Post cambiamento climatico Round-up clima

Il libero mercato non ci salverà dalla crisi climatica

2 Agosto 2023 9 min lettura

author:

Il libero mercato non ci salverà dalla crisi climatica

Iscriviti alla nostra Newsletter

10 min lettura

Il round-up settimanale sulla crisi climatica e i dati sui livelli di anidride carbonica nell'atmosfera.

La crisi climatica è un fatto, così come la sua origine antropica: il rapporto dell’IPCC del 2021 ha mostrato che l’aumento di temperatura rispetto all’età preindustriale, grazie a ricerche empiriche e a simulazioni numeriche, dipende per la maggior parte dall’attività umana.

Eppure ancora oggi, in una commistione tra ignoranza e malafede, nell’opinione pubblica e in politica non mancano incursioni per screditare gli sforzi di scienziati, attivisti e di una parte della classe dirigente che spingono per una transizione ecologica, sia dal punto di vista legislativo sia dal punto di vista del consenso elettorale. Uno degli argomenti utilizzati in Italia e all’estero dalla congiunzione di negazionisti climatici e inattivisti è quello secondo cui la transizione climatica sarebbe cavalcata dalla sinistra per imporre politiche di tipo dirigista e stataliste, motivate più dall’odio per il libero mercato che dalla scienza. 

Questo argomento però, a un’attenta analisi, si basa su un tentativo di agitare spauracchi da “guerra fredda” per ritardare la transizione ecologica. La situazione, in realtà, è ben più complessa. 

L’economia della crisi climatica

Nemmeno quegli economisti considerati più a torto che a ragione dei paladini del libero mercato ritengono che questo, da solo, possa gestire un fenomeno come la crisi climatica. Il motivo ha un nome ben preciso: esternalità. Per comprenderlo, anche in maniera approssimativa, è utile fornire maggiori coordinate. 

Quando gli economisti tentano di capire come funzionano i mercati di solito studiano l’intersezione tra la domanda e l’offerta di un certo bene. La domanda e l’offerta si basano però sul comportamento di consumatori e imprese che fanno parte del mercato, e che badano principalmente al loro benessere, nel caso dei consumatori, e ai loro profitti, nel caso delle imprese. 

Quando sono soddisfatte certe condizioni, il processo va a buon fine e ognuno ottiene il maggior guadagno possibile (a livello tecnico è dettoequilibrio paretiano”). Ci sono però dei casi in cui queste condizioni non si verificano; nella realtà, pressoché mai. In questo caso si parla di fallimenti del mercato. È necessario sottolineare che il termine è da intendersi in maniera strettamente tecnica: i fallimenti del mercato non sono situazioni di elevata disuguaglianza e concentrazione delle ricchezze nelle mani di pochi. Tra i casi di fallimenti di mercato ci sono, appunto, le esternalità

In un contesto ideale, come quello di prima, i consumatori e le imprese badano solo ai loro interessi e questo tutto sommato funziona. Ma che cosa succede quando gli interessi di qualcuno vanno a danneggiare qualcun altro senza pagare alcun costo? Questo è, in maniera forse semplificata, il concetto di esternalità. L’esempio più semplice sono, appunto, le emissioni. 

Pensiamo a un’impresa che produce un certo bene, ma che nel processo emette gas inquinanti che hanno ricadute negative sulla salute delle persone e sull’ambiente. Nella misura in cui il costo delle emissioni non ricade sul bilancio dell’azienda,  non c’è alcun incentivo economico per spingerla a ridurle (nonostante gli incentivi economici non siano i soli motivi). In un mercato di questo tipo non si giunge quindi al maggior benessere possibile per tutti i partecipanti al mercato. 

Anche la teoria economica ammette in questo caso l’intervento dello Stato. Per ristabilire il benessere, lo Stato dovrebbe far pagare il costo delle emissioni nocive all’azienda, andando così a cambiare, attraverso i prezzi, la produzione della stessa. Questo nella pratica si traduce in una carbon tax, una delle misure più gettonata dagli economisti per combattere la crisi climatica. 

Nel corso degli anni vari governi hanno imposto delle carbon tax, alcuni con esiti positivi, altre volte con esiti meno egregi. Il caso più interessante è sicuramente quello della regione canadese della British Columbia. Nel 2008 la provincia decise di introdurre una carbon tax senza alcuna esenzione: sia consumatori sia aziende che volevano consumare beni inquinanti avrebbero dovuto pagare una maggiorazione. Ma il gettito ottenuto dall’imposta venne utilizzato per tagliare le tasse ai cittadini. Quindi un agente economico avrebbe avuto da una parte un costo, quello ottenuto dalla maggiorazione, ma dall’altra il beneficio di una diminuzione delle imposte. Questo spinge i cittadini e le imprese a ridurre le emissioni, per avere un maggior quantitativo di denaro in tasca, per capirci. D’altronde i dati sono lì a dimostrarlo: il consumo di combustibili fossili è calato del 17% nei primi quattro anni, mentre nel resto del Canada è aumentato dell’1%. 

Quanto visto nell’esempio sulla British Columbia è uno dei capisaldi delle cosiddette politiche market based  per contrastare la crisi climatica: il cambiamento di cittadini e imprese passa attraverso il sistema dei prezzi. Prendiamo un esempio più semplice: una meat tax, ovvero un’imposta sulla carne, che come mostrano i dati ha un impatto sulle emissioni non indifferente. Se un governo introducesse un simile tipo di imposta, i cittadini vedrebbero aumentare il prezzo della carne dal macellaio o in un centro commerciale. Per questo motivo, sempre in linea teorica, sposterebbero il loro consumo su altri tipi di alimenti, come verdura e legumi. 

Il problema delle misure di mercato

Si può ben capire, dall’esempio appena citato, il problema che, nella realtà, compare quando parliamo di questo tipo di politiche. Se la teoria economica ci dice che i consumatori, sotto certe condizioni, ridurranno il loro consumo di carne o di altri prodotti inquinanti, nella realtà più che ridurre il consumo saranno infuriati con il governo che ha varato la proposta. Un esempio paradigmatico arriva dalla Francia. Dove, nel 2018,  il presidente Emmanuel Macron decise di rispettare l’aumento delle imposte sui carburanti deciso dal suo predecessore Francois Hollande. Questo sarebbe stato un duro colpo per categorie come i camionisti che, infatti, scesero in piazza contestando duramente il presidente francese e il governo di Edouard Philippe, anche se le proteste furono cavalcate dal principale partito d’opposizione ovvero il Rassemblement National di Marine Le Pen. 

Questo può sembrare un caso isolato, mera aneddotica spacciata per statistica. Ma un lavoro dei ricercatori del Fondo Monetario Internazionale ha recentemente indagato l’impatto politico, ovvero sul consenso dei partiti di governo, delle politiche climatiche. Che cosa emerge dallo studio? Uno dei risultati sottolineato dai ricercatori del Fondo Monetario è che l’impatto negativo sul consenso delle politiche climatiche dipende da come viene ideata la politica in questione. 

In particolare, le politiche market based, che come la carbon tax agiscono sui prezzi per orientare il comportamento dei consumatori, fanno generalmente calare il consenso dei partiti che le varano. Questo non vuol dire che debbano essere del tutto abbandonate. Politiche come la carbon tax rappresentano una condizione necessaria per contrastare la crisi climatica, ma occorre tenere conto di aspetti come l’equità e la distribuzione delle risorse, per evitare che a pagarne il prezzo siano le fasce meno abbienti e quella media della popolazione che già oggi portano sulle loro spalle il peso degli eventi estremi. Il caso della British Columbia è un caso da manuale: se non vuoi alienare il consenso dei cittadini, devi garantire una forma di compensazione che promuova i sacrifici. 

Le politiche market based, tuttavia, non sono l’unica alternativa. Mentre queste si applicano ai prezzi, le politiche di command and control si applicano invece alle quantità, andando a definire standard rigidi sulle emissioni o su questioni ambientali: l’esempio più banale è il divieto di immatricolazione di auto a benzina o diesel nel 2030 come quello di cui si discute in questi mesi in Europa. D’altronde, agire sulle quantità e non sui prezzi può essere più efficiente nel caso della crisi climatica, come mostra anche la ricerca economica. Perché questo?

Come spiega Andrea Roventini, professore ordinario alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, politiche che agiscono sulle quantità hanno poi dei riflessi sul progresso tecnologico. Un’impresa, conscia dei limiti imposti dallo Stato, ad esempio sulla vendita di auto a diesel o benzina, sarà costretta a investire su – per fare un esempio – auto elettriche. Questo, spiega ancora Roventini, si innesta su un altro dibattito che sta interessando il mondo dei legislatori e degli economisti: poiché le imprese non possono fare tutto da sé, è necessario un ritorno della politica industriale. 

Si tratta cioè degli interventi dello Stato per modificare il sistema economico, indirizzandolo verso obiettivi desiderati, in questo caso proprio la transizione ecologica. In un lavoro del 2014, l’economista di Harvard Dani Rodrik, tra i più noti sostenitori della politica industriale, ha sottolineato l’importanza dell’intervento dello Stato nel campo della transizione ecologica. Nello studio, Rodrik mostra anche vari casi, tra cui quello tedesco e quello cinese, di interventi su questo fronte. Anche Mariana Mazzucato, professoressa di Economia dell’Innovazione e del Valore Pubblico all’University College di Londra, sottolinea l’importanza di una riscoperta della politica industriale per la crisi climatica, attraverso ad esempio i Progetti a Missione (Mission Oriented Projects). In questo tipo di progetti, come successo ad esempio con l’allunaggio, lo Stato decide un obiettivo da raggiungere che può essere ad esempio la completa trasformazione della produzione di auto, collaborando con i privati e il mondo della ricerca sia di base sia applicata. Un approccio simile a quanto proposto da John Van Reenen, professore d’economia del MIT, in un recente contributo per l’Hamilton Project: cruciale è lo studio del sistema americano, formato da agenzie pubbliche come il DARPA che si sono rivelate efficienti nel catalizzare l’innovazione. 

Restando negli Stati Uniti, già l’amministrazione Obama aveva deciso di puntare sull’auto elettrica, concedendo tra le altre cose un prestito garantito alla casa automobilistica Tesla di Elon Musk. Ma con l’amministrazione Biden, che a differenza di quella Trump non nega la crisi climatica, si è assistito a un deciso cambio di passo. Il provvedimento principale è l’Inflation Reduction Act (IRA): nonostante il nome del provvedimento faccia propendere per altro, si tratta di un gigantesco piano dell’amministrazione Biden per sussidiare la transizione verde delle aziende americane. Il piano prevede una spesa di 400 miliardi di dollari per sussidi, crediti d’imposta e sviluppo di tecnologie pulite come eolico e geotermico. Tra le misure più discusse c’è sicuramente quella dello sconto di 7,500 dollari per l’acquisto di auto elettriche se i componenti sono stati acquistati e assemblati negli Stati Uniti o in paesi alleati. Secondo le stime del Rhodium Group, l’impatto sulle emissioni dell’IRA potrebbe essere considerevole, arrivando a un calo del 40% di emissioni rispetto a quelle del 2005. 

Anche l’Europa, proprio per controbattere alle mosse di Biden, sta cercando di indirizzarsi verso una politica industriale più interventista, nonostante persistano delle diffidenze nei vari paesi. Questo rinnovato interesse per la politica industriale e quindi per l’intervento statale nell’economia non è però indolore. Come scrivevano i due esperti Daron Acemoglu e James Robinson, i rischi riguardanti l’intervento statale non sono di natura economica, ma politica. Lungi dall’essere governanti illuminati, i politici sono agenti economici come gli altri, interessati al tornaconto personale. Potrebbero quindi utilizzare la politica industriale, come successo in Italia con l’IRI, per fini di consenso e potere, più che per garantire crescita e progresso tecnologico. 

I costi della transizione ecologica

Oltre alla politica industriale, l’intervento dello Stato passa anche dalla copertura dei costi che la transizione ecologica porterà necessariamente con sé. Come spiega uno studio dell’European Parliamentary Research Service, nonostante la transizione verde porterà a benefici economici sul lungo periodo, nel breve periodo potrebbero esserci dei costi non indifferenti. Questo è uno degli aspetti che è necessario sottolineare: le questioni che si affrontano sono complesse ed è cruciale comunicare anche alla popolazione generale, che spesso non ha il tempo per interessarsi a certi aspetti, che la transizione sarà un processo estremamente delicato, con dei costi. 

Il progresso tecnologico, che è necessario per la transizione ecologica, è caratterizzato da quello che l’economista e filosofo Joseph Schumpeter chiamava “distruzione creatrice”. Anche in questo caso un esempio aiuterà a fare chiarezza. Fino a una decina di anni fa nelle nostre città si trovavano negozi in cui era possibile noleggiare videocassette e dvd dei film usciti poco tempo prima al cinema. Poi sono arrivati Netflix e piattaforme di questo tipo che, grazie a costi minori per il consumatore, hanno preso il sopravvento sul mercato spingendo i videonoleggi a chiudere. 

Nel caso della transizione ecologica è lo stesso: vi sono dei settori che necessariamente dovranno essere abbandonati e, almeno in alcuni, la manodopera sarà inferiore. Pensiamo, ad esempio, al numero di operai che serviranno per produrre un'auto elettrica rispetto a quella tradizionale. Ciò richiede quindi un sistema di welfare e tutele, assieme a interventi sulla formazione, che non può non passare anche dallo Stato

Iscriviti alla nostra Newsletter


Come revocare il consenso: Puoi revocare il consenso all’invio della newsletter in ogni momento, utilizzando l’apposito link di cancellazione nella email o scrivendo a info@valigiablu.it. Per maggiori informazioni leggi l’informativa privacy su www.valigiablu.it.

Il libero mercato non esiste, solo i mercati regolati

La discussione svolta dovrebbe spingerci a una conclusione: nel caso della crisi climatica, ma non solo, il libero mercato è soltanto un espediente retorico per non trattare i problemi. Nella storia non esistono, come sostengono vari economisti, sistemi come il libero mercato, quanto mercati regolati che contemplano, tra le altre cose, interventi statali. Le strategie per contrastare la crisi climatica e spingere per la transizione ecologica passano quindi da questioni più sottili - dall’implementazione delle politiche da adottare, la comprensione di come aziende e consumatori reagiranno, i limiti politici. 

E per fare questo serviranno da una parte un mercato regolato capace di puntare su settori puliti e pronto ad abbracciare la crescita, dall’altra uno Stato pronto a catalizzare l’innovazione e garantire tutele a quelle persone che, nel mentre, rischiano di restare indietro.

Immagine in anteprima via rti.org 

Segnala un errore