La curva della squadra di calcio Hellas Verona difficilmente smetterà di essere filo-hitleriana, tra l’altro nel consenso pressoché indisturbato dell’opinione pubblica locale, giusto per citare un esempio eclatante (sia per modalità sia per continuità temporale). La vittoria elettorale di Damiano Tommasi va dunque presa per quello che è: l’affermazione della persona giusta, col profilo giusto, nel momento giusto. È tantissimo, ma è solo l’inizio di un percorso che potrebbe essere più accidentato di ciò che gli entusiasmi di queste ore lascerebbero presagire.
3. Il momento giusto: la tempesta perfetta nel centrodestra
Il senno di poi è nemico delle analisi sui flussi elettorali. Non si può avere infatti nessuna certezza che il centrodestra unito avrebbe vinto le elezioni, ma non si può nemmeno ignorare che le percentuali assommate del sindaco uscente Federico Sboarina e dell’ex sindaco Flavio Tosi, che hanno corso separatamente al primo turno, avrebbero restituito un 56.6% totale. Non c’è possibilità di affermare che i voti conseguiti da Tosi al primo turno sarebbero stati automaticamente appannaggio di Sboarina, se quest’ultimo fosse stato l’unico candidato di centrodestra: i dati del ballottaggio ci dicono tra le altre cose che solo una minima parte degli elettori di Tosi al primo turno hanno votato Sboarina al secondo. Buona parte degli elettori di Tosi hanno preferito astenersi al ballottaggio, il che lascerebbe pensare che non avrebbero votato Sboarina anche se fosse stata l’unica opzione possibile nel centrodestra. In ogni caso questa spaccatura ha restituito un quadro di enorme fragilità politica nel campo della ex-maggioranza a Verona, e ha consentito a Tommasi di arrivare al ballottaggio da primo classificato, elemento psicologicamente determinante perché restituisce entusiasmo a un’area politica che considerava la partita persa in partenza. Da questo punto di vista, le elezioni di Verona del 2022 ricordano molto le amministrative di Milano nel 2011, considerate senza storia fino a poche settimane dal voto ma in cui la superfavorita Letizia Moratti, sindaca in carica come lo era Sboarina, ha dilapidato il proprio vantaggio consentendo agli elettori di centrosinistra di immaginare un esito diverso da quello che tutti pronosticavano. Quell’entusiasmo, tra l’altro, si trasforma spesso in mobilitazione spontanea e quindi in una crescente sensazione di forza da parte del candidato che fino a poco prima era considerato un outsider. Questi aspetti, metà di natura organizzativa e metà psicologica, contribuiscono a far subentrare un pensiero che può risultare determinante in un ballottaggio dall’esito incerto e comunque assai diverso rispetto a ciò che ci si poteva aspettare, soprattutto a Verona: Tommasi è diventato via via sempre più votabile anche perché ha dato la sensazione di poter davvero vincere le elezioni (il cosiddetto effetto bandwagon, da decenni dimostrato in comunicazione elettorale: c’è una maggiore predisposizione a votare chi ha maggiori probabilità di vittoria). Ricapitolando: forse Tommasi alla fine avrebbe vinto comunque, ma il fatto di essere al ballottaggio in testa a causa della separazione del campo politico degli avversari ha rappresentato un vantaggio innegabile sulla strada del successo.
4. La persona giusta contro la persona sbagliata
Il 2022 è il terzo anno consecutivo in cui gli amministratori locali in carica hanno ottenuto altissimi tassi percentuali di riconferma, dopo anni (coincisi pressappoco con la stagione d’oro del MoVimento5Stelle) in cui essere essere sindaci o presidenti di regione uscenti non rappresentava più un particolare vantaggio – a tal proposito, su tutte va ricordata l’affermazione di Chiara Appendino contro Piero Fassino a Torino nel 2016 come emblema della ‘fase precedente’. Due settimane fa i sindaci in carica di Genova, L’Aquila, Taranto e Padova hanno stravinto al primo turno. Se Sboarina si è fermato al 32% ed è arrivato al ballottaggio da inseguitore, è perché evidentemente non ha convinto la stragrande maggioranza dei cittadini veronesi. E questo è un elemento che prescinde da Damiano Tommasi. Lo spazio capitalizzato dal candidato di centrosinistra è dunque stato creato non tanto e non solo dalla spaccatura interna al centrodestra ma piuttosto dall’inefficacia del sindaco in carica. Forse la sconfitta (e anche la scissione) dell’area conservatrice sarebbero state scongiurate indicando un’altra candidatura, in significativa discontinuità con quella di Sboarina. È tra l’altro inverosimile che lo scarso consenso di Sboarina sia un fulmine a ciel sereno: è possibile (come accade prima di qualsiasi grande campagna elettorale) che sia stato realizzato un sondaggio sul gradimento dell’amministrazione uscente, ma probabilmente si è deciso di andare in ogni caso avanti nella convinzione che perdere sarebbe stato impossibile vista la tradizione politica di Verona negli ultimi 20 anni. Ma, come detto in premessa, le roccaforti politiche non esistono più.
5. Una campagna elettorale sobria non è per forza una campagna elettorale ‘artigianale’: al contrario, può essere una scelta raffinata dal punto di vista strategico
In queste ore alcune scelte di Damiano Tommasi sono oggetto di analisi nel tentativo di ricostruire il ruolo della strategia di comunicazione dietro l’affermazione politica. Davide Maria De Luca, su Domani, ha per esempio sottolineato la scelta dell’ex calciatore della Roma di non investire denaro per tappezzare la città di manifesti elettorali tradizionali o di pretendere l’assenza di simboli di partito all’interno dei suoi principali eventi pubblici, così come la pressione sui social media della sua comunicazione non è stata eclatante e anche i toni dello scontro non sono mai stati particolarmente aspri nel corso dell’intera campagna elettorale (Sboarina, intervistato a caldo su La7 dopo la certificazione della sua sconfitta, ha tenuto a sottolineare i rapporti di ‘amicizia’ con Tommasi). Questo genere di decisioni, a cui in Italia si è oramai disabituati, spesso fanno pensare a una certa naivete nella gestione di una campagna elettorale. In realtà è del tutto vero il contrario: denotano la capacità di rinunciare alle liturgie tradizionali della comunicazione politica in nome della salvaguardia del posizionamento personale, politico e strategico. Tommasi ha preferito comunicare sé stesso come un civico “puro”, una persona non aggressiva, un primus inter pares “di popolo”, che voleva impegnarsi per il bene comune prima ancora che per vincere le elezioni a tutti i costi. Da questo profilo identitario sono poi derivate, coerentemente, le principali scelte di comunicazione strategica. Talvolta bisogna comunicare poco per vincere, o per essere convincenti. Per citare un esempio leggermente fuori contesto ma comunque in linea con questa riflessione: il 55% degli italiani considera il presidente del Consiglio Draghi (che non utilizza i social media, non rilascia praticamente alcuna intervista sui giornali e centellina le sua apparizioni pubbliche) “adeguato” dal punto di vista della intensità della sua comunicazione. Ciò è vero tanto più è debole la controparte, com’è accaduto proprio a Verona nel corso di questa campagna elettorale.
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