Emergenza clima in Italia: dallo scioglimento dei ghiacciai alla siccità in questi anni gli scienziati hanno lavorato, i politici no
15 min letturaIl round-up settimanale sulla crisi climatica e i dati sui livelli di anidride carbonica nell'atmosfera.
Il disastro di Punta Rocca è stata una tragedia inattesa di un’emergenza annunciata, scrive lo scrittore e giornalista Fabio Deotto su Fanpage.
Inattesa, perché il fronte di 200 metri che ha ceduto domenica scorsa è stato fermo per centinaia di anni; annunciata, perché “nell’ultimo secolo il ghiacciaio della Marmolada si è ridotto del 90%, e questo con ogni probabilità è stato il fattore più determinante per quello che è successo a Punta Rocca”.
“C’è una frase che non riesco a togliermi dalla testa” tra tutte quelle sentite in queste ore, scrive Deotto, ed è: «Quella calotta è lì da centinaia di anni, nessuno poteva immaginarsi una cosa simile». È una frase particolarmente sconfortante perché restituisce lo sgomento di chi è abituato a considerare la montagna come un punto di riferimento, una certezza inamovibile, e si trova invece a vederla sgretolarsi di colpo”.
#Marmolada nelle immagini @TgrRaiTrentino il crollo del costone pic.twitter.com/DnckWWEjNM
— Alessandro Casarin (@casarinale58) July 3, 2022
Poco prima delle 14 di domenica 3 luglio, un enorme blocco di ghiaccio si è staccato dal ghiacciaio della Marmolada, cadendo verso valle e travolgendo decine di alpinisti che si trovavano lungo il percorso. Il seracco era alto 80 metri, largo 200 e profondo 60 e, stando a quanto dichiarato dal presidente della provincia di Trento, Maurizio Fugatti, è sceso dalla montagna a 300 chilometri orari per circa 500 metri. Nella zona, la temperatura era di 10 gradi, completamente fuori norma, mentre lo zero termico era collocato a 4.100 metri (oltre i 3.343 della Marmolada). Al momento si contano sette morti, otto feriti e 13 dispersi.
Ma come è potuto accadere?
“Le temperature altissime degli ultimi tempi hanno fatto sì che un crepaccio coperto dal ghiaccio si riempisse d'acqua, spiega Carlo Barbante, direttore dell'Istituto di Scienze Polari del CNR e professore Ordinario dell'Università Ca' Foscari Venezia. “In altre parole, la sua ‘pancia’ si è riempita d'acqua e ha lubrificato la superficie tra il ghiacciaio e la roccia in primis. Poi, a seguito di questo enorme peso creato dalla massa d'acqua, il crepaccio ha di fatto ceduto ed è andato a valle per 1200 metri di dislivello”.
Crollo seracco #Marmolada, effetti del riscaldamento globale su ghiacciai #Dolomiti, le analisi @arpaveneto su stazione #PUNTAROCCA: nei mesi maggio e giugno, nei quali si attivano processi fusione #ghiacciaio, temperature medie giornaliere superiori alla media storica di +3.2°C pic.twitter.com/v4MdeZj2T9
— ISPRA (@ISPRA_Press) July 4, 2022
Quanto accaduto, riferisce Arpa Veneto, “riporta l'attenzione sugli effetti del riscaldamento globale, in particolare su quelli che interessano con evidenza i ghiacciai dolomitici”. Nella zona di Punta Rocca, nei mesi di maggio e giugno (quando si attivano i processi di fusione del ghiacciaio) sono state registrate temperature medie giornaliere superiori alla media storica di 3,2°C nei due mesi. La seconda decade di maggio (+4,8°C) e giugno (+5,4°C) sono state le più calde. Per ben 7 volte sono stati superati i 10°C, con punte massime di 13,1°C il 20 giugno 2022. Sebbene non sia la temperatura più alta mai raggiunta, è l’intero periodo a risultare più caldo anche rispetto al 2003, anno considerato da tutti record per le temperature estive.
Ma più che le temperature registrate a livello giornaliero, a incidere è stata la persistenza di condizioni sfavorevoli che si stanno verificando ormai da anni, conclude Arpa Veneto.
“È stato un evento eccezionale che si è innestato in una crisi climatica in atto. Già a fine maggio c'è stato un episodio simile, un crollo legato alle temperature molto alte”, spiega ancora Barbante.
Ma considerare quello di Punta Rocca come un evento eccezionale è pericoloso, oltre che fuorviante, scrive ancora Deotto: “la tragedia di domenica si colloca in un periodo di diffuse anomalie climatiche: l’Italia sta attraversando una crisi idrica senza precedenti, fiumi e laghi sono al loro minimo storico, il cuneo salino ha risalito il Po per 30 km rovinando i raccolti, il tutto mentre l’ennesima ondata di caldo tiene in ostaggio la Penisola”.
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“Il seracco sulla Marmolada e la siccità di portata secolare che avvolge l'Italia sono strettamente collegati - in fondo sono la stessa notizia”, commenta in un post su Facebook Giorgio Vacchiano, professore associato di Gestione e pianificazione forestale all’Università Statale di Milano. “La scomparsa del ghiacciaio della Marmolada, graduale o improvvisa, è un'immagine fedele di come agisce la crisi climatica. È un processo che accelera da solo, un 'tipping point': il ghiaccio che fonde scopre le rocce scure, che attirano più calore rispetto alla superficie gelata di colore bianco. Contemporaneamente, l'acqua di fusione si accumula sul fondo del ghiacciaio, scorre tra ghiaccio e roccia e lubrifica la massa glaciale, che scorre così ancora più velocemente. Avviene in Groenlandia, in Himalaya, e ora sulle Alpi. La stessa cosa avviene, a scala più ampia, in vari punti della terra: la crisi climatica innesca circoli viziosi, fenomeni che si autoalimentano e che rischiano di scappare di mano. Il rallentamento della corrente del golfo, la savanizzazione dell'Amazzonia, lo scioglimento del permafrost: processi che accelerano all'improvviso e non si fermano facilmente, e che sarebbe meglio non innescare”.
Secondo un modello creato nel 2020 dal team di ricercatori dell’International Centre for Theoretical Physics (ICTP) di Trieste, tutti i ghiacciai alpini continueranno a diminuire e la maggior parte rischia di scomparire completamente entro la fine del secolo se non si abbatteranno le emissioni di gas serra nell'atmosfera.
“I risultati di questo studio indicano l'inevitabile destino di scomparsa dei ghiacciai alpini, per tutti i vari scenari di aumento dei gas serra nell'atmosfera esaminati, anche per quelli più ottimistici”, spiega Filippo Giorgi, uno degli autori della ricerca pubblicata su Climate Dynamics. “Nel caso del ‘business as usual’, lo scenario in cui tutto rimane invariato e non si prendono misure per cambiare la situazione, le previsioni indicano che la scomparsa di quasi tutti i ghiacciai alpini è certa”.
La scomparsa dei ghiacciai “avrebbe impatti enormi sugli ecosistemi alpini e causerebbe un massiccio calo della disponibilità di risorse idriche per le attività umane, soprattutto in estate”, osservava all’epoca Giorgio. “L'ambiente alpino è uno dei più importanti in Europa, sia dal punto di vista degli ecosistemi montani che da quello dell'economia (...) Questo dovrebbe quindi rappresentare un grande campanello d'allarme per l'Europa in generale e per l'Italia in particolare”.
Che fare, dunque? “C’è solo da adattarsi a una nuova situazione – avverte Renato Colucci, glaciologo dell’Istituto di Scienze Polari del CNR – riconoscerne i rischi e le nuove pericolosità e quindi agire di conseguenza, se invece avessimo voluto risolvere o almeno non arrivare a questo punto avremmo dovuto iniziare 30 anni fa con le politiche di conversione energetica verso le rinnovabili e magari adesso non ci troveremmo in una situazione che anno dopo anno diventa sempre più grave. La fusione glaciale alpina è solo un aspetto della medaglia, ma il riscaldamento globale ne porta con sé tanti altri”.
Il problema del piano italiano di adattamento ai cambiamenti climatici è che il testo esiste, è pronto e noto, realizzato nel 2017 e in attesa di approvazione dal 2018. Siamo nell'anno in cui doveva avere il primo aggiornamento e non è ancora entrata in vigore la prima versione.
— Ferdinando Cotugno (@FerdinandoC) July 4, 2022
E pensare che l’Italia un piano di adattamento lo aveva, realizzato nel 2017 e in attesa di approvazione dal 2018, osserva il giornalista Ferdinando Cotugno su Twitter. Nel frattempo, sono passati cinque anni che “hanno cambiato le proporzioni, l'impatto e la conoscenza dell'emergenza clima in Italia”. E in mezzo “ci sono state la tempesta Vaia, estati record di incendi nel 2018 e nel 2021, siccità e agricoltura in ginocchio quest'anno. Tecnici e scienziati hanno lavorato, i politici no, da cinque anni manca un decreto che ha fatto invecchiare il lavoro dei primi e ci ha lasciato senza uno strumento. Si chiama sottovalutazione, attraversa tre governi, uno di destra, uno di sinistra e uno di centro tecnocratico”, commenta Cotugno.
“L’Italia ha iniziato un percorso nazionale di adattamento nel 2012. Io ero il coordinatore e il principale autore dei rapporti che hanno poi costruito, in modo partecipato, la Strategia Nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici entrata in vigore nel giugno 2015. In particolare, con un centinaio di scienziati abbiamo prodotto tre rapporti, uno tecnico-scientifico sullo stato dell’arte, uno tecnico-giuridico con un’analisi della Strategia Europea di Adattamento, delle strategie nazionali già adottate in Europa e dell’acquis communautaire e sua attuazione in Italia, infine un documento strategico”, raccontava a Scienzainrete poco più di un anno fa Sergio Castellari, climatologo all’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), coordinatore e coautore, tra le altre cose, di vari rapporti per l’Agenzia Europea per l’Ambiente e il Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici (CMCC).
“Avevamo definito 18 settori e alcuni casi speciali (Area alpina e appenninica, Distretto idrografico del fiume Po) dove si evidenziavano le azioni possibili di adattamento a tre livelli temporali: al 2020, al 2030 e al 2050”, prosegue Castellari. “La strategia italiana è stata consegnata nel 2014 all’allora Ministero dell’Ambiente, approvata dalla Conferenza unificata Stato-Regioni, e adottata nel 2015. Per il 2020 avevamo evidenziato le azioni dette no regret, tra cui le azioni che permettono di conseguire benefici elevati e costi relativamente bassi indipendentemente dall’entità dei cambiamenti climatici, come l’incremento del verde urbano, l’arresto del consumo di suolo e il divieto di costruire nelle zone a rischio idrogeologico. La strategia suggeriva inoltre l'attuazione di almeno una parte di essa, con alcune azioni prioritarie, tramite appunto un piano nazionale per l’adattamento”.
Il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (PNACC), elaborato con un progetto finanziato dal Ministero dell'Ambiente e coordinato dal CMCC, è in attesa di approvazione della Valutazione Ambientale Strategica dal 2018. “Il piano non include attualmente una pianificazione finanziaria e una possibile allocazione dei fondi, e questo, secondo quanto detto prima, non lo rende un vero e proprio piano d’azione”, osserva Castellari.
“Questo è un dramma che certamente ha delle imprevedibilità, ma certamente dipende dal deterioramento dell'ambiente e dalla situazione climatica. Il Governo deve riflettere su quanto accaduto e prendere provvedimenti perché quanto accaduto abbia una bassissima probabilità di succedere e anzi venga evitato”, ha dichiarato il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, giunto sulla Marmolada. "Bisogna prendere dei provvedimenti affinché quanto accaduto sulla Marmolada non accada più in Italia”.
Staremo a vedere in cosa si tradurranno queste affermazioni considerato che l’Italia è tra i paesi europei che stanno spingendo per il ricorso al carbone e ai combustibili fossili per ovviare alle forniture della Russia.
Stati Uniti, la decisione della Corte Suprema renderà ancora più difficile la lotta contro il riscaldamento globale
Nella causa West Virginia contro l’Agenzia per la protezione dell’ambiente (E.P.A.), la Corte Suprema ha emesso una delle sentenze ambientali più importanti di sempre che potrebbe compromettere (e quanto meno limiterà) la lotta contro il riscaldamento globale da parte degli Stati Uniti (e probabilmente di tutto il pianeta). La decisione della Corte Suprema è il culmine di un’azione iniziata cinque decenni fa per impedire che il governo federale minacciasse lo status quo delle imprese, ha commentato il noto giornalista e ambientalista statunitense Bill McKibben sul New Yorker. La sentenza non elimina l'autorità dell'E.P.A. di regolare le emissioni di gas serra delle centrali elettriche, ma la limita fortemente, spiega la giornalista del New York Times Coral Davenport.
Alla Corte era stato chiesto di valutare se l’E.P.A. abbia o meno l'autorità di emanare regolamenti ampi e aggressivi contro le emissioni di gas serra da parte di centrali elettriche, che avrebbero costretto molte di esse a chiudere. Con 6 voti contrari a 3 a favore, i giudici hanno stabilito che l'agenzia non ha questa autorità.
La sentenza, nella causa West Virginia contro Environmental Protection Agency, non limita solo l'autorità dell'E.P.A., ma potenzialmente anche quella di altre agenzie di emanare una vasta gamma di regolamenti per proteggere l'ambiente e la salute pubblica. È il risultato di una strategia coordinata e pluriennale da parte di procuratori generali repubblicani, attivisti legali conservatori e i loro finanziatori, molti dei quali legati alle industrie del petrolio e del carbone, per usare il sistema giudiziario per riscrivere la legge ambientale, indebolendo la capacità del ramo esecutivo di affrontare il riscaldamento globale.
La sentenza arriva dopo altre importanti decisioni sulle armi e sull’aborto che trasformeranno la vita di una generazione di americani. “La Corte Suprema si è spostata a destra grazie alle tre nomine dell'amministrazione Trump e non ha paura di fare cambiamenti profondi”, ha dichiarato Blake Emmerson, professore di diritto all'Università di Los Angeles.
“Siamo di fronte a una crisi della democrazia americana, che va ben oltre la nostra capacità di affrontare la crisi climatica. L'equilibrio del potere nel nostro paese è stato distorto e si è spostato dal popolo alle corporazioni e agli interessi particolari. Le aziende produttrici di combustibili fossili e i loro alleati hanno minato i progressi sulla crisi climatica per decenni... Per affrontare questa crisi, non solo dobbiamo dare priorità alle riforme che riporteranno il potere nelle mani del popolo, ma dobbiamo anche riconciliare la distorsione del nostro panorama mediatico causata da un simile squilibrio di potere”, ha commentato l’ex vicepresidente degli Stati Uniti, Al Gore, da decenni impegnato nella causa climatica.
Il caso era insolito perché si concentrava su un programma che non era nemmeno in vigore: il Clean Power Plan, un regolamento federale dell'era Obama adottato in base al Clean Air Act del 1970, che cercava di regolare le emissioni di gas serra dalle centrali elettriche. Dopo una raffica di cause legali da parte di Stati repubblicani e dell'industria del carbone, la Corte Suprema ha sospeso il programma nel 2016 che non è mai entrato in vigore.
L'amministrazione Biden ha cercato di far archiviare il caso, sostenendo che non esistevano regolamenti dell'EPA da sottoporre alla Corte. Questo non ha funzionato e, alla fine, la Corte ha favorito chi aveva presentato la causa, un gruppo di procuratori generali repubblicani secondo i quali solo il Congresso dovrebbe avere il potere di stabilire regole che influenzano significativamente l'economia americana.
Il Congresso, tuttavia, si è arenato sulla legislazione in materia di clima. La mancanza di azione da parte dei legislatori ha aumentato la dipendenza del governo federale dai regolamenti dell’agenzia per la protezione ambientale per ridurre le emissioni di gas serra negli Stati Uniti. I presidenti Biden e Barack Obama avevano sperato, infatti, di usare l'autorità del Clean Air Act per fare in modo che l’E.P.A. scrivesse regole ampie e radicali per trasformare il settore dell'elettricità, portando alla chiusura generalizzata delle centrali a carbone e a gas e alla loro sostituzione con l'eolico, il solare e altre fonti pulite di elettricità. Il settore energetico è la seconda fonte di emissioni negli Stati Uniti, dopo i trasporti.
Ora bisognerà capire se il Congresso riuscirà ad approvare la legge e in quale versione. Attualmente, il “Build Back Better”, l’ambizioso progetto di legge sul cambiamento climatico e la spesa sociale dell’amministrazione Biden, è fermo a Capitol Hill, dopo la ritrosia nel votarlo da parte del senatore democratico della Virginia Occidentale con forti legami con l’industria del carbone, Joe Manchin III. Inoltre, l'E.P.A. ha ancora qualche altra autorità normativa per ridurre le emissioni: sta lavorando a nuove regole per ridurre il metano, un potente gas serra che fuoriesce dai pozzi di petrolio e gas, e a nuove regole per accelerare la transizione dalle auto a benzina alle auto elettriche.
Tuttavia, non è ancora chiaro se il progetto di legge sul clima dell’amministrazione Biden verrà mai approvato dal Senato e se norme alle quali sta lavorando l'EPA saranno soggette a cause legali da parte dello stesso gruppo di procuratori generali repubblicani e di aziende produttrici di combustibili fossili che hanno vinto nella decisione odierna della Corte Suprema. Al momento c'è già una causa pendente nei tribunali inferiori contro una norma dell'EPA proprio sulla transizione verso le auto elettriche. La causa è stata presentata da molti degli stessi querelanti del caso su cui si pronunciata la Corte Suprema. Questo fa pensare, ma non c’è certezza, la Corte Suprema si pronuncerà probabilmente a favore dei ricorrenti anche in questo caso, limitando così un altro importante strumento di cui dispone il governo federale per combattere il cambiamento climatico.
Nel frattempo, il presidente Biden è stato criticato per il piano quinquennale di sviluppo delle perforazioni per cercare petrolio e gas offshore annunciato la scorsa settimana. Il piano “bloccherebbe tutte le nuove trivellazioni nell'Oceano Atlantico e Pacifico all'interno delle acque territoriali statunitensi, mentre consentirebbe la vendita di 11 nuove concessioni nel Golfo del Messico e nella costa meridionale dell'Alaska”, riporta il Guardian.
Colloqui sulla biodiversità di Nairobi come il “giorno della marmotta”: tante discussioni ma le questioni chiave restano ancora irrisolte
Si è concluso a Nairobi l'ultimo ciclo di negoziati della Convenzione delle Nazioni Unite sulla Diversità Biologica in vista della prossima Conferenza delle Parti (COP15) che si terrà poco dopo la COP27 sul clima in Egitto. I risultati raggiunti sono stati pochi e molte questioni chiave sono rimaste irrisolte: è stato confermato che la COP15 si terrà a Montreal, in Canada, e non a Kunming, in Cina, come inizialmente previsto; è stato raggiunto un consenso su genere, giovani e biodiversità; è stato riconosciuto in modo inequivocabile il valore degli ecosistemi nelle città, come le mangrovie e i parchi urbani; si è concordato sulla possibilità di trasferire tecnologia e cooperazione scientifica, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, per aiutarli ad attuare il quadro normativo. La decisione di cambiare la sede è stata definita un’“opportunità mancata” dagli osservatori cinesi, scrive China Dialogue.
L'obiettivo dei colloqui era quello di accelerare e semplificare la bozza del Quadro Globale per la Biodiversità (GBF) post-2020, un documento cruciale che mira a invertire la perdita di natura entro la fine del decennio e che sarà discusso e, si spera, chiuso in Canada a dicembre. Per intenderci, le aspettative su questo testo ricordano quelle che hanno preceduto l’Accordo di Parigi sul clima nel 2015.
Sussidi per i combustibili fossili e dannosi per l’agricoltura e la pesca, inquinamento da pesticidi e fertilizzanti, colture resistenti al clima e consumo sostenibile: i punti su cui le divergenze sono ancora forti sono legati al cambiamento climatico, alla sicurezza alimentare e a un’economia “positiva per la natura”, riporta Carbon Brief.
Il direttore generale del WWF Marco Lambertini ha descritto il vertice di Nairobi come “il giorno della marmotta”, aggiungendo che i negoziatori avranno bisogno di “un cambio di passo nella volontà politica, nell'attenzione e nell'ambizione” per salvare “un testo così discordante e frammentato che non avrà alcuna possibilità di essere tradotto in un accordo a Montreal”.
Alcune ONG, tra cui Greenpeace e il Forum indigeno internazionale sulla biodiversità, hanno inviato una lettera aperta al Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres e ai leader mondiali, denunciando il basso livello dell’impegno politico che hanno contraddistinto i colloqui.
La Commissione Europea ha presentato una nuova legge per portare gli ecosistemi in uno stato di ripristino entro il 2050
La Commissione Europea ha presentato una nuova legge che prevede obiettivi giuridicamente vincolanti e 100 miliardi di euro per il ripristino della natura in agricoltura, nelle foreste, negli oceani e nelle aree urbane.
L'obiettivo è ripristinare gli ecosistemi degradati, “in particolare quelli con il maggior potenziale di rimozione e stoccaggio del carbonio”. Secondo l'Agenzia europea dell'ambiente, attualmente l'81% delle aree protette dell’UE è in cattive condizioni. La legge punta a ripristinare il 20% della terra e del mare dell’UE entro il 2030 e di avere tutti gli ecosistemi in uno stato di ripristino entro il 2050. La proposta include anche sette obiettivi aggiuntivi per il 2030, come l’inversione del declino degli impollinatori, la fine della perdita netta di spazi verdi urbani e il dimezzamento dell’uso dei pesticidi. Gli Stati membri dell'UE avranno due anni di tempo per preparare i loro piani nazionali di ripristino. La proposta di legge coinvolge anche l'agricoltura con l'obiettivo di ottenere un aumento complessivo della biodiversità negli ecosistemi agricoli entro il 2030.
L’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) ha approvato alcune norme per limitare la pesca illegale e dannosa. I pescatori su piccola scala fanno sentire la loro voce
Dopo oltre 20 anni di negoziati, l'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) ha approvato una nuova serie di norme che regolamentano i sussidi alla pesca. Il nuovo accordo punta a rendere più sostenibile la pesca mondiale e a fornire sostegno alle comunità vulnerabili, ma secondo molte organizzazioni il lavoro da fare è ancora tanto. Si tratta del primo accordo significativo del WTO in quasi un decennio, tanto è vero che il direttore generale Nzogi Okonjo-Iweala ha definito gli impegni un “pacchetto di risultati senza precedenti”
L'accordo istituisce un quadro per limitare le sovvenzioni alla pesca “dannosa”, comprese quelle per la “pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata, per la pesca di popolazioni eccessivamente depauperate e per le navi che pescano in alto mare senza regole”, riporta il Guardian. Rispetto a versioni precedenti dell’accordo, è stato eliminato un intero capitolo che “avrebbe potuto minacciare alcuni tipi di sussidi che favoriscono la pesca artigianale e su piccola scala”, scrive AP. Restano però “i sussidi che incoraggiano la pesca intensiva” ed è stata aggiunta una parte che limita “la validità [dell'accordo] a quattro anni, a meno che non vengano affrontate nuove regole per combattere la sovraccapacità e la pesca eccessiva”.
L'accordo è stato accolto con favore da alcuni gruppi, tra cui il Pew Charitable Trusts, e criticato da altri. Daniel Skerritt, analista senior dell'organizzazione no-profit per la conservazione degli oceani, Oceana, ha dichiarato al Guardian che l'accordo metterà fine solo a una parte “insignificante” dei 22 miliardi di dollari di sussidi dannosi che il mondo riceve ogni anno. “Senza alcuna disposizione per un trattamento speciale e differenziato per i paesi in via di sviluppo, i pescatori poveri e su piccola scala continueranno a soffrire per mano dei pescatori più grandi”, ha commentato il Prof. Rashid Sumaila dell'Università della British Columbia.
Nel corso della Conferenza delle Nazioni Unite sugli oceani, i pescatori su piccola scala e le donne delle nazioni costiere in prima linea nell’“emergenza oceani” hanno accusato i leader mondiali di ignorare la loro voce a favore degli interessi delle imprese.
“Vogliamo che i politici parlino con noi, non per noi”, ha detto Suzanne Njeri, del Kenya, vicepresidente dell'African Women Fish Processors and Traders Network, che conta membri da 44 dei 54 paesi africani.
Più della metà del pesce pescato per il consumo umano proviene da comunità di piccoli pescatori, ma il loro contributo alla sicurezza alimentare e alla protezione degli oceani non è sufficientemente riconosciuto. “C'è stata un'espansione dell'industria dell'allevamento del salmone, che sta rilasciando sostanze chimiche e antibiotici nel mare”, spiega Daniel Caniullan, leader indigeno, sommozzatore e pescatore della Patagonia cilena. “Sta causando un disastro ecologico e stiamo assistendo a una diminuzione della fauna marina. Ci sono 400.000 persone come me che ne sono colpite. Vogliamo portare questo problema all'attenzione delle Nazioni Unite e del governo cileno. Siamo noi ad affrontare il problema e abbiamo delle soluzioni”.
Immagine in anteprima via Fanpage.it