“Nella lotta alla crisi climatica gli ostacoli sono politici e non tecnologici. Ed è fuorviante dire che non c’è alternativa al nucleare”
13 min letturaIl round-up settimanale sulla crisi climatica e i dati sui livelli di anidride carbonica nell'atmosfera.
In un'intervista a Calcalistech.com il professor Michael Mann, uno dei principali climatologi al mondo, celebre in tutto il mondo per aver elaborato il grafico della “Mazza da hockey” che ha mostrato per la prima volta con l’efficacia visiva l’inequivocabilità del riscaldamento globale, ha parlato delle insidie presenti nel dibattito pubblico sulla lotta al cambiamento climatico e delle soluzioni che si potrebbero adottare per decarbonizzare le nostre economie.
Rispetto alle azioni intraprese rispetto alla crisi climatica, bisogna uscire dalla diade “successo/fallimento”, spiega Mann riferendosi alla recente Conferenza sul Clima di Glasgow. “Troppe persone vogliono in qualche modo classificare Glasgow/COP26/l'intero quadro delle Conferenze sul clima come un fallimento o un successo. Ma se facciamo un passo indietro e osserviamo i risultati del vertice, il bicchiere è mezzo pieno. Abbiamo avuto una serie di nuovi impegni NDC (ndr, i contributi determinati a livello nazionale per ridurre le emissioni) da paesi, inclusa l'India, che per la prima volta si sono impegnati ad azzerare le proprie emissioni di carbonio. Anche se più in là rispetto alle previsioni, entro il 2070. Le simulazioni sul riscaldamento globale ci dicono che se ogni paese mantenesse gli impegni il riscaldamento globale potrebbe rimanere sotto i 2° C. Non è ancora abbastanza. Dobbiamo scendere sotto un grado e mezzo per avere davvero la certezza di poter evitare i peggiori impatti del cambiamento climatico”.
Mann individua più soluzioni per la decarbonizzare le nostre economie. Innanzitutto, “dobbiamo togliere i sussidi alle industrie dei combustibili fossili e incentivare le energie rinnovabili. In questo momento il campo da gioco non è equo e abbiamo politici che continuano a sostenere l'industria dei combustibili fossili attraverso ogni tipo di sussidio, diretto e indiretto. L'energia rinnovabile sta diventando più economica ma l’ago della bilancia pende ancora dalla parte delle fonti fossili”. Gli strumenti a disposizione sono tanti, prosegue Mann. “La carbon tax è uno di questi. Poi ci sono approcci alternativi, come il “cap and trade”, un programma di regolamentazione del governo che stabilisce un tetto alle emissioni (in particolare l’anidride carbonica) consentite per l’attività industriale delle aziende, progettato per limitare il livello totale di emissioni, utilizzato negli Stati Uniti e in Europa”.
Anche i comportamenti individuali sono importanti, aggiunge Mann, ma non saranno mai sufficienti perché non possono sostituirsi all’azione delle istituzioni. “Ci sentiamo bene con noi stessi quando percepiamo che stiamo lavorando per risolvere un problema più grande. Quello di cui dobbiamo essere consapevoli è che l'industria dei combustibili fossili e coloro che promuovono la loro agenda vogliono convincerci che il peso è tutto sulle nostre spalle, per togliere loro la pressione. Ma non siamo noi ad avere il potere decisionale di fornire sussidi alle industrie delle energie rinnovabili. Non abbiamo il potere di bloccare nuove infrastrutture per i combustibili fossili. Non fissiamo il prezzo del carbonio. Questa è responsabilità e competenza dei nostri rappresentanti politici. Noi abbiamo il dovere di fare pressione su di loro, di non votare quei politici che si rifiutano di sostenere una politica climatica significativa e appoggiare quelli che lo faranno. Possiamo usare la nostra voce attraverso il voto e facendo pressione sui politici, opinion leader e persone che hanno influenza e potere a vario livello”.
Infine, Mann si dice scettico sul nucleare. Dire che il nucleare è la soluzione perché “non abbiamo la tecnologia per decarbonizzare la nostra economia è molto fuorviante e ci porta nella direzione sbagliata. L'energia nucleare non solo presenta ogni tipo di rischio, ma non è economicamente vantaggiosa. È molto più costosa, richiede molti più sussidi governativi, quindi non ha nemmeno senso dal punto di vista dell'economia di mercato”, afferma Mann commentando le affermazioni di alcuni sostenitori del nucleare, come Bill Gates.
“Gates sceglie di sostenere quel percorso pericoloso perché minimizza il ruolo che le energie rinnovabili possono svolgere oggi. Ignora la letteratura molto consistente che dimostra un percorso in avanti in cui possiamo decarbonizzare l'economia globale con la tecnologia di energia rinnovabile esistente: eolica, solare, geotermica, accumulo di energia, tecnologia delle reti intelligenti. E sostiene anche la geoingegneria, che consiste nell’iniezione di particelle di zolfo nella stratosfera per far riflettere la luce del sole indietro nello spazio. Se si considerano i potenziali effetti collaterali, potremmo finire per rovinare il pianeta anche di più. Abbiamo gli strumenti, gli ostacoli non sono tecnologici come suggerisce Gates, sono politici”.
USA, il piano sul clima e sulla spesa sociale dell’amministrazione Biden in bilico al Senato per il voto decisivo del democratico Joe Manchin
Chissà se il nome di Joe Manchin III finirà un giorno nei libri di storia. La scorsa settimana Manchin, senatore democratico della Virginia Occidentale con forti legami con l’industria del carbone, ha affermato di non voler sostenere nella sua attuale versione il “Build Back Better”, l’ambizioso progetto di legge sul cambiamento climatico e la spesa sociale dell’amministrazione Biden. Il voto di Manchin è decisivo considerato che il Senato è diviso equamente tra Repubblicani e Democratici.
A novembre il Congresso ha approvato una legge da mille miliardi di dollari, di cui alcuni destinati a nuovi finanziamenti per la ricerca e lo sviluppo di tecnologie energetiche a basse emissioni di carbonio, come combustibili a idrogeno pulito, reattori nucleari avanzati e tecniche per rimuovere l'anidride carbonica dall'atmosfera. 7,5 miliardi di dollari saranno utilizzati per la realizzazione di una rete nazionale di caricabatterie per i veicoli elettrici. Ma, fatta eccezione proprio per le colonnine per caricare i veicoli elettrici, molte di queste tecnologie richiedono anni di sviluppo ed è improbabile che incidano a breve tempo sulle emissioni nel prossimo decennio.
Per questo, scrivono Brad Plumer and Nadja Popovich sul New York Times, senza i 555 miliardi di dollari in incentivi previsti dalla “Build Back Better”, approvata alla Camera a novembre e in discussione ora al Senato, è molto difficile che gli Stati Uniti riescano a rispettare l’obiettivo di ridurre drasticamente le emissioni entro 2030 come sostenuto più volte dal presidente americano Joe Biden. Questo grafico del New York Times mostra i due scenari che si prefigurerebbero a seconda che la proposta di legge venga approvata o meno.
Oltre ai 555 miliardi di dollari di spesa per l’energia pulita, la “Build Back Better” destina nuovi crediti d'imposta per le imprese che installano energia eolica, solare, geotermica, batterie e altre tecnologie energetiche pulite nei prossimi dieci anni e, fino a un massimo di 12.500 dollari, per gli acquirenti di veicoli elettrici. Sono previsti incentivi finanziari per tenere aperti le centrali nucleari a basse emissioni di carbonio che rischiano di essere chiusi prematuramente e gli impianti di cattura e stoccaggio del carbonio.
Le due leggi sono complementari, spiega Stephen Naimoli, esperto di energia e clima presso il Center for Strategic and International Studies: “Mentre la legge sulle infrastrutture aiuterà a coltivare le tecnologie energetiche pulite del futuro, la proposta di legge “Build Back Better” è pensata per accelerare l'uso delle tecnologie che sono pronte oggi”.
Secondo i modelli che accompagnano il piano, con la proposta di legge l'energia eolica e solare si espanderebbe di circa tre o quattro volte rispetto ad oggi, sostituendo le centrali a carbone rimanenti, ci sarebbe un'accelerazione delle vendite dei veicoli elettrici con un calo delle emissioni dei trasporti, le aziende inizierebbero a installare tecnologie di cattura del carbonio, seppellendo milioni di tonnellate di anidride carbonica nel sottosuolo.
Manchin ha contestato l’intero impianto del disegno di legge che, a suo dire, metterebbe a repentaglio l'affidabilità della rete elettrica aumentando la dipendenza dalle catene di approvvigionamento estere, e si è detto contrario all’introduzione dei crediti d'imposta per l’acquisto dei veicoli elettrici a favore delle famiglie a reddito più alto e all’introduzione di una tassazione sulle aziende fossili che emettono metano. Il metano è responsabile di un terzo dell’attuale riscaldamento globale causato dalle attività umane. È il principale gas serra dopo l'anidride carbonica, ha un potenziale di intrappolamento del calore più elevato rispetto all’anidride carbonica, ma si decompone nell'atmosfera più velocemente. Il che significa che la riduzione delle emissioni di metano può avere un rapido impatto sul contenimento del riscaldamento globale. Gli Stati Uniti sono stati capofila dell’iniziativa che durante la COP26 ha portato più di 100 paesi a impegnarsi per ridurre le emissioni di metano del 30% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2020.
Le posizioni di Manchin sono state “smontate” in un editoriale del Boston Globe. Il disegno di legge aiuta tutti, “dalle famiglie con bambini ai lavoratori nelle miniere di carbone, dalle case automobilistiche e alle piccole imprese”, ed è anche meno dispendioso di quanto previsto inizialmente. Anche gli “United Mine Workers of America” hanno chiesto al senatore di cambiare idea e votare la “Build Back Better”.
Il voto al Senato potrebbe avere conseguenze a cascata per il resto del pianeta. Se gli Stati Uniti, il più grande produttore di emissioni in termini storici, non saranno in grado di concretizzare l’intenzione di ridurre le emissioni provenienti dai combustibili fossili e raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050, anche gli altri paesi potrebbero sentirsi chiamati a rallentare i loro piani, rendendo sempre più probabile il superamento della soglia degli 1,5° C di riscaldamento globale rispetto ai livelli preindustriali.
Nel frattempo, l'Environmental Protection Agency (EPA) ha definito parametri più rigorosi sulle emissioni dei veicoli. Una decisione che di fatto ribalta l’approccio avuto sotto l’amministrazione Trump e accelera la transizione verso le automobili elettriche. Le nuove regole entreranno in vigore nel 2023 e richiedono una riduzione delle emissioni dei veicoli del 28,3% entro il 2026. L’obiettivo è arrivare a 3,1 miliardi di tonnellate di emissioni di Co2 in meno entro il 2050.
Secondo le valutazioni di EPA i benefici della riduzione delle emissioni dei veicoli supereranno i costi fino a 190 miliardi di dollari e i conducenti risparmieranno tra 210 e 420 miliardi di dollari entro il 2050. L’EPA stima che entro il 2026 il 17% dei nuovi veicoli negli USA sarà elettrico o ibrido. Il presidente Biden punta al 50% entro il 2050
Il settore dei trasporti è la principale fonte di emissioni di gas serra negli Stati Uniti e c’è curiosità sulle strategie che adotteranno le case automobilistiche. L'Alliance for Automotive Innovation ha affermato che le nuove regole richiederanno un aumento sostanziale delle vendite di veicoli elettrici e incentivi governativi affinché i consumatori acquistino tali auto.
“Stiamo definendo standard solidi e rigorosi che ridurranno in modo aggressivo l'inquinamento che sta danneggiando le persone e il nostro pianeta”, ha commentato l'amministratore dell'EPA Michael Regan. Probabilmente, hanno dichiarato alcuni funzionari dell’EPA, il prossimo anno ci sarà un ulteriore inasprimento degli standard richiesti fino al 2030 e oltre.
Perché il costo del gas sta crescendo in Europa
Da mesi la crescita del costo del gas è significativa e non accenna a diminuire. Anzi, il 21 dicembre, primo giorno dell’inverno, sono stati battuti tutti i record sui mercati. Il prezzo di riferimento europeo, il TTF olandese, ha guadagnato oltre il 22%, attestandosi a 180,267 euro per megawattora (MWh). Valori dieci volte superiori a quelli osservati un anno fa, con un incremento dall’inizio di dicembre del 90%. Quali sono le cause di questo aumento dei prezzi?
In un approfondimento sulla questione, Le Monde ha individuato quattro fattori: la dipendenza dell’Unione Europa dal resto del mondo per i suoi consumi energetici; il significativo aumento del fabbisogno energetico sia per le temperature più rigide sia per la ripresa economica dopo il lockdown; la maggiore necessità di gas per fattori meteorologici che hanno limitato l’energia proveniente dall’eolico; la contrazione dell’offerta mondiale. La combinazione di tutti questi aspetti ha portato probabilmente all’aumento dei prezzi e al cosiddetto “shock del gas”.
Nello specifico, i principali fornitori europei di gas naturale non sono stati in grado di aumentare le loro esportazioni per una serie di motivi: lavori di manutenzione sui gasdotti russi, un incendio su uno di questi la scorsa estate, la riduzione del transito di gas russo attraverso l'Ucraina a causa delle tensioni tra i due paesi, operazioni di manutenzione sui giacimenti nel Mare del Nord e la chiusura del più grande sito di produzione di GNL in Norvegia dopo un incendio.
L’aumento del costo del gas ha un impatto diretto sui prezzi dell’elettricità in tutti i paesi in ragione del funzionamento del mercato unico europeo dell'elettricità, sul quale gli Stati acquistano una parte più o meno importante della loro elettricità. I prezzi all'ingrosso di questa energia sono fissati secondo il principio del costo marginale: nella maggior parte dei casi, sono le centrali a gas a determinare il prezzo all'ingrosso dell'energia elettrica.
Per prevenire le possibili conseguenze sociali di questa ondata, molti paesi stanno adottando misure per mitigare l'impatto, alla fine della filiera, sulle famiglie. Secondo la Commissione di regolazione dell'energia (CRE) francese, il calo dei prezzi all'ingrosso non è previsto prima della primavera o estate 2022. Per il ritorno alla “normalità” bisognerà aspettare il 2023.
Come l'energia solare ha cambiato la vita dei rifugiati siriani in Giordania
Zahra Abbas aveva 17 anni quando è fuggita in Giordania dalla Siria nell'inverno del 2012 con i suoi genitori, il fratello più piccolo e la sua anziana zia. Sono stati tra i primi rifugiati a stabilirsi nel campo Za'atari e sono ancora lì.
Za'atari è stato aperto nel luglio 2012 come primo campo profughi siriano in Giordania e da allora si è evoluto in un insediamento permanente. Non è solo una delle città più grandi della Giordania per popolazione, con 80.000 abitanti, è anche il più grande campo profughi a energia solare del mondo. L'agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) stima che l'impianto solare da 12,9 MW consente di risparmiare 13mila tonnellate di emissioni di carbonio e 5,5 milioni di dollari in costi di carburante all'anno, rispetto all'utilizzo di generatori diesel.
I residenti del campo affermano che un migliore accesso all'elettricità ha migliorato la loro qualità di vita. “Non sapevo per quanto tempo saremmo rimasti qui, ma non pensavo che lo avremmo fatto per così tanto tempo. Quando siamo arrivati non c’era quasi nulla, avevamo delle lanterne e una stufa portatile come fonte di calore per affrontare l'inverno. Vivevamo in una vera tenda. Fuori era freddo, buio e spaventoso. Niente è come adesso”, dice a Climate Home News Abbas, che ora ha 26 anni. “Ricordo di aver avuto paura. Non avevamo muri intorno a noi, faceva buio molto presto. Non mi sentivo al sicuro. Naturalmente non era come la guerra in Siria, ma non era nemmeno un ambiente vivibile. Negli anni è migliorato».
La costruzione di 40.000 pannelli solari al confine di Za'atari è iniziata nell'aprile 2017 per far fronte alla necessità di contenere i costi dell’elettricità che l'UNHCR, sottofinanziato, non riusciva a sostenere. “Stava diventando impossibile fornire elettricità al campo. L'UNHCR non poteva permettersi una bolletta elettrica di un milione di dollari al mese”, afferma Mohamed Al-Taher, responsabile delle relazioni esterne dell'UNHCR a Za'atari. Per contenere i costi, i funzionari del campo hanno limitato l'accesso all'elettricità a otto ore al giorno, dalle 18 alle 2. Ora, con una capacità di generazione di energia di 12,9 MW, l'impianto solare è in grado di fornire 12-16 ore di elettricità ogni giorno a ogni edificio del campo, lampioni e strutture operative attraverso una rete locale. Ogni famiglia di Za'atari può utilizzare circa 936 kWh all'anno, rispetto ai 1.244 kWh pro-capite di chi vive in Giordania al di fuori dei campi.
“Per me, il senso di sicurezza che deriva dalle luci stradali dopo il tramonto è stato un miglioramento molto importante”, afferma Abbas. "Prima avevo così tanta ansia."
La maggior parte dei rifugiati non ha alternative al campo, non ha nessun altro posto dove andare. In generale, l'UNHCR stima che un rifugiato medio (non solo siriano) trascorre 17 anni all'interno di un campo. Secondo una ricerca sempre dell'UNHCR del 2017, il 73% dei rifugiati siriani nel campo “non aveva intenzione di tornare [in Siria] nei prossimi 12 mesi”. Abbas è tra questi “Non so quando la mia famiglia andrà via dal campo e dove. Dieci anni fa volevo tornare in Siria, ma a cosa torniamo adesso? Questa è casa per ora. Non per sempre, si spera, ma per un po' di tempo in più”, dice.
Za'atari potrebbe diventare un modello da estendere a tutta la Giordania, riducendo la dipendenza dall’importazione dei combustibili fossili importati, spiega Lauren Burns, dell'Università del Mississippi, che ha pubblicato una tesi sull'energia di Camp Za'atari nel 2019. La Giordania dipende dall'importazione di petrolio e gas per la maggior parte della sua elettricità. Ha subito gravi interruzioni nel 2009, quando il suo principale gasdotto dall'Egitto è stato interrotto durante la primavera araba. Da allora, la sicurezza energetica è stata una priorità, con particolare attenzione alle fonti rinnovabili come parte del piano per diventare più autosufficienti.
L’atlante del rischio climatico nei paesi del G20
Dall'erosione delle coste alla diffusione delle malattie tropicali, dalla siccità alle ondate di calore e all'innalzamento del livello del mare, dalla diminuzione delle scorte di cibo e alle minacce al turismo, ogni paese è a rischio per gli impatti dei cambiamenti climatici. Alla vigilia dell'incontro del G20 in Italia, lo scorso ottobre, la Fondazione CMCC (Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici) ha pubblicato l'Atlante dei rischi climatici dei paesi del G20. Realizzato con il supporto della European Climate Foundation e con il contributo scientifico di Enel Foundation, il rapporto è basato sulle più avanzate conoscenze scientifiche disponibili sul cambiamento climatico. L’atlante valuta gli impatti della crisi climatica per ogni singolo paese.
Nello scenario peggiore possibile, senza azioni urgenti per ridurre le emissioni di carbonio, il PIL calerà ogni anno per i danni climatici fino a un massimo del 4% annuo entro il 2050 e di oltre l’8%entro il 2100, il doppio delle perdite economiche causate dai lockdown per la pandemia. Più velocemente i paesi del G20 adotteranno politiche a basse emissioni di carbonio, più facilmente saranno gestibili gli impatti della crisi climatica. Limitare l'aumento della temperatura globale ai 2°C potrebbe far scendere il costo degli impatti climatici nel G20 di appena lo 0,1% del PIL totale entro il 2050 e dell'1,3% entro il 2100.
Sempre nello scenario peggiore, la ricerca mostra che l'aumento delle temperature e le intense ondate di calore potrebbero causare gravi siccità, minacciando le risorse idriche essenziali per l'agricoltura, portando a un numero enorme di perdite di vite umane e aumentando la possibilità di incendi. Le ondate di calore potrebbero essere dieci volte più durature. In Argentina, Brasile e Indonesia fenomeni di caldo estremo potrebbero arrivare a durare oltre 60 volte di più entro il 2050. In Europa, le morti per caldo estremo potrebbero aumentare da 2.700 all'anno a 90.000 ogni anno entro il 2100.
Il cambiamento climatico – prosegue l’Atlante – influirà sulla sicurezza alimentare: in India, il calo della produzione di riso e grano potrebbe provocare perdite economiche fino a 81 miliardi di euro entro il 2050 e una perdita del 15% del reddito degli agricoltori entro il 2100. Entro il 2050, il potenziale pescato potrebbe diminuire di un quinto in Indonesia.
L'innalzamento del livello del mare potrebbe danneggiare le infrastrutture costiere nei prossimi 30 anni. I più danneggiati il Giappone e Sudafrica, che potrebbero perdere rispettivamente 404 miliardi di euro e 815 milioni di euro entro il 2050.
In Australia, incendi boschivi, inondazioni costiere e uragani potrebbero aumentare i costi assicurativi e ridurre il valore delle proprietà di 611 miliardi di dollari australiani entro il 2050.
Immagine in anteprima: Kenueone via pixabay.com