Cosa ha funzionato finora contro il cambiamento climatico
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Il round-up settimanale sulla crisi climatica e i dati sui livelli di anidride carbonica nell'atmosfera.
Tasse sui carburanti, incentivi edilizi, norme sull’efficienza energetica. Spesso e volentieri sentiamo esperti, politici, rappresentanti del settore industriale, cittadini discutere di quali soluzioni politiche ed economiche sono più vantaggiose ed efficaci nel contrasto del riscaldamento globale e nell’applicazione della cosiddetta transizione ecologica.
Un’azione diventata quasi un imperativo da quando, quasi 35 anni fa, il Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (IPCC) ha pubblicato il suo primo rapporto in cui rilevava che le attività umane stavano provocando un aumento sostanziale delle concentrazioni di anidride carbonica (CO₂) e di altri gas nell'atmosfera, con conseguente riscaldamento delle temperature del pianeta. Da allora ci sono state tante Conferenze delle Nazioni Unite sul clima, è aumentata la consapevolezza di governi e opinione pubblica sugli effetti della crisi climatica e sulla necessità di azioni decisive, e i paesi di tutto il mondo hanno introdotto una serie di politiche per ridurre le emissioni di gas serra, sebbene siamo lontani dall’obiettivo di ridurre le emissioni in modo tale da mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2°C.
Quali interventi hanno funzionato davvero? Questa domanda è al centro di un nuovo importante lavoro di un gruppo di ricercatori tedeschi, guidati da Annika Stechemesser del Potsdam Institute for Climate Impact Research, che ha analizzato 1.500 politiche climatiche attuate in 41 paesi negli ultimi due decenni e ha rilevato che solo alcune decine sono state realmente efficaci.
I ricercatori hanno analizzato otto tipi di interventi politici in quattro settore: edilizia, elettricità, industria e trasporti:
- Politiche di prezzo, come le tasse sul carbonio e i permessi che possono essere acquistati e venduti
- Regolamentazione, come divieti, codici edilizi e norme sull'efficienza energetica
- Applicazione o eliminazione di sussidi, come gli incentivi da parte dei governi ai proprietari di immobili per l'installazione di impianti solari sui tetti o l'eliminazione delle agevolazioni fiscali per l'industria dei combustibili fossili.
Delle 1.500 politiche analizzate, i ricercatori hanno identificato 63 casi in cui le misure adottate hanno portato a una riduzione significativa delle emissioni, tra 0,6 e 1,8 miliardi di tonnellate metriche di CO2. L’aspetto più rilevante dello studio è che i provvedimenti più efficaci sono quelli che hanno combinato tipologie diverse di intervento. Per fare un esempio, nella transizione all’elettrificazione del sistema di trasporti una tassazione sui carburanti fossili, combinata con sussidi per sviluppare una rete di stazioni di ricarica per i veicoli elettrici, sarà più efficace dell’adozione di una sola tipologia di intervento.
Lo studio ha anche rilevato che i mix di politiche efficaci variano a seconda dei settori. Nelle economie dei paesi più ricchi, ad esempio, la tassazione è stata una politica particolarmente efficace nei settori dominati da aziende orientate al profitto, come l'elettricità e l'industria. Mentre un mix di incentivi e regolamenti ha funzionato meglio nei settori dell'edilizia e dei trasporti. Nei paesi in via di sviluppo, dove i regolamenti per limitare l'inquinamento e gli investimenti in tecnologie verdi potrebbero essere più adatti, invece, gli interventi sui prezzi non hanno portato a grandi riduzioni delle emissioni nel settore dell'elettricità.
Ad esempio, il Regno Unito ha registrato un calo del 19% delle emissioni del settore elettrico tra il 2012 e il 2018 dopo che l'Unione Europea ha introdotto un prezzo del carbonio per i produttori di energia. Nello stesso periodo, il Regno Unito ha attuato una serie di altre misure, tra cui standard più severi per l'inquinamento atmosferico, incentivi per la costruzione di parchi solari ed eolici e un piano per eliminare gradualmente le centrali a carbone. Analogamente, la Cina ha ridotto le proprie emissioni industriali del 20% dal 2013 al 2019 attraverso un programma pilota di scambio di emissioni, ma anche riducendo i sussidi ai combustibili fossili e rafforzando i finanziamenti per gli investimenti in efficienza energetica.
“Non abbiamo ancora la soluzione definitiva che funziona da sola”, spiega Felix Pretis, coautore dello studio e professore di economia presso l'Università di Victoria nella British Columbia, in Canada. La tariffazione del carbonio è stata “un'eccezione notevole” perché ha portato a grandi tagli delle emissioni da sola – e ha funzionato particolarmente bene per le emissioni dell'industria e dell'elettricità. Tuttavia, prosegue Pretis, “funziona ancora meglio se viene integrata e confezionata come un mix di politiche”.
Il caso della tariffazione del carbonio è emblematico, come scriveva Mattia Marasti sempre su Valigia Blu:
Politiche come la carbon tax rappresentano una condizione necessaria per contrastare la crisi climatica, ma occorre tenere conto di aspetti come l’equità e la distribuzione delle risorse, per evitare che a pagarne il prezzo siano le fasce meno abbienti e quella media della popolazione che già oggi portano sulle loro spalle il peso degli eventi estremi.
Per quanto si tratti dello studio più grande fatto finora, proprio per l’ampiezza della mole dei dati passati sotto esame e alcuni parametri imposti dai ricercatori, alcune politiche specifiche che potrebbero risultare efficaci sono passate inosservate. E, dunque, le politiche efficaci potrebbero essere più delle 63 indicate. Ad esempio, non ci sono dati ancora che dimostrino la riduzione delle emissioni nel settore dell'agricoltura e dell’uso del suolo.
Inoltre, lo studio ha riguardato solo gli effetti a breve termine e in una specifica nazione, osserva Jessika Trancik, docente al Massachusetts Institute of Technology. “Ma nella mitigazione dei cambiamenti climatici, ci interessano gli effetti su scala globale e la riduzione delle emissioni a zero, indipendentemente dal luogo in cui le emissioni vengono ridotte”, spiega Trancik. “Quindi il fatto che in 63 casi sia stato rilevato un impatto significativo a breve termine dove sono state adottate le politiche, non significa che altre politiche non siano state efficaci”.
Ci sono due modi principali in cui una politica climatica può essere efficace. Il primo è quello di ridurre le emissioni in un determinato luogo e momento. Il secondo consiste nello sviluppare una tecnologia che permetta di ridurre le emissioni in futuro, magari in più luoghi, come i pannelli solari a basso costo derivanti dai progressi tecnologici. La riduzione delle emissioni e lo sviluppo di nuove tecnologie possono creare un ciclo di feedback positivo che lo studio potrebbe non essere in grado di cogliere, aggiunge Trancik.
Infine, a causa dei limiti dello studio, non sono state prese in considerazione alcune delle politiche climatiche più significative, spiega Gernot Wagner, economista del clima presso la Columbia Business School, indicando le tasse sul carbonio approvate dal governo svedese all'inizio degli anni '90 e l'Inflation Reduction Act, firmato dal presidente Joe Biden nel 2022. La legge sul clima degli Stati Uniti investe centinaia di miliardi di dollari in energia pulita e crediti d'imposta per tecnologie a bassa emissione di carbonio come le pompe di calore. Si stima che la legge possa ridurre le emissioni del 40% entro il 2030, rispetto ai livelli del 2005.
“Non sarei sorpreso se, ripetendo questo studio tra cinque o dieci anni, l'Inflation Reduction Act risulterebbe come causa di un grande calo delle emissioni”, conclude Wagner.
Inoltre nel round-up sul clima di questa settimana:
Un reddito di base di 2 sterline al giorno come soluzione per proteggere le foreste pluviali del Perù?
Insieme a due organizzazioni indigene di sole donne – l’Organizzazione nazionale delle donne indigene andine e amazzoniche del Perù (ONAMIAP) e l’Organizzazione delle donne indigene della Selva centrale del Perù (OMIAASEC) – Cool Earth, una ONG che si occupa di azioni per il clima, ha avviato un progetto di reddito di base destinato alle comunità amazzoniche del Perù centrale. L’obiettivo: coniugare sostenibilità economica e protezione delle foreste pluviali.
Il progetto coinvolge 188 persone in tre comunità Asháninka e Yánesha nella riserva di Avireri-Vraem, selezionate perché notoriamente interessate alla conservazione e alla riforestazione. Ogni persona riceve due sterline al giorno che può spendere senza vincoli. I fondi vengono distribuiti direttamente alle comunità, consentendo alle famiglie di ricostruire i propri mezzi di sostentamento e di proteggere la propria terra.
“All'inizio c'era molta paura e sfiducia. Le comunità avevano la percezione che si trattasse di un'altra truffa, temevamo che si trattasse di un altro progetto che avrebbe cercato di imporre qualcosa dall’alto senza rispettare la loro autonomia”, racconta Ketty Marcelo, presidente di ONAMIAP. Poi, invece, sono arrivati i primi risultati. Prima del progetto pilota, nove persone su 10 nelle comunità riferivano di essere in difficoltà per la mancanza di cibo, e i primi monitoraggi mostrano che la situazione è migliorata. Le famiglie hanno anche potuto investire denaro e dedicare più tempo alla coltivazione (cacao, manioca, caffè) per il cibo o per la vendita.
“È il primo progetto pilota di reddito di base al mondo per le popolazioni indigene che vivono nelle foreste pluviali, con un collegamento alla protezione della foresta e alla lotta contro la crisi climatica”, ha dichiarato Isabel Felandro, responsabile globale dei programmi di Cool Earth, che guida il lavoro dell'organizzazione in Perù. “Esistono altre iniziative di reddito di base in tutto il mondo, ma la maggior parte di esse si concentra su questioni umanitarie o sociali. Nelle comunità con cui lavoriamo, le loro attività sono molto legate alla protezione della foresta”.
Cool Earth spera che il progetto pilota possa ispirare altri a replicare il modello e a creare programmi di reddito di base per le comunità della foresta pluviale in tutto il mondo. Sta esplorando potenziali collaborazioni in Papua Nuova Guinea e nel bacino del Congo in Africa. [Fonte: Guardian]
In Africa gli Stati stanno perdendo fino al 5% del loro PIL all'anno a causa dei cambiamenti climatici
Secondo un nuovo rapporto dell'Organizzazione Meteorologica Mondiale (OMM), ogni anno in Africa gli Stati perdono fino al 5% del loro PIL a causa dei cambiamenti climatici e stanno spendendo fino al 9% del loro budget per le politiche di adattamento al clima. “L’Africa – si legge nel rapporto – è responsabile di meno del 10% delle emissioni globali di gas serra, ma è la regione più vulnerabile agli eventi climatici estremi, tra cui siccità, inondazioni e ondate di calore.
Lo studio dell’OMM ha preso in considerazione il 2023, uno dei tre anni più caldi mai registrati in Africa. Tra settembre e ottobre 2023, circa 300.000 persone in tutta l'Africa occidentale sono state colpite da inondazioni. Lo Zambia ha vissuto la peggiore siccità degli ultimi 40 anni. che ha colpito quasi 6 milioni di persone. Nella regione del Sahel, a sud del Sahara, le inondazioni hanno colpito oltre 716.000 persone. Secondo gli esperti, l'andamento degli eventi meteorologici estremi in Africa continuerà anche nel 2024.
Come ha spiegato il climatologo Antonello Pasini, il riscaldamento globale sta causando lo spostamento verso nord della fascia di convergenza intertropicale, la zona dove si concentrano le piogge più intense. Il che sta portando precipitazioni eccezionali in aree che normalmente sono aride, come il Sahara, con conseguenze devastanti. Questo spostamento ha ripercussioni anche sul clima mediterraneo “perché lo spostamento più a nord della fascia di convergenza favorisce anche l’ingresso degli anticicloni africani sul nostro territorio”.
L’OMM invita i governi a investire nei sistemi di allerta precoce e nei servizi meteorologici. Se non verranno adottate misure adeguate, entro il 2030 fino a 118 milioni di africani saranno esposti a siccità, inondazioni e caldo estremo, avverte il rapporto che ha stimato tra i 30 e i 50 miliardi di dollari i costi di adattamento alle condizioni meteorologiche nel prossimo decennio. Se è vero che negli ultimi anni il continente africano ha attirato più fondi per progetti di mitigazione e adattamento al clima, riceve meno dell'1% dei finanziamenti annuali per il clima a livello globale. Sarà questo uno dei temi più intricati della prossima Conferenza delle Nazioni Unite sul Clima a Baku, in Azerbaigian. [Fonte: AP]
Come con gli eventi meteorologici estremi stanno aumentando i matrimoni infantili in Pakistan
A causa delle devastazioni provocate dagli eventi meteorologici estremi, molte famiglie sono costrette a ricorrere a matrimoni infantili per poter sopravvivere. È quanto affermano i gruppi per i diritti dei minori e l’UNICEF.
È stato questo il caso di Saima (nome inventato) che a soli 15 anni è stata data in sposa a un uomo che aveva il doppio dei suoi anni. Il matrimonio è avvenuto poco prima della stagione dei monsoni, che porta con sé piogge torrenziali e inondazioni. La famiglia temeva che potesse ripetersi la situazione del 2022, quando piogge massicce e inondazioni senza precedenti avevano sommerso un terzo del paese, rovinando i raccolti e costringendo allo sfollamento milioni di persone. E così il padre di Saima, Allah Bukhsh, contadino, dopo aver perso i suoi mezzi di sostentamento, ha deciso di dare in sposa sua figlia in cambio di 200.000 rupie pakistane (650 euro).
Secondo i dati messi a disposizione dal governo, il Pakistan è il sesto paese al mondo per numero di ragazze sposate prima dei 18 anni. L'età legale per il matrimonio varia da 16 a 18 anni nelle diverse regioni, ma la legge viene applicata raramente. L’UNICEF ha dichiarato che il Pakistan ha fatto “passi da gigante” nella riduzione del matrimonio infantile negli ultimi due decenni. Tuttavia, ha registrato un aumento significativo dopo le inondazioni del 2022. “In un anno con un evento di questa gravità, ci aspetteiamo un aumento del 18% nella prevalenza del matrimonio infantile: significherebbe cancellare cinque anni di progressi”. [Fonte: DW]
La battaglia dei pescatori filippini contro le centrali solari
Laguna de Bay, un enorme lago vicino a Manila, è una delle maggiori fonti di pesce delle Filippine. Ma con l'aumento della domanda di energia elettrica nella capitale e non solo, il governo sta valutando di utilizzare il lago d'acqua per l’energia solare.
Le Filippine hanno intenzione di produrre metà dell'elettricità da fonti rinnovabili entro il 2040 ma, essendo un arcipelago di oltre 7.000 isole, ha risorse limitate sulla terra ferma. Per questo motivo il governo sta valutando di ricorrere al fotovoltaico galleggiante, installando dei pannelli solari su specchi d'acqua. Il progetto proposto per il Laguna Lake diventerebbe il più grande al mondo su un lago naturale, generando circa 2 gigawatt di elettricità per l'area di Laguna e Manila entro il 2026.
Ma la più grande alleanza di pescatori delle Filippine, la National Federation of Small Fisherfolk Organizations in the Philippines, o Pamalakaya, sostiene che il progetto potrebbe avere un impatto su più di 8.000 pescatori e potrebbe ridurre le loro zone di pesca. Temono inoltre che i pannelli solari trasportati dall'acqua possano ridurre la cattura dei pesci, ostacolare le imbarcazioni o addirittura distruggere.
D'altra parte, la popolazione ha bisogno di energia. E il Pakistan deve ridurre la sua dipendenza dal carbone, responsabile di circa il 62% della sua produzione di elettricità lo scorso anno. L'autorità locale coinvolta in questa battaglia, la Laguna Lake Development Authority (LLDA), ha dichiarato di incontrare regolarmente i gruppi di pescatori per ascoltare le loro preoccupazioni ma la soluzione è ancora lungi dall’essere trovata. [Fonte: Contex Newsroom]
Le ‘climate stripes’ possono cambiare il nostro modo di pensare all’inquinamento dell’aria?
Ispirandosi alle ‘climate stripes’ (le strisce sul clima) di Ed Hawkins, un team di scienziati ha creato un nuovo modo per visualizzare l’inquinamento atmosferico dal 1850 ad oggi e come a seconda di dove abitiamo e delle azioni dei governi dei singoli paesi respiriamo un’aria più o meno pulita.
Ogni anno è una barra verticale separata, colorata in base alla quantità di inquinamento da particelle. L'aria che soddisfa le linee guida dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) è di colore blu cielo. Le sfumature di giallo, marrone e nero rappresentano l'inquinamento più elevato, in uno schema di colori che riflette più di 200 immagini di smog da tutto il mondo. La dottoressa Kirsty Pringle, dell'Università di Edimburgo, che ha co-diretto il progetto, ha dichiarato: “L'inquinamento atmosferico è spesso definito il killer invisibile, ma queste immagini rendono visibile l'invisibile, mostrando i cambiamenti nel corso dei decenni”.
Attraverso le strisce è possibile farsi un’idea dei miglioramenti di Londra e Pechino, o di come la qualità dell’aria stia peggiorando a Jakarta e Islamabad, la cui traiettoria è rappresentativa dei percorsi di molti paesi in via di sviluppo che stanno vedendo una rapida urbanizzazione e crescita industriale senza controlli sull'inquinamento atmosferico.
Oltre il 99% della popolazione mondiale respira ancora aria non conforme alle linee guida dell'Organizzazione Mondiale della Sanità. Anche dopo i miglioramenti registrati in Europa, l'inquinamento da particelle è ancora causa di oltre 400.000 decessi precoci all'anno. [Fonte: The Conversation]
I dati sui livelli di anidride carbonica nell'atmosfera
Immagine in anteprima via carbonminus.com