Crisi climatica, è stata la COP dei combustibili fossili
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“Questo [vertice] è stato un disastro per il mondo in via di sviluppo. È un tradimento sia delle persone che del pianeta da parte dei paesi ricchi che affermano di prendere sul serio il cambiamento climatico. I paesi ricchi hanno promesso di ‘mobilitare’ alcuni fondi in futuro, piuttosto che fornirli ora. L'assegno è stato spedito. Ma le vite e i mezzi di sussistenza nei paesi vulnerabili si stanno perdendo ora”. Le parole di Mohamed Adow, direttore del think tank Power Shift Africa, sono esplicative dell’accordo finale raggiunto sulla finanza climatica e del clima in cui si sono svolti i negoziati alla Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico a Baku, in Azerbaigian.
I 197 paesi partecipanti alla COP29 erano chiamati ad aumentare i finanziamenti verso i paesi meno ricchi, che meno hanno contribuito al riscaldamento globale e all’aumento delle emissioni di gas climalteranti nell’atmosfera e che, però, sono più esposti agli effetti della crisi climatica. Fino a quest’anno gli Stati più ricchi si erano impegnati a destinare 100 miliardi di dollari all’anno.
L’Independent High Level Expert Group on Climate Finance ha stimato che i paesi in via di sviluppo abbiano bisogno di più di mille miliardi di dollari all’anno per accelerare la transizione ecologica e adattarsi agli impatti climatici. E mille e trecento miliardi di dollari l’anno in finanziamenti climatici era la cifra richiesta da questi paesi, oltre all’esigenza di rivedere i meccanismi di destinazione dei fondi in modo da non accumulare ulteriori debiti per la ricostruzione.
Alla fine, ai tempi supplementari, circa due giorni dopo la data ufficiale di chiusura della COP, è stato approvato l'obiettivo collettivo di mobilitare 1.300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035 per sostenere i paesi in via di sviluppo nella mitigazione e nell’adattamento climatico. Ma – è qui l’inghippo – solo una piccola parte (300 miliardi) sarà erogata attraverso strumenti chiave come sovvenzioni e prestiti agevolati.
Si tratta di un impegno sicuramente superiore ai 100 miliardi di dollari stabiliti finora, ma che non va incontro alle esigenze degli degli Stati più vulnerabili e meno responsabili della crisi climatica. Poco o nulla è stato fatto per la riforma delle banche multilaterali di sviluppo e la dotazione di nuovi strumenti finanziari. Inoltre, durante i negoziati, una precedente offerta di 250 miliardi di dollari all'anno è stata definita “offensiva” e “inaccettabile” dalle nazioni più povere e la coalizione dei piccoli Stati insulari e dei Paesi meno sviluppati se ne è andata. Alcuni paesi, tra cui India e Nigeria, hanno accusato la presidenza della COP29 di aver fatto passare l'accordo senza il loro consenso, a causa dei caotici negoziati dell'ultimo minuto.
Un piccolo segnale positivo arriva dall’approvazione dell’Articolo 6 che istituisce i mercati globali del carbonio (era stato uno dei nodi della COP di Madrid). A quasi dieci anni dalla sua sottoscrizione, tutti gli elementi dell’Accordo di Parigi sono stati finalizzati.
Non è stato trovato, infine, un accordo su come portare avanti l’applicazione del “Global StockTake” (il bilancio globale), principale risultato della COP28 dello scorso anno a Dubai, né un impegno per la transizione dai combustibili fossili. Nel testo sulla mitigazione, ovvero sulla riduzione delle emissioni, non ci sono riferimenti chiari all’obiettivo di 1,5°C, rinviando tutto alla COP30 del prossimo anno in Brasile. Ancora procrastinazione, dunque, mentre la crisi climatica accelera.
“CLOP29 o FLOP29?”, si chiede la scienziata climatica Katharine Hayhoe nella sua newsletter settimanale, interrogandosi sulle modalità di funzionamento delle Conferenze annuali sul clima delle Nazioni Unite. Le sfide in corso “evidenziano una questione fondamentale: pur essendo necessarie per i negoziati globali sul clima, le Conferenze delle Parti sono ben lontane dall'azione urgente e trasformativa di cui abbiamo bisogno”.
Tuttavia, osservano Eleonora Cogo e Alexandra Scott su Ecco, l’accordo raggiunto nonostante il contesto internazionale “a dir poco complesso” – il contraccolpo della nuova presidenza Trump negli Stati Uniti, l’ode ai combustibili fossili andata in scena nei primi giorni, con la presidente del Consiglio italiana, Giorgia Meloni, grande protagonista, il ritiro della delegazione argentina da parte del presidente Milei nel pieno dei negoziati, l’assenza dei principali leader, tra cui la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen – dimostra ancora una volta la volontà dei 200 paesi che partecipano alla COP di “vedere ancora nel multilateralismo l’unica via per risolvere le crisi globali. Chi decide di abbandonare il tavolo, di fatto, rinuncia alla possibilità di partecipare e di decidere il futuro del proprio paese”. E per questo le Conferenze delle Nazioni Unite continuano a essere uno spazio importante, in un momento in cui i grandi consessi internazionali sono delegittimati da interessi di parte degli Stati nazionali.
La prossima COP, a Belèm, in Brasile, sarà di grande importanza perché si dovranno aggiornare gli impegni di riduzione delle emissioni previsti per il 2030 e fissare quelli nuovi per il 2035, e per non compromettere definitivamente gli obiettivi fissati a Parigi.
Di cosa parliamo in questo articolo:
Il nuovo accordo sulla finanza climatica
L’accordo raggiunto triplica il flusso di denaro destinato ai cosiddetti paesi in via di sviluppo per accelerare la transizione verso fonti di energia pulita e a far fronte ai devastanti effetti del cambiamento climatico. Il New Collective Quantified Goal (NCQG) prevede di mobilitare 1.300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035. Solo 300 miliardi saranno però erogati attraverso sovvenzioni e prestiti agevolati (finora erano 100 miliardi di dollari all’anno, cifra praticamente mai rispettata). L'accordo raggiunto invita le aziende private e i finanziatori internazionali come la Banca Mondiale a coprire le centinaia di miliardi mancanti. Questo è stato visto da alcuni come una sorta di clausola di fuga per i paesi ricchi.
“È una somma misera”, ha commentato Chandni Raina, rappresentante dell'India, non appena gli organizzatori di COP29 dell'Azerbaigian hanno battuto il martelletto e dichiarato concluso l'accordo. “Mi dispiace dire che non possiamo accettarla. Chiediamo ai paesi sviluppati un'ambizione molto più alta”. Per Raina l'accordo è “niente di più che un'illusione ottica”.
Dalla Bolivia alla Nigeria alle Isole Figi, il tono dei commenti da parte dei paesi più esposti alla crisi climatica è stato simile. “Lasciatemi essere chiaro”, ha detto Juan Carlos Monterrey, inviato speciale di Panama per il clima. “Questo processo è stato caotico, mal gestito e un completo fallimento in termini di raggiungimento dell'ambizione richiesta”.
L'accordo, che non è legalmente vincolante e funziona in gran parte attraverso la pressione diplomatica tra pari, è arrivato dopo due settimane di dibattiti divisivi su chi dovrebbe pagare e quanto. Secondo le regole dell'ONU, risalenti al 1992, alcuni paesi ricchi, per lo più occidentali, sono considerati sviluppati, mentre altre nazioni, tra cui Cina e Arabia Saudita, sono considerate in via di sviluppo. I paesi del gruppo in via di sviluppo sono “invitati” a fornire aiuti finanziari, ma non sono tenuti a farlo.
Oggi, tuttavia, molte nazioni ricche sostengono che la distinzione non ha più senso e che Cina, Arabia Saudita e altri Stati dovrebbero essere obbligati a partecipare a una parte dei finanziamenti per il clima. Esigenza, questa, condivisa anche da una parte dei paesi in via di sviluppo, tra cui l'Alleanza dei piccoli Stati insulari, che volevano che una parte maggiore dei finanziamenti disponibili andasse ai Paesi più bisognosi, invece di essere condivisa con le grandi economie emergenti, come l'India. Tuttavia, gli sforzi occidentali per far passare queste nazioni nella categoria dei paesi sviluppati hanno incontrato una forte resistenza e alla fine non hanno avuto successo.
I paesi sviluppati hanno insistito sul fatto che non potevano offrire di più, a causa dei loro vincoli di bilancio. “Se gli Stati Uniti non contribuiranno in futuro ai finanziamenti per il clima, ci assumeremo tutti i rischi”, ha sottolineato un negoziatore. Tuttavia, di fronte alla prospettiva di riunirsi nuovamente l'anno prossimo con una Casa Bianca di Trump al suo posto, molti paesi hanno deciso che il mancato accordo su un nuovo accordo finanziario a Baku era un rischio troppo grande.
Anche gli attivisti climatici hanno criticato l'accordo. Claudio Angelo, dell'Observatorio do Clima in Brasile, ha dichiarato: “I paesi ricchi hanno trascorso 150 anni ad appropriarsi dello spazio atmosferico mondiale, 33 anni a bighellonare sull'azione per il clima e tre anni a negoziare [un accordo finanziario] senza mettere cifre sul tavolo. Ora, con l'aiuto di una presidenza di COP incompetente e usando l'imminente amministrazione Trump come una minaccia, costringono i paesi in via di sviluppo ad accettare un accordo che non solo non rappresenta alcun effettivo nuovo denaro, ma potrebbe anche aumentare il loro debito”.
Che fine hanno fatto i combustibili fossili?
I negoziati si sono svolti al termine di un altro anno di caldo record. L'anno scorso le emissioni globali di gas serra hanno raggiunto la cifra record di 57 gigatoni e non sono destinate a diminuire di molto, se non del tutto, in questo decennio, secondo un rapporto delle Nazioni Unite pubblicato poco prima della COP. Collettivamente, le nazioni sono state così lente a ridurre l'uso di combustibili fossili che molti scienziati considerano l'obiettivo di 1,5°C praticamente irraggiungibile. Secondo il rapporto dell'ONU, se le nazioni si impegnassero a ridurre le loro emissioni interne, il mondo sarebbe ancora sulla buona strada per un riscaldamento di circa 2,7°C.
Eppure, nei testi approvati a Baku la transizione dai combustibili fossili è sostanzialmente sparita. In particolare, è stata efficace in questo senso la pressione di Arabia Saudita, Cina, India e del paese organizzatore, l’Azerbaigian.
Il pressing dei grandi inquinatori ha indubbiamente fatto sentire i suoi effetti: dopo il timido riferimento al “transitioning away from fossil fuels in energy systems” stabilito a Dubai a fine 2023, a Baku non si sono registrati progressi su come realizzare effettivamente la fuoriuscita dalle fonti fossili.
A Baku, i padroni di casa dell'Azerbaigian erano responsabili della costruzione del consenso, e per tutta la durata del vertice i negoziatori hanno espresso frustrazione per un processo che, nelle due settimane precedenti la scadenza del 22 novembre, è sembrato deliberatamente lento o semplicemente disorganizzato. Il petrolio e il gas costituiscono il 90% delle esportazioni azere e gli interessi dei combustibili fossili sono stati molto visibili durante i colloqui. Nel discorso di apertura, il presidente dell'Azerbaigian, Ilham Aliyev, ha detto esplicitamente che il “petrolio è un dono di Dio”.
L'Arabia Saudita ha svolto un ruolo fortemente ostruzionistico. Un funzionario saudita ha tentato di modificare un testo chiave senza una piena consultazione. Lo Stato petrolifero ha anche cercato ripetutamente di eliminare i riferimenti alla “transizione dai combustibili fossili”, concordata alla COP28 dello scorso anno.
Al vertice sul clima tenutosi lo scorso anno a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, le nazioni hanno riconosciuto per la prima volta il legame tra i combustibili fossili e il riscaldamento globale e hanno concordato di “abbandonare” i combustibili fossili entro la metà del secolo.
A Dubai, in particolare, la delegazione saudita ha lavorato duramente per impedire che la dichiarazione finale del vertice menzionasse affatto i combustibili fossili. Secondo fonti raccolte da New York Times, i sauditi hanno continuato a impegnarsi in tal senso, in particolare lavorando in cinque forum delle Nazioni Unite quest'anno per eliminare qualsiasi menzione a impegni di tal genere. Diversi funzionari occidentali, che hanno parlato a condizione di anonimato in linea con il protocollo diplomatico, hanno detto che i negoziatori sauditi hanno fatto lo stesso a Baku, cercando in sostanza di ribaltare l'accordo dello scorso anno. I funzionari sauditi presenti al vertice hanno rifiutato di commentare.
“Era chiaro fin dal primo giorno che l'Arabia Saudita e gli altri paesi produttori di combustibili fossili avrebbero fatto tutto il possibile per indebolire l'accordo storico della COP28 sui combustibili fossili. Alla COP29 hanno messo in atto tattiche ostruzionistiche per diluire l'azione sulla transizione energetica”, ha dichiarato Romain Ioualalen, del gruppo di pressione Oil Change International.
Infine, a Baku, c’è stato un sostanziale disimpegno da parte di Stati Uniti e la Cina - le due maggiori economie mondiali e i maggiori emettitori di gas serra - di solito nazioni chiave alle COP. A Baku nessuno dei due paesi ha svolto un ruolo pubblico, lasciando che fossero altri a guidare i colloqui. La delegazione statunitense è ancora composta da funzionari dell'amministrazione di Joe Biden, ma l'incombente presidenza di Donald Trump ha gettato diverse ombre sulla loro partecipazione.
La strada verso COP30 in Brasile
L'anno prossimo sarà il Brasile ad ospitare l'evento, dieci anni dopo l’Accordo di Parigi. Il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva ha voluto tenere la conferenza vicino all'Amazzonia e il suo governo ha annunciato di aver stanziato più di 800 milioni di dollari per preparare la città al vertice.
Per la sua vicinanza alla foresta amazzonica, la conferenza viene anche definita una “COP della natura”. Un rappresentante del ministero dell'Ambiente brasiliano ha dichiarato a Carbon Brief che il Brasile sta lavorando duramente con la presidenza colombiana del vertice sulla biodiversità COP16 per mettere la natura al centro del vertice. La necessità di tenereinsieme la perdita di biodiversità e il cambiamento climatico viene affrontata nei negoziati dei vertici sulla biodiversità, ma non in quelli sul clima.
Brasile e Colombia stanno inoltre lavorando a una proposta di “nuovo trattato globale vincolante” per la tracciabilità delle catene di approvvigionamento di minerali critici, che sperano di lanciare alla COP30, secondo quanto riportato da Climate Home News.
I prossimi dodici mesi saranno il banco di prova per verificare se il mondo è seriamente intenzionato a evitare gli scenari climatici più catastrofici. “I nuovi ‘Piani nazionali di riduzione delle emissioni’ (NDC), che dovranno essere presentati dai Paesi prima della COP30, dovranno essere sufficientemente ambiziosi se vogliamo evitare di superare i 2,5°C di riscaldamento globale. Ciò significa definire chiare politiche di uscita dai combustibili fossili e dare attuazione alla trasformazione del sistema finanziario per sbloccare le migliaia di miliardi necessari per la transizione”, spiegano Eleonora Cogo e Alexandra Scott su Ecco.
I delegati dei paesi in via di sviluppo hanno messo sul tavolo una serie di proposte ambiziose a partire dall’Iniziativa di Bridgetown, seguite da proposte per affrontare la crisi del debito e indentificare dei prelievi di solidarietà. “Qualsiasi cosa in meno condannerà il mondo in via di sviluppo a continue sofferenze e instabilità”, ha dichiarato Monterrey, l'inviato panamense.
Una rinnovata collaborazione tra Europa e Cina, osservano ancora Cogo e Scott, potrebbe diventare la nuova forza trainante dell’azione globale per il clima, ma solo se saranno superate le tensioni legate al commercio e alla sicurezza. “Questi due blocchi geopolitici condividono l’interesse comune di ridurre la dipendenza dalle importazioni di combustibili fossili, di costruire mercati verdi globali e di creare partenariati per lo sviluppo nelle economie meno avanzate. Un’alleanza che può andare a vantaggio di tutti se saranno in grado di costruire un fronte comune con le altre economie emergenti del G20, tra cui Brasile, Sudafrica, Turchia, India e Indonesia, senza escludere i paesi più vulnerabili che hanno fatto sentire la loro voce nelle ultime ore della COP29”.
Questa nuova alleanza potrebbe contrapporsi al blocco dei paesi e dei gruppi di potere legati ai combustibili fossili e guidare il mondo verso una transizione, sicura, equa e funzionale al raggiungimento degli obiettivi climatici.