Trivelle, rigassificatori, rinnovabili: il caso Ravenna e i rischi ambientali, economici e sociali
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Il round-up settimanale sulla crisi climatica e i dati sui livelli di anidride carbonica nell'atmosfera.
Nel linguaggio della politica odierna c’è un’espressione che è spia di una certa sciatteria, ed è la “vocazione dei territori". Si tratta di una formula accattivante che viene ripetuta da esponenti di ogni colore e latitudine politiche. Di facile presa (e usura), la vocazione dei territori è da intendersi nel senso religioso, come qualcosa di immutabile e a cui aderire in maniera acritica. Ma che in realtà diventa il lasciapassare per provare a imporre la propria visione del mondo. Solo che i territori, i modi in cui li immaginiamo e le modalità con le quali li trasformiamo, sono il frutto di determinate scelte, figlie a loro volta di mediazioni e conflitti - anche l’abbandono è una scelta, come dimostra ad esempio il caso dell’Abruzzo e delle aree interne. In questo senso l’Italia che si sta provando a delineare in questo eterno presente post-pandemico e post-conflitto è un banco di prova paradigmatico, basta citare l’idea del governo Meloni di rispolverare il progetto dell’hub del gas e le conseguenze sui territori interessati. C’è però un caso che, più di altri, riassume le opportunità e le contraddizioni di questa vocazione: è il tentativo di Ravenna di trasformarsi nella capitale italiana dell’energia. In pochi chilometri quadrati la città romagnola intende avviare quattro mega progetti: un rigassificatore, nuove piattaforme estrattive, un parco eolico, un impianto per la cattura e lo stoccaggio dell’anidride carbonica. Per essere contemporaneamente la capitale del gas, della CO2 e delle rinnovabili. Possibile? Auspicabile? La migliore scelta energetica è quella che le comprende (quasi) tutte?
Quattro mega-progetti energetici e una comunità (forse)
Ad aprile 2022 il sindaco di Ravenna Michele De Pascale, appartenente al Partito Democratico, scrive un lungo post sui social con il quale spiega il senso della proposta che intende rivitalizzare la centralità energetica della città romagnola:
Da cinque anni l’intera comunità ravennate – istituzioni locali, imprese e sindacati insieme – denuncia la completa assenza di una strategia nazionale sull'energia che affronti con rigore i temi della sostenibilità economica e ambientale e della sicurezza negli approvvigionamenti energetici. In questo momento d'emergenza, tragico per il mondo e difficilissimo per il paese, in cui vengono a galla tutti i gravissimi errori che le scelte (e le non-scelte) politiche hanno determinato, siamo chiamati a soluzioni straordinarie e a tempi di attuazione totalmente nuovi, con strategie di breve, medio e lungo periodo.
In questo frangente vi è un territorio che è unito e pronto a mettere in campo 4 azioni strategiche per cambiare radicalmente rotta, quattro sì, per l'economia e l'ambiente:
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Ripresa delle attività estrattive per attingere alle risorse di gas naturale nell'alto Adriatico con liberalizzazione completa delle nuove attività oltre le 12 miglia ed efficientamento/potenziamento di quelle esistenti. In alto Adriatico si stima un potenziale fra i 350 e i 500 miliardi di metri cubi.
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Installazione a largo delle coste di Ravenna di un FSRU offshore (rigassificatore galleggiante) per un potenziale di 5 miliardi di metri cubi all'anno
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Realizzazione di un parco eolico offshore da 600 megawatt di potenza con impianto fotovoltaico galleggiante annesso da 100mw (progetto AGNES)
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Realizzazione di un sistema di CCUS per captare la CO2 emessa dal settore "hard to abate" e iniettarla nei giacimenti di metano esausti e/o utilizzarla in processi di economia circolare.
I timori locali si sono concentrati soprattutto sui tre progetti a marca fossile (rigassificatore, piattaforme e impianto CCUS per la cattura e lo stoccaggio dell’anidride carbonica) che sono anche quelli parzialmente pubblici per via della partecipazione dei colossi energetici ENI e Snam. Mentre, a distanza di quasi un anno dagli annunci del sindaco De Pascale, tutti e quattro registrano passi in avanti, seppur lenti e parziali.
Per quanto riguarda la ripresa delle attività estrattive in mare, la conversione in legge del cosiddetto decreto AIUTI quater, avvenuta a metà gennaio, abbassa il divieto di ricerca ed esplorazione in mare da 12 a 9 miglia e supera alcuni vincoli dettati dal PiTESAI, il Piano per la Transizione Energetica Sostenibile delle Aree Idonee che era stato approvato appena un anno fa. Lo scopo del governo Meloni, vale la pena ricordarlo, è raddoppiare nel giro di un paio di anni la produzione nazionale di gas, passando dai poco più di 3 miliardi di metri cubi di gas del 2022 (esattamente 3,341, in sostanziale pareggio rispetto al 2021) a 6-7 miliardi, da destinare soprattutto alle cosiddette industrie energivore, con prezzi calmierati garantiti (e pagati) dallo Stato. Il ruolo di Ravenna, secondo alcune ricostruzioni giornalistiche, sarebbe quello di avviare una nuova produzione attraverso la creazione di nuovi impianti di perforazione a mare e, soprattutto, di rivitalizzare lo storico distretto industriale, composto da una sessantina di piattaforme estrattive di gas lungo tutto l’Alto Adriatico, di cui almeno la metà sono al momento inattive.
Se a Piombino l’opposizione alla nave rigassificatrice di SNAM, la Golar Tundra, è stata più estesa e vede al momento anche la partecipazione del sindaco Francesco Ferrari, a Ravenna le proteste contro l’impianto gemello della città toscana sono state molto più flebili - anche se la galassia ambientalista romagnola ha annunciato che convergerà alla manifestazione nazionale del prossimo 11 marzo a Piombino. Da Ravenna il consenso alla nave FRSU, che dovrebbe arrivare dall’Egitto nel 2024 e sarà parcheggiata a otto chilometri dalla spiagge di Punta Marina, è stato pressoché trasversale. Tanto che si pensa persino di far ospitare alla città romagnola anche il rigassificatore di Piombino allo scadere del terzo anno di attività, così come sancito dagli accordi tra il governo e la Regione Toscana. Con Davide Tabarelli, presidente del think thank Nomisma Energia, che si spinge addirittura a chiederne “tre o quattro” nello stesso lembo di territorio.
Senza considerare che, sempre nello stesso tratto di mare, è previsto il terzo progetto energetico, noto con il nome di Agnes: due parchi eolici, a nord e sud di Ravenna, un impianto fotovoltaico galleggiante e un impianto di elettrolizzazione per la produzione di idrogeno verde. Un progetto di cui si discute da anni, recentemente presentato alla Commissione politiche economiche della Regione Emilia Romagna, e che nei prossimi giorni, secondo una dettagliata anticipazione de Il Resto del Carlino, sarà presentato al Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica per l’avvio della Valutazione di Impatto Ambientale:
Se tutto filerà liscio le autorizzazioni a proseguire dovrebbero arrivare entro l’estate. Ma l’altra notizia che rafforza ulteriormente il progetto Agnes è l’ormai imminente ingresso nella compagine societaria di un fondo di investimenti specializzato in impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili. Nonostante il riserbo che circonda la notizia, il più titolato a entrare nell’operazione – i cui costi si stanno avvicinando ai 2 miliardi di euro – è F2i ‘Energia per la transizione’. Questo fondo è una delle divisioni in cui sono ripartiti gli investimenti di F2i Sgr che ha tra gli azionisti la Cassa depositi e prestiti, banche e fondazioni bancarie. Per fare un esempio, ha in portafoglio Sorgenia, tra i principali operatori del settore energetico in Italia, ed è presente anche in Spagna.
In contemporanea, nella seduta del Senato del 2 febbraio, il sottosegretario per le imprese e il made in Italy, Massimo Bitonci, rispondendo a un’interrogazione parlamentare a firma M5s, ha reso noto lo stato dell’arte del quarto progetto energetico che si intende realizzare a Ravenna, forse quello più discusso e “misterioso”, con la prima autorizzazione presentata ad ENI che risale al 1998, cioè l’impianto per la cattura, l’uso e lo stoccaggio di carbonio noto anche con l’acronimo inglese CCUS (carbon capture use and storage):
Il progetto è candidato ad avere lo status di progetto comune europeo, ovvero di far parte di quei progetti che potranno accedere al bando per l’ottenimento dei finanziamenti del Connecting Europe Facility, il fondo UE volto al potenziamento delle infrastrutture energetiche e del trasporto digitale che per il periodo 2021-2027 assegna al settore energetico un budget di 5,8 miliardi di euro. In particolare il coordinamento con Liquid Air France, in collaborazione con ENI e Snam, in un’ottica di condivisione progettuale sovraterritoriale, ha l’obiettivo di sviluppare infrastrutture per l’import/export di CO2, ponendo al centro la città di Ravenna e nello specifico i giacimenti a gas offshore in via di esaurimento in concessione a ENI, che sarebbero trasformati in siti per lo stoccaggio di CO2 degli impianti industriali italiani ed esteri.
Dopo aver ottenuto l’autorizzazione dal ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica per l’avvio del progetto pilota, che prevede lo stoccaggio di 25mila tonnellate di CO2 provenienti dalla centrale di Casalborsetti nel giacimento esaurito di Porto Corsini mare ovest, a dicembre 2022 ENI e Snam hanno firmato una joint venture per quello che sarà il primo progetto ccus in Italia.
Può bastare? No. In attesa che arrivi il decreto attuativo sulle comunità energetiche, insieme allo sblocco dei 2,2 miliardi di euro previsti dal PNRR per lo sviluppo di impianti a fonti rinnovabili destinati all’autoconsumo, anche a Ravenna ci si muove per attivare un progetto energetico differente dai quattro progetti citati in precedenza, accomunati dall’adesione a un modello centralizzato e gestito da multinazionali del settore.
Infatti, nel lancio dell’iniziativa per la costruzione di una comunità energetica, a maggio 2022, si leggeva che:
Crediamo che Ravenna abbia potenzialità enormi per porsi come laboratorio di nuovi modelli sociali ed economici, di nuove modalità per lo sviluppo di un’economia sostenibile legata al mondo dell’energia, mondo che da sempre ha caratterizzato l’economia di questa città. Crediamo che l’arretratezza culturale della nostra classe dirigente, in particolar modo sui temi ambientali, sia un elemento da combattere in maniera proattiva costruendo modelli che possano essere messi a disposizione della città e possano essere presi ad esempio e migliorati da altri cittadini contribuendo ad un cambiamento che, crediamo, debba necessariamente venire dal basso. Stiamo costruendo un progetto di piattaforma per lo sviluppo delle comunità territoriali e vorremmo sperimentarlo nella nostra città.
Già adesso la città romagnola è un modello energetico. Perché il futuro prossimo di Ravenna solca una strada già tracciata. Resta da capire se si tratta di un unicuum o di un modello replicabile nell’era della crisi climatica.
Il passato è il futuro?
Per spiegare la bulimia energetica di Ravenna è necessario andare indietro fino al secondo Dopoguerra, quando la nascente ENI, allora azienda di Stato, scoprì la presenza del metano. Era il 1952 e, ieri come oggi, il gas veniva raccontato come il combustibile del futuro. In un racconto del 2016, intitolato “C’era una volta Ravenna e le trivelle”, in cui si mescolava personale e collettivo, il politico e ambientalista di lungo corso Massimo Serafini ricordava che:
La storia del metano a Ravenna non è una storia banale e meriterebbe difensori più seri. Che nel sottosuolo della mia città ci fosse metano l’avevo capito, come molti/e coetanei/e dal sapore dell’acqua che sgorgava da una fontanella di Marina di Ravenna. Veniva chiamata acqua “pisciolina” proprio perché sapeva di metano e siccome la credenza popolare le attribuiva prodigiose virtù, in poche parole aiutava a crescere bene, eravamo soprattutto noi bambini e bambine a farne le spese, costretti a berla dai genitori. Un supplizio ogni volta che papà ci accompagnava con la sua topolino al mare. La fontana era a poche centinaia di metri dal mare, il che avrebbe dovuto farci intuire che anche il fondo marino conteneva gas. Che però fosse una risorsa nessuno lo pensava, anzi a molti parve una stranezza che a qualcuno fosse venuto in mente di estrarlo per farci i soldi. Sicuramente nessuno avrebbe immaginato che tirarlo fuori avrebbe letteralmente stravolto il paesaggio di Ravenna e delle sue campagne.
Negli anni le cosiddette trivelle sorgono come funghi sul mare. Al cane a sei zampe si associano altre aziende italiane, più piccole, e straniere. La presenza di ENI sul territorio tuttavia non si limita alle attività upstream, come ricorda la stessa azienda:
Il grande polo petrolchimico di Ravenna fu fortemente voluto da Enrico Mattei che qui decise di realizzare la prima fabbrica di gomma sintetica del Paese, importandone la tecnologia dagli Stati Uniti. La scelta ricadde su Ravenna, sia per la sua posizione strategica, grazie al porto, sia per la prossimità alle fonti di materia prima. Erano infatti gli anni delle attività esplorative in Emilia Romagna, con la prima scoperta del giacimento a gas Ravenna Terra. La realizzazione fu affidata nel 1954 ad Anic. Negli anni Sessanta si aggiunse la produzione del PVC, degli acetati e della chimica fine (DMC). Nel 1983 le attività passarono da Anic ad Enichem. Con la cessione del ramo d’azienda Agricoltura a Hydro Agri Italia, l’acetato di vinile a Vinavil e i difenoli a Borregaard, negli anni Novanta lo scenario industriale dello stabilimento iniziò progressivamente a cambiare.
Fino a questo punto, però, la storia di Ravenna è simile a quella di tanti altri siti industriali - da Porto Marghera a Gela passando per Taranto. Così come simile è il destino delle eterne bonifiche che diventano un miraggio per questi territori, classificati dallo Stato nel 1998 Siti di Interesse Nazionale. La specificità romagnola è che, a differenza dei luoghi citati, il polo ravennate riesce sin da subito a far convivere industria e turismo. I due settori magari non si parlano ma neppure si ostacolano. Valeva anche per (e fino a) i ruggenti anni ‘80 del turismo balneare e sembrerebbe valere anche oggi, al netto delle ovvie differenze:
Non c'è solo il turismo a dare lustro alla Romagna e i progetti in cantiere per la transizione energetica - dal rigassificatore al largo di Punta Marina al progetto Agnes per il più grande parco solare-eolico a mare in Europa - sono destinati a cambiare profondamente l'immagine di questo territorio “tra ‘l Po e ‘l monte e la marina e ‘l Reno” (per citare Dante) noto ai più per i mosaici bizantini e la riviera Adriatica. Un’area vasta di oltre un milione di abitanti che orgogliosamente rivendica il trattino che la separa dall’Emilia e che è decisa a cogliere questo momento di difficoltà globale per trasformarlo in opportunità di rilancio.
Non solo i nuovi progetti energetici delineano centinaia di posti di lavoro e ulteriori insediamenti industriali ma, soprattutto, tutti e quattro promettono di non intaccare la quota turistica del ravennate, che resta ancora rilevante. I timori, così, si concentrano su altro, come ad esempio la possibile subsidenza che le nuove esplorazioni potrebbero causare (smentita più volte dal sindaco De Pascale). Resta il fatto che a Ravenna il binomio tra industria e turismo non viene messo in dubbio, al contrario di quel che avviene in qualsiasi altro territorio quando si discute di un nuovo progetto energetico.
Tuttavia l’eccezionalità del capoluogo romagnolo non è esente da conseguenze, almeno a leggere i dati di Ecosistema Urbano 2022, il report annuale sulle performance ambientali di 105 Comuni capoluogo che tiene conto di 18 indicatori, distribuiti in sei aree tematiche: aria, acque, rifiuti, mobilità, ambiente urbano ed energia. Il documento - realizzato da Legambiente, Ambiente Italia e Sole24Ore - vede Ravenna all’ultimo posto tra i capoluoghi dell’Emilia Romagna, a metà classifica rispetto al quadro nazionale (52esima su 105 Comuni) e al di sotto della sufficienza, con un punteggio di 53,29%.
Difficile non immaginare che concentrare così tanti mega impianti energetici in un unico territorio avrebbe evidenti conseguenze a livello ambientale, economico e sociale. Rafforzando ulteriormente lo snodo romagnolo, inoltre, il rischio politico è quello di esacerbare la spaccatura tra Sud e Nord Italia anche dal punto di vista energetico. L’accelerazione della crisi climatica, invece, impone altre rotte: non serve più che ciascun territorio faccia per sé o che si assecondino vocazioni che, in fondo, hanno pochi anni di storia alle spalle, serve piuttosto una strategia di ampio raggio che metta insieme le esigenze dei territori in un quadro dove prevalga l’interesse comune.
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