Le ragioni delle tensioni tra Cina, USA e Taiwan dietro la visita di Nancy Pelosi
10 min letturaTra le ipotesi che circolavano nei giorni precedenti alla visita di Nancy Pelosi a Taiwan una delle più accreditate era quella dello “stop-over”, ovvero una sosta necessaria per fare rifornimento di carburante o altro tipo di manutenzione all’aereo per non far apparire ufficiale la visita della speaker della Camera americana a Taipei. D’altronde la settimana prima i presidenti Joe Biden e Xi Jinping avevano passato due ore e venti minuti al telefono, annunciando al termine del colloquio anche un possibile incontro di persona e facendo intendere, quindi, che tra le due parti forse un compromesso sulla visita di Nancy Pelosi era stato raggiunto. Anche nel comunicato stampa ufficiale, diramato la domenica del 31 luglio per annunciare il viaggio di Nancy Pelosi in Asia, tra le tappe elencate – Singapore, Malesia, Sud Corea e Giappone – Taiwan non compariva. Ma quando l’Air Force con a bordo Nancy Pelosi è atterrato all'aeroporto di Songshan, Taipei, la capitale di Taiwan, il 2 agosto alle ore 22.42 ora locale, con il ministro degli Esteri taiwanese Joseph Wu pronto a ricevere la terza carica degli Stati Uniti, è diventato chiaro che non c’era alcun escamotage diplomatico per addolcire la pillola da somministrare a Pechino.
Pochi minuti dopo l’arrivo di Pelosi a Taipei, il suo staff ha pubblicato il comunicato stampa ufficiale relativo alla visita, e quasi in contemporanea sul Washington Post è apparso nella sezione “Opinion” un articolo a firma della stessa speaker della Camera ancora più esaustivo – e duro – sul perché aveva condotto la delegazione a Taiwan:
La discussione con i nostri partner taiwanesi si concentrerà sulla riaffermazione del nostro sostegno all'isola e sulla promozione dei nostri interessi condivisi, incluso il progresso di una regione indo-pacifica libera e aperta. [...] La solidarietà dell'America con Taiwan è oggi più importante che mai, non solo per i 23 milioni di abitanti dell'isola, ma anche per le milioni di altre persone oppresse e minacciate dalla Repubblica Popolare Cinese. [...] Non possiamo restare a guardare mentre il PCC continua a minacciare Taiwan e la stessa democrazia. Compiamo questo viaggio in un momento in cui il mondo si trova di fronte ad una scelta tra autocrazia e democrazia. Viaggiando a Taiwan, onoriamo il nostro impegno per la democrazia: riaffermando che le libertà di Taiwan - e di tutte le democrazie - devono essere rispettate.
Nel comunicato viene specificato anche come “in alcun modo [la visita] contraddice la politica di lunga data degli Stati Uniti” che “continueranno a opporsi ai tentativi unilaterali di cambiamento dello status quo”. Ma la controversa missione di Nancy Pelosi che ha avuto i connotati di una visita ufficiale di Stato – con l’incontro con la presidente Tsai Ing-wen, il discorso al Parlamento (ancora più grave dal punto di vista di Pechino perché rappresenta una legittimazione della funzione legislativa di Taiwan), i rappresentanti della società civile e del settore industriale – segna un momento storico che potrebbe cambiare gli equilibri nell’Asia del Pacifico.
E la risposta dall’altra parte dello Stretto non si è fatta attendere. Già nel comunicato successivo alla telefonata tra Biden e Xi, Pechino aveva intimato agli Stati Uniti che “chi gioca con il fuoco rischia di bruciarsi”, ma quando la visita di Nancy Pelosi a Taiwan ha preso forma è passata a mostrare i muscoli. La sera stessa è stato convocato l’ambasciatore americano a Pechino, e attraverso l’agenzia di stampa Xinhua sono state annunciate operazioni militari a fuoco vivo in sei aree intorno all’isola, ne sono state indicate le coordinate ed è stato specificato che le operazioni andranno avanti da giovedì 4 a domenica 7 agosto. In tre di queste verrebbero valicate le acque territoriali taiwanesi, raggiungendo in un caso le 12 miglia dalla costa. Mettendo a confronto le coordinate delle operazioni militari durante la Terza crisi dello Stretto avvenuta nel 1996 con quelle attuali, emerge come Pechino abbia stretto molto di più il campo e si sia avvicinata alle coste dell’isola. Sul piano commerciale, la Cina ha bloccato poi l’import di più di 2.000 beni alimentari e ha interrotto le esportazioni verso l’isola di sabbia naturale, indispensabile per la produzione di semiconduttori di cui Taiwan è leader mondiale (seppur non mettendo a rischio la catena di approvvigionamento).
China's military exercises around Taiwan in August 2022 and March 1996 (Third Taiwan Strait crisis). This time, some exercise areas overlap with Taiwan's territorial waters, an apparent escalation. pic.twitter.com/egw4hyu5U5
— Duan Dang (@duandang) August 2, 2022
Come si è arrivati al punto di non ritorno
Nancy Pelosi è la figura politica americana più alta in grado di visitare Taiwan dal 1997, anno in cui il suo predecessore Newt Gingrich, repubblicano, giunse sull’isola. La situazione, però, non è del tutto analoga. Allora alla presidenza americana c’era il democratico Bill Clinton, di segno politico opposto rispetto a Gingrich, mentre in questo caso le azioni della speaker democratica vengono viste da Pechino come estensione delle volontà della Casa Bianca. Quando a metà luglio il Financial Times ha pubblicato la notizia che il viaggio in Asia di Pelosi – inizialmente previsto ad aprile e annullato per Covid – sarebbe stato riprogrammato per agosto, alle domande dei giornalisti il presidente Biden aveva risposto: “I militari credono che non sia una buona idea”. Biden ha cercato di far cambiare idea più volte inviando alti funzionari, incluso il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, per esporre i rischi della missione, ma Pelosi non ha voluto cancellare la visita. E il fatto che il presidente Biden abbia dichiarato pubblicamente di non essere d’accordo con Pelosi ha reso la scelta una questione di postura internazionale tra l’andare comunque in visita a Taiwan e scatenare una crisi che non ha precedenti dal 1996 o cancellare il viaggio e apparire accondiscendenti con le volontà di Pechino.
Perché Pelosi e Biden, che lavorano a stretto contatto su numerosi dossier, appaiono così asincroni su un tema tanto delicato? E perché il Dipartimento della Difesa ha messo al corrente la terza carica dello Stato americano dei pericoli della missione solo dopo la pubblicazione della notizia da parte del Financial Times?, si chiede Mike Chinoy, senior fellow dell’Istituto Usa-Cina della University of Southern California, in un editoriale su Foreign Policy, che mette bene in luce i vari passaggi che hanno portato Washington a impantanarsi. Nei mesi scorsi, lo stesso Joe Biden ha contribuito a rendere ancora più confusa la linea estera americana rispetto a Cina e Taiwan dichiarando per ben tre volte che gli Stati Uniti sarebbero intervenuti militarmente in caso di attacco, per poi essere “corretto” poco dopo dal suo stesso ufficio nella Casa Bianca che nei comunicati ha dovuto evidenziare come nulla sia davvero cambiato nelle relazioni tra Stati Uniti e Taiwan, regolate dal Taiwan Relations Act del 1979 che fa leva proprio su un’ambiguità di fondo che non chiarisce in maniera esplicita se gli Stati Uniti siano o meno obbligati a intervenire militarmente. Tra le domande che si pone Mike Chinoy c’è anche quella della tempistica che appare “gratuitamente provocatoria" visto l’anniversario della fondazione dell’Esercito popolare di liberazione del 1° agosto, ma soprattutto la vigilia del Congresso del PCC che si terrà questo autunno e che vedrà Xi Jinping ottenere il terzo mandato. Cosa spera esattamente di ottenere Pelosi? Ovviamente fornire supporto a Taiwan, ma è altamente probabile che Pechino possa leggerci una cospirazione – che sia o meno un problema di comunicazione interna a Washington. Scrive Minxin Pei in un editoriale su Nikkei Asia che “essendo Taiwan la questione più sensibile per la politica interna cinese, comprensibilmente il presidente Xi non potrà apparire debole in un momento in cui ha bisogno piuttosto di proiettare un’immagine di forza. D’altra parte, una reazione eccessiva alla visita di Nancy Pelosi a Taipei potrebbe essere controproducente se si trasformasse in un conflitto militare al quale la Cina non è preparata”.
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Nel settembre 1991 Nancy Pelosi faceva parte di una delegazione in visita a Pechino e già a suo tempo si era contraddistinta per azioni dimostrative in opposizione al Partito Comunista Cinese. Erano passati poco più di due anni da piazza Tiananmen, e Pelosi insieme a due altri membri del Congresso decise di allontanarsi dal resto della delegazione e visitare la piazza in cui si è consumato uno degli eventi più drammatici della storia recente cinese. A favore di telecamere, esposero un manifesto su cui c’era scritto sia in lingua cinese che inglese “A coloro che sono morti per la democrazia in Cina” e posarono dei fiori in tributo agli studenti morti nelle manifestazioni, prima di essere fermati dalle forze dell’ordine di Pechino.
Some footage from the CNN archive of Pelosi unfurling a pro-democracy banner in Tiananmen Square in 1991 (alongside Reps. Ben Jones and John Miller) before Chinese officials interrupt pic.twitter.com/fmbSNry3bX
— Kevin Liptak (@Kevinliptakcnn) July 29, 2022
In quel caso, i giornalisti che filmarono il gesto furono arrestati e detenuti per qualche ora, ma nel momento storico in cui ci troviamo non possiamo escludere l’escalation militare. Magari non nell’immediato – come abbiamo detto Xi si trova alla vigilia del Congresso e anche per Biden sono alle porte le elezioni di metà mandato – ma la visita di Nancy Pelosi a Taiwan ha aperto un vaso di Pandora di cui non si conoscono ancora gli effetti.
Cosa vuole la Cina da Taiwan
La “riunificazione della Cina” è uno degli obiettivi principali di Xi Jinping da portare a compimento entro il 2049, anno del centenario della Repubblica Popolare Cinese. Il ricongiungimento di Taiwan sotto una “unica Cina” rappresenta una missione storica per il PCC, che il presidente Xi ha fatto intendere non lascerà ai suoi successori. Ma cos’è esattamente il principio della Cina unica, anche noto in lingua inglese come “One China policy”?
Nel 1971, con il disgelo dei rapporti tra Cina Popolare e Stati Uniti, Pechino ottenne un importante risultato sostituendo nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite come membro permanente proprio Taiwan, grazie alla rinuncia di Washington di porre il veto sul suo ingresso. Pochi mesi prima il presidente repubblicano Nixon, in una storica visita, si era recato a Pechino dove venne firmato il “Comunicato di Shanghai”, nel quale sostanzialmente entrambe le parti rinunciavano a qualsiasi atteggiamento egemonico nell’area dell’Asia Pacifico e si opponevano ad atti di questo tipo da parte di singoli o gruppi di stati. La seconda parte si concentrava sulla questione di Taiwan:
Gli Stati Uniti riconoscono il fatto che tutti i cinesi [che vivono] nell’una o altra parte dello Stretto di Taiwan [e quindi a Taiwan e nella Cina Popolare] affermano che esiste una sola Cina e che Taiwan è parte della Cina. Gli Stati Uniti non contestano tale posizione. Essi riaffermano il loro interesse per [la ricerca di] una soluzione pacifica della questione di Taiwan da parte dei cinesi stessi.
Posizione che si consolidò alla fine del 1978 quando, dopo una serie di incontri non positivi tra diplomazia cinese e statunitense durante i quali Pechino chiedeva la fine del riconoscimento americano del governo di Taiwan, venne trovato un accordo che lasciava ancora meno spazio a fraintendimenti o diverse interpretazioni:
Gli Stati Uniti riconoscono il governo popolare della Repubblica Popolare Cinese come il solo governo legale cinese e riconoscono la posizione cinese secondo cui non vi è che una sola Cina e che Taiwan è parte della Cina.
Ogni tipo di rapporto tra Washington e Taipei, dunque, doveva avvenire esclusivamente attraverso “forme non governative”.
Il processo di taiwanizzazione e l'indipendenza dalla Cina
È il 25 ottobre 1945 e per Taiwan è un giorno di festa, il giorno del “ritorno”. In fuga dalla Cina, in quella che si prefigura ormai una sconfitta per mano dei comunisti guidati da Mao Zedong, arriva sull’isola il nazionalista Chiang Kai-sheg insieme ai suoi uomini. Taiwan sta uscendo da cinquanta anni di dominio coloniale giapponese e vede in questo “ritorno” la fine della colonizzazione giapponese. Un periodo in cui l’insegnamento della lingua cinese è stato fortemente contrastato, a cinesi e aborigeni è stato ordinato di cambiare i propri nomi con quelli giapponese, e più in generale sono state perseguite politiche finalizzate alla distruzione dell’identità tradizionale. Eppure l’entusiasmo per l’arrivo di ciò che ne è rimasto del Kuomintang, il partito nazionalista cinese, non dura a lungo: anche per i “continentali”, gli abitanti di Taiwan sono cinesi di serie B. Si sono piegati al volere dei colonialisti e non hanno saputo difendere i valori della tradizione cinese. Dalla Cina cominciano ad arrivare migliaia e poi decine di migliaia di cinesi che vengono agevolate dal punto di vista economico, politico e sociale. Alle prime proteste, il governo nazionalista risponde con una dura campagna per “sterminare i traditori”, ovvero le élite taiwanesi che sotto il colonialismo giapponese hanno raggiunto posti di comando. Viene imposta la legge marziale e bandite le elezioni, per cui chi viene eletto tra il 1947-1948 rimane in carica senza vincoli di mandato. La vittoria definitiva dei comunisti in Cina e l’insediamento di Chiang Kai-shek a Taiwan porta all’ingresso di quest’ultima nel Consiglio di sicurezza Onu – fino al 1971 quando gli Stati Uniti tolgono il veto sulla Repubblica Popolare cinese. Il sostegno economico e militare degli Stati Uniti – che di fatto ha scoraggiato Pechino nell’intraprendere un’invasione – ha posto le basi per il “miracolo economico” di cui Taiwan è stata protagonista per tutti gli anni Sessanta e oltre, trasformando di fatto l’economia dell’isola da agricola a industriale.
È solo con la morte di Chiang Kai-shek nel 1975 che ha inizio il “processo di taiwanizzazione”. Ai movimenti che iniziano a nascere negli anni Ottanta, questa volta il governo, guidato dal figlio Chiang Ching-kuo, si apre ad un graduale processo di democratizzazione. Viene abrogata la legge marziale e cade il vincolo per la formazione di nuovi partiti. Nel 1990 diventa presidente il primo taiwanese, Li Teng-hui, sempre sostenuto dal partito nazionalista, che contribuisce fortemente ad accelerare il processo di taiwanizzazione, fino ad arrivare ad un’altra svolta della politica interna, nel 2000, quando i nazionalisti vengono sconfitti alle elezioni e a vincere è Chen Shui-bian, candidato del Partito democratico progressista. Facendo un salto temporale arriviamo all’ultimo decennio che ha caratterizzato la politica di Taiwan: il movimento studentesco del girasole che nel 2014 occupa il palazzo del Parlamento a Taipei in protesta contro l’Accordo di integrazione economica Cina - Taiwan voluto proprio dal Partito nazionalista. Il processo di taiwanizzazione nelle giovani generazioni è ormai completo, e l’elezione della presidente Tsai Ing-wen prima nel 2016 e poi riconfermata nel 2020 ne è l’espressione politica.