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Da Gutenberg a Zuckerberg: i media tornano all’era pre-stampa

19 Novembre 2011 5 min lettura

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Da Gutenberg a Zuckerberg: i media tornano all’era pre-stampa

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L’ultima minaccia al sistema dei media tradizionali , sostanzialmente ancora basato sulle regole analogiche del XX secolo, benché costretto a misurarsi con la realtà digitale da almeno un decennio, ha un nome da elettrodomestico (Propeller) e proviene manco a dirlo da Mountain View: una app per iPad e Android con la quale Google vuole entrare in competizione con servizi come Flipboard o Zite nel campo dei social news magazine studiati appositamente per l’uso in mobilità.

La nuova app (da non confondere con il servizio analogo di AOL chiamato Editions, al quale si accede attraverso il dominio propeller.com) dovrebbe essere in grado di mettere in campo tutta la forza di Google News combinata con le funzioni social, cioè la possibilità di interagire con i propri “amici”, e trasferire il tutto sotto forma di un magazine sfogliabile sul proprio tablet o smartphone. In pratica ciascuno di noi potrà avere sempre con sè il proprio giornale on line personalizzato, selezionando argomenti, fonti e suggerimenti, con la possibilità a propria volta di segnalare la lettura di articoli e tendenze.

D’altra parte già oggi gli utenti di internet si costruiscono ogni giorno una “dieta” di informazione (i cosiddetti personal media), utilizzando le finestre del browser per saltare da un sito di news a un blog, da una pagina facebook a un “trending topic” di twitter. E a decretare il successo di una notizia, di un articolo, di un’inchiesta è spesso il passaparola (o meglio la condivisione) che avviene attraverso i socialnetwork.  

E qui si arriva alla seconda novità, introdotta nelle scorse settimane, che va nella direzione di cambiare una volta per tutte il mondo dei media: il servizio “subscribe” di Facebook, grazie al quale si può aprire la propria bacheca a tutti gli utenti, non solo gli amici, consentendo loro di “abbonarsi” agli aggiornamenti pubblici del proprio status, come avviene già su Twitter. Una funzione utile soprattutto a chi ha il desiderio o la necessità di diffondere contenuti oltre la cerchia degli amici. Per esempio, i giornalisti (qui una guida rapida fornita dalla redazione di Lsdi).

E dunque, se da un lato le applicazioni consentono di smontare, passare al setaccio e riaggregare a piacimento i contenuti che le news companies organizzano all’interno del proprio sistema mediatico (cartaceo e on line), e dall’altro i singoli professionisti dell’informazione hanno a disposizione strumenti di condivisione diretta con il proprio pubblico di riferimento al di là e al di fuori del sito (o del giornale) per il quale lavorano, significa che forse per il giornalismo è finita un’era, quella della “stampa” e ne è cominciata un’altra che per dinamiche e regole è simile all’era pre-stampa: da Gutenberg a Zuckerberg, una parentesi di 500 anni si sta chiudendo.

Le notizie, per diffondersi, non hanno più bisogno di rotative (o frequenze nell’etere) e in teoria neppure di contenitori che le scelgono, le selezionano, le gerarchizzano (benchè questa funzione, propria dei media vecchi e nuovi, sia ancora avvertita come necessaria nell’ecosistema dell’informazione). È come se si fosse tornati alla trasmissione orale o ai messaggeri con le pergamene, con la differenza che oggi non c’è una piazza o un’osteria nella quale scambiarsi informazioni (anche se qualche azienda editoriale sta immaginando anche un luogo fisico per la condivisione e il crowdsourcing, una sorta di “newsroom cafè”, ma mille piazze e milioni di osterie virtuali interconnesse tra loro, con i messaggeri che passano dall’una all’altra alla velocità di un clic. Ciò di cui però ci sarà sempre bisogno sarà qualcuno è in grado di costruire senso, di creare connessioni tra i mattoncini (i cosiddetti “item”) che sono oggi le singole notizie estrapolate dal loro contesto originale e gli utenti che ne usufruiscono, di segnalare un percorso logico e una via d’uscita dal labirinto delle mille piazze.

Questi scenari e questa esigenza cambiano anche il modello industriale sul quale si basa l’editoria. Secondo recenti cifre fornite da Audiweb, la società accreditata alla rilevazione dei dati di audience on line in Italia, a luglio 2011 26,2 milioni di utenti si sono collegati a internet, con un incremento del 10% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Cresce del 12,8% anche l’audience quotidiana, con 12,2 milioni di utenti che hanno trascorso on line in media un’ora e 13 minuti al giorno.

Tra l'altro, stando al 9° rapporto Censis-Ucsi sulla comunicazione in Italia, nel triennio 2009-2011 la vendita dei quotidiani cartacei è calata del 7%, nonostante l’utenza complessiva (cioè coloro che hanno letto almeno un quotidiano in una settimana, considerando anche la free-press e le edizioni on line) sia aumentata dal 64,2 al 66,6 per cento. Basta l’incrocio di questi macrodati a spiegare l’urgenza da parte degli editori di ripensare il sistema di offerta informativa,  rafforzando l’area digitale (web, edizioni elettroniche per computer, tablet e telefonini) e integrandola sempre di più con il prodotto cartaceo. E’ il modello che viene comunemente definito “digital first”, che vede in prima linea news company come il Guardian: il quotidiano inglese ha deciso di aprirsi alla condivisione a tal punto che ogni giorno mette on line il menù della propria newsroom consentendo agli utenti di connettersi direttamente con l’accout twitter del giornalista che sta seguendo una specifica notizia, per commentarl e/o fornire suggerimenti.

Negli ultimi anni, i siti internet dei quotidiani hanno attraversato una fase di continua evoluzione che li ha portati a trasformarsi da vetrine on line dell’edizione cartacea (con qualche funzione di ricerca archivistica nel database) a presidi delle notizie in tempo reale, arricchite di contenuti multimediali (foto, audio, video) e interattivi (mappe, sondaggi).

Contemporaneamente, sono cambiati e stanno cambiando i meccanismi di interazione con i lettori, di pari passo con lo sviluppo del cosiddetto web 2.0 e soprattutto con l’avvento dei social network. Dalla possibilità di commentare le notizie all’interno del sito, all’invio di foto e video da parte dei lettori fino alla condivisione dei contenuti su Facebook e Twitter, oggi non ha più senso ragionare come se esistesse una netta distinzione tra chi produce informazione e chi ne fruisce.

Il giornale, nella sua versione digitale ma per contaminazione anche in quella cartacea, deve diventare l’espressione di una comunità della quale gli utenti si sentono membri attivi, mentre i giornalisti mettono al loro servizio le proprie capacità professionali per scegliere, ordinare, gerarchizzare e dare un senso alle notizie, trasformando in suono il rumore creato dal sovraccarico di informazione disponibile in rete.

Ne sono esempi le iniziative  lanciate sia a livello nazionale (i post-it di Repubblica contro la legge bavaglio) che locale (appelli, segnalazioni di disservizi su mappe interattive, come la piattaforma Ushahidi); oppure il racconto corale di eventi attraverso le dirette su Twitter e Facebook o gli strumenti di social reporting e live blogging come Storify o ScribbleLive.

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E la collaborazione, già da qualche tempo negli Usa ma ora anche da noi (vedi l’iniziativa realizzata da Espresso e Openpolis sull’attività dei parlamentari), si sta addentrando nel campo del “giornalismo dei dati”, attraverso uno scambio virtuoso grazie al quale il cittadino mette a disposizione un pacchetto di numeri e documenti “unredacted”, affidando al giornalista il compito di analizzarli, ordinarli e trasformarli in notizie utili alla comunità.

Proprio la possibilità di interagire in maniera sempre più profonda con la propria comunità di riferimento (e di fornire gli strumenti perché ciò accada) è la sfida di innovazione alla quale è chiamata l’editoria, non solo on line: vincerla è indispensabile per mantenere e possibilmente allargare l’audience digitale ma anche per restituire vitalità ai giornali cartacei.

Andrea Iannuzzi
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