I ‘ribelli della disperazione’, tra crisi e suicidi
6 min letturaÈ ormai da un po’ di tempo che ad Albino Mazzaro – imprenditore 54enne e titolare della Mazzaro Giulio&Co, piccola impresa di componentistica metallica per mobili situata a Busa di Vigonza (Padova) – le cose non vanno troppo bene.
Dall’inizio della crisi, le crescenti difficoltà economiche (perdita di commesse e ordini, ritardi nei pagamenti, mancati incassi) hanno costretto Mazzaro a rallentare la produzione dell'azienda e chiedere la cassa integrazione per i suoi dieci dipendenti. Proprio a quest’ultimi aveva cominciato a dire che «se non andiamo avanti col lavoro la faccio finita». Sentendo quelle parole, il capofficina Michele Favero rispondeva scuotendo la testa: «Ma no Albino, lascia stare».
La mattina di domenica 10 febbraio Albino Mazzaro esce dall’abitazione di Cadoneghe (sempre in provincia di Padova) e guida fino alla sua fabbrica. Nel pomeriggio, non vedendolo tornare, i familiari iniziano a preoccuparsi e si mettono a cercarlo. Poco dopo le otto di sera, Mazzaro viene trovato impiccato nel suo ufficio. Sul tavolo c’è un biglietto: «Non ce la faccio più». Intervistato dal Mattino di Padova, il fratello Renzo Mazzaro cerca di spiegare il gesto:
Mio fratello ha tentato di colmare. Si tira avanti e poi si fa un buco pazzesco, il meccanismo è semplice. Il problema nasce quando i crediti non rientrano e i debiti diventano insolvibili. E quando un imprenditore non riesce a mantenere l’impegno con i dipendenti diventa pazzo, ma questo i politici non lo capiscono.
La sera di quello stesso giorno, il commerciante 53enne Luciano Franceschi di Borgoricco (Padova) è davanti al computer. «Venetista» (indipendentista veneto) convinto, Franceschi ha cominciato nella Liga Veneta, è transitato nella Lega Nord e ha partecipato alla fondazione dell’Autogoverno del Popolo Veneto (1999) insieme a Bepin Segato, “l’ambasciatore” dei Serenissimi che nel 1997 assaltarono il campanile di San Marco.
In paese – riporta il Mattino di Padova – Franceschi è ricordato per un’azione compiuta a metà degli anni ’90, quando salì sul campanile di Borgoricco «per dispiegare alcuni nastri con il Leone di San Marco e la scritta “Autonomia” e impacchettò la sede municipale con gli stessi nastri». Aveva anche intrapreso battaglie di «resistenza fiscale». La prima sempre negli anni ’90, indirizzando una lettera all’allora sindaco e al tecnico comunale informandoli «che si rifiutava di pagare i tributi locali perché non riconosceva la loro autorità e li considerava espressione del centralismo romano». La seconda nel 2006, anno in cui è stato candidato con Fiamma Tricolore: Franceschi rifiutò di pagare un’imposta all’Agenzia delle Entrate – considerata un ente estraneo all’Autogoverno del Popolo Veneto – e si ritrovò «subissato di cartelle esattoriali».
Ad ogni modo, l’attività di famiglia di Franceschi (un negozio di alimentari), è sull’orlo del fallimento. Il commerciante ha bisogno assoluto di liquidità – 15mila euro per tirare avanti almeno un altro anno, 300mila per estinguere i debiti. Per questo motivo, da circa una settimana si presenta ripetutamente alla Banca Padovana Credito Cooperativo di Campodarsego (PD) e chiede di parlare con il direttore Pier Luigi Gambarotto per rinegoziare i tassi di massimo scoperto del fido e chiedere un piccolo prestito per pagare la cartella Equitalia in scadenza.
Alle 23.20 del 10 febbraio, Franceschi aggiorna il suo profilo Facebook con questo status e va a letto.
Il giorno seguente, il «venetista» apre il giornale, legge la notizia del suicidio di Albino Mazzaro e decide, queste le sue parole, «che eravamo giunti al limite, che era il momento di intervenire. Da tempo portavo avanti una trattativa direttamente con il direttore, ma la morte del mio amico mi ha convinto a raggiungere la banca armato».
La mattina dell’11 febbraio Franceschi parcheggia la vecchia Fiat Panda davanti all’ingresso della banca, sale al secondo piano e raggiunge l’ufficio del direttore. In mano ha una «proposta economica di finanziamento equo, a cui possano accedere tutte le imprese venete in difficoltà, da sottoporre al direttore generale». Nel borsello, invece, ci sono «la sua pistola Franchi-Llama calibro 7,65 col caricatore pieno, un altro serbatoio con 8 proiettili inseriti e una scatola con 45 colpi».
Dopo un breve colloquio, la proposta viene bocciata senza troppi complimenti. A quel punto il commerciante si rivolge al direttore – «Scegli tu che fine vuoi fare» – e tira fuori la pistola. Il piano, secondo il Mattino di Padova, è di «barricarsi nell’ufficio tenendolo in ostaggio e aprire una trattativa con lo Stato per vedere accolta la sua proposta economica. Ma è anche disposto a morire [...] come martire della causa di liberazione del popolo veneto». Gambarotto però si avventa su di lui e cerca di disarmarlo. Partono tre colpi: due trapassano il direttore all’altezza dell’addome, il terzo si conficca nella parete. Gambarotto crolla a terra e inizia a gridare.
«Mi sono reso conto che la situazione era degenerata – dichiarerà Franceschi – che ero pronto a farla finita»:
Attendevo l’arrivo dei carabinieri per fare fuoco, sicuro che loro avrebbero risposto uccidendomi. Ma quando i militari hanno varcato la soglia dell’ufficio del direttore mi sono accorto che tra loro c’era il figlio di una mia compaesana che per me è stata una seconda madre. Solo in quel momento mi sono arreso.
Gli agenti arrestano Franceschi e lo portano al carcere di Padova. Pier Luigi Gambarotto viene trasportato all’ospedale, dove versa ancora in condizioni critiche. Quando il 17 febbraio la deputata leghista Paola Goisis va a trovare il «venetista» in carcere e prova a capire quello che è successo, Franceschi le offre una motivazione a dir poco agghiacciante:
Siamo in guerra e siamo pronti a sparare. La situazione ormai è intollerabile, soprattutto per gli artigiani e per i titolari delle piccole e medie imprese. Chi fa qualcosa per aiutarci? Nessuno. E il Governatore Luca Zaia cosa fa per noi? Nulla. Non possiamo più tollerare tutto questo. Stanno uccidendo noi veneti che abbiamo nel Dna concetti come “lavoro” e “impresa”. È diventata una lotta per la sopravvivenza: o noi, o loro. Se vogliono fermarmi devono uccidermi perché io riuscirò a scappare di qua. E una volta che sarò fuori rifarò lo stesso. Ormai non ci ferma più nessuno. […] La nostra battaglia non può essere fermata. E non accetteremo mai più rappresentanti politici che non facciano parte del popolo veneto. Faccia arrivare forte e chiaro questo messaggio.
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Dopo la Prima Guerra Mondiale, il due volte Presidente del Consiglio Luigi Luzzatti scrisse che esisteva il «pericolo di un’Irlanda veneta» perché i territori «più sobri nel chiedere» potevano trasformarsi in «ribelli della disperazione».
In Franceschi e Mazzaro si trovano sia disperazione che, come scrive Federica Piran nel blog Tramonti sul Nordest, «molto Veneto, moltissimo Veneto, da averne quasi paura e nello stesso tempo assaporandone quel gusto di rivolta, di ribellione, un gusto che […] non ho ancora capito se sia dolce o amaro». Ma se finora la pistola (o la corda) era sempre stata usata contro se stessi, con Franceschi si è introdotta una nuova figura (o «nuova voragine») nella crisi del Nordest: quella del giustiziere, «nel bene e nel male imprenditori che si sostituiscono alle leggi degli uomini e a quelle di Dio e che, individuato il nemico va a farsi giustizia. Come in un film».
(Fonte: Flickr)
Il Veneto è una terra che negli ultimi 30 anni ha attraversato una trasformazione violentissima, senza la minima pianificazione politica. Una terra costruita ossessivamente sui soldi (gli «schei») e unicamente per i soldi. Una terra che - scriveva Paolo Rumiz ne La secessione leggera (2001) - «si è affacciata per ultima alla scorpacciata dello sviluppo, e proprio per questo sente maggiormente il benessere come fragile ed effimero». Una terra che è assolutamente terrorizzata dal futuro.
Del resto, lo stesso Presidente della Regione Zaia ha ammesso in un’intervista a Linkiesta che il miracoloso «modello Nordest» è finito:
Non esiste più il modello nordest, dal punto di vista della produzione non siamo più competitivi. Paghiamo strutturalmente il conto della nostra Grecia, che è il sud Italia, paghiamo lo scotto di dover competere con lavoratori cinesi che costano cinque euro al giorno o con gli indiani che ne costano uno, ma quando due gruppi simbolo come Benetton ed Electrolux decidono di tagliare posti di lavoro e rimodellare il loro business, significa qualcosa in più: si sta chiudendo un capitolo della nostra storia fatto di operosità, ingegno e creatività. Qualche giorno fa l'ho definita una doccia fredda. Adesso mi verrebbe da dire 'cronaca di una morte annunciata'. In passato questi due gruppi hanno dato vita ad un tessuto produttivo unico, creando un vero distretto industriale dando lavoro a laboratori artigiani poi diventati floride aziende. D'ora in avanti sarà diverso...
Già, sarà tutto molto diverso.
Sempre nel saggio La secessione leggera, Rumiz raccontava di «un mondo che ha perso l’anima», di una «tremenda energia lasciata a se stessa» e di «un potenziale che può esplodere». «Visto sotto questo cielo metallico», scriveva il giornalista, il Nord
pare un enorme capannone popolato di gente che suda in mezzo a macchine da concia, frese, pompe, telai, presse, scarichi e nastri trasportatori; un ansimare, scatarrare, sferragliare; non un coro ma un rumore di fondo che le nubi basse amplificano come una cassa armonica; una prigione incubatrice dove tutti lavorano sì gomito a gomito, ma ciascuno per conto suo e ignorandosi l’un l’altro.
A dodici anni di distanza da questa descrizione le cose sono cambiate profondamente, ancora una volta: tantissimi capannoni sono ormai dismessi - parrocchie post-industriali abbandonate in mezzo al nulla; la «prigione incubatrice» tende a far confondere vittime e carnefici, rabbia e disperazione, bilanci aziendali e violenza, debiti e morte; e il rumore di fondo delle macchine sta sfociando in un silenzio puntellato dagli spari, mentre l'ignobile caciara elettorale rimane un brusio lontanissimo, mai così tanto sguaiato e fastidioso.