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La guerra in Ucraina fa impennare la richiesta globale e i prezzi del carbone: una brutta notizia per il clima e per la popolazione mondiale

29 Aprile 2022 13 min lettura

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La guerra in Ucraina fa impennare la richiesta globale e i prezzi del carbone: una brutta notizia per il clima e per la popolazione mondiale

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Il round-up settimanale sulla crisi climatica e i dati sui livelli di anidride carbonica nell'atmosfera.

L’invasione russa in Ucraina ha messo il turbo al mercato del carbone con enormi implicazioni per l’economia globale e gli obiettivi climatici, scrive Bloomberg. Una pessima notizia considerato che la decarbonizzazione delle economie mondiali è un passaggio ineludibile per la transizione verso fonti a basse emissioni climalteranti e per mantenere il riscaldamento globale entro gli 1,5 - 2° C dai livelli pre-industriali. Intanto, il 2022 è sulla buona strada per collocarsi tra il quarto e l’ottavo anno più caldo da quando vengono registrate le temperature, la metà dell’Ottocento, rileva il climatologo Zeke Hausfather in un recente articolo su Carbon Brief.

La Germania e l’Italia stanno ripensando di riattivare vecchie centrali a carbone. Nel Consiglio dei Ministri del 2 maggio potrebbe essere dato il via libera per riportare a regime gli impianti di Brindisi, Civitavecchia, Fusina e Monfalcone. In Danimarca, Orsted A/S si sta assicurando forniture di carbone da usare al posto della biomassa, perché le consegne di pellet di legno a zero emissioni di carbonio sono state interrotte a causa della guerra. Mentre la Gran Bretagna sta esplorando diverse opzioni per rafforzare la sicurezza energetica, compreso il mantenimento delle unità di carbone di Drax Group Plc, o la realizzazione di nuovi impianti nella contea di Cumbria. Una soluzione che non ha alcun senso né da un punto di vista climatico né da uno di sicurezza energetica, commenta su The Conversation Rebecca Willis, professoressa di Energia e Governance climatica all’Università di Lancaster.

Navi cariche di carbone si stanno imbarcando dal Sudafrica verso l’Europa. Negli Stati Uniti si assiste alla crescita maggiore negli ultimi dieci anni mentre la Cina sta riaprendo le miniere chiuse e ne sta progettando nuove. A livello globale, riporta il Guardian, sono ancora oltre 2.400 le centrali a carbone in funzione in 79 paesi, per un totale di quasi 2.100 GW di capacità. Per 170 impianti non è stata ancora stabilita una data di chiusura o un obiettivo di neutralità carbonica e sono ancora poche le centrali in dismissione per restare entro l’obiettivo degli  1,5° C.

Nel 2021, complice la ripresa dopo i lockdown per la pandemia, l’elettricità generata dal carbone è cresciuta del 9% rispetto al 2020, riferisce l'Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA). E nel 2022, il consumo totale di carbone - per generare energia, produrre acciaio e altri usi industriali - dovrebbe aumentare di quasi il 2% fino a un record di poco più di 8 miliardi di tonnellate metriche. Un livello di consumo che potrebbe rimanere inalterato almeno fino al 2024. 

Lo scorso anno l’uso del carbone è salito del 12% nei paesi UE che punta alla riduzione delle emissioni del 55% entro il 2050, e del 17% negli Stati Uniti e anche in Asia, Africa e America Latina. 

“Tutti i dati rilevati indicano il divario crescente tra le ambizioni e gli obiettivi politici, da una parte, e la realtà dell'attuale sistema energetico, dall'altra", ha detto la IEA, stimando che le emissioni di anidride carbonica dal carbone nel 2024 saranno almeno 3 miliardi di tonnellate in più rispetto allo scenario prefigurato per raggiungere le zero emissioni nette entro il 2050.

Secondo un rapporto più recente del Global Energy Monitor (GEM), la “capacità globale delle centrali elettriche alimentate a carbone è aumentata lo scorso anno di quasi l'1%”. 

“Quando si cerca di raggiungere un equilibrio tra la decarbonizzazione e la sicurezza energetica, tutti sanno cosa vince: mantenere le luci accese”, ha commentato Steve Hulton, vicepresidente senior per i mercati del carbone presso la società di ricerche di mercato Rystad Energy di Sydney. 

Con ogni probabilità, la domanda crescerà ulteriormente nei prossimi mesi e sarà più alta rispetto alle previsioni di dicembre, spiega ancora la IEA, poiché l'invasione russa dell’Ucraina ha scatenato una reazione a catena nei mercati energetici globali che spinge ulteriormente il carbone che, nonostante la sua recente impennata dei prezzi che hanno raggiunto i loro massimi storici praticamente su tutti i mercati, continua a essere l’alternativa meno costosa. Secondo un rapporto dell’1 aprile della Bank of America, il carbone termico, bruciato dalle centrali elettriche, è una delle fonti di combustibile più economiche “del pianeta”: costa circa 15 dollari per milione di unità termiche britanniche, meno del petrolio greggio (circa 25 dollari) e del gas naturale (35 dollari).

Tuttavia, non è detto che le forniture siano in grado di soddisfare l’aumentata domanda di carbone. La produzione globale non è ancora tornata, infatti, ai livelli pre-pandemici e il settore si trova ora schiacciato tra le richieste a breve termine e gli scenari a lungo termine che prevedono la rinuncia al carbone a favore di fonti energetiche a basse emissioni. “La catena di approvvigionamento del carbone non era pronta per questo tipo di shock”, ha detto Xizhou Zhou, amministratore delegato per l'energia globale e le rinnovabili a S&P Global. “Dire che nel lungo periodo non ci sarà domanda per il tuo prodotto e di aumentare però la produzione nel breve periodo, è chiedere davvero troppo a una catena di approvvigionamento”, ha aggiunto Ethan Zindler, capo della ricerca americana a Bloomberg.

Molti paesi, esportatori di carbone, stanno privilegiando le forniture interne. È questo il caso, ad esempio, dell’Indonesia, di Coal India Ltd., del Richards Bay Coal Terminal del Sudafrica. Mentre altri paesi asiatici, come Bangladesh, Sri Lanka e Pakistan, rischiano di essere tra i più esposti a questa lotta globale sulle forniture di carbone disponibili per evitare carenze di energia e di doversi trovare nella condizione di rivedere il proprio mix energetico.

La situazione non è semplice anche per la Cina che estrae la metà del carbone del mondo. La produzione è aumentata proprio quando una nuova serie di lockdown per la nuova esplosione di contagi che sta colpendo il paese ha rallentato l'attività economica e frenato la domanda di energia. Non è chiaro se gli aumenti di produzione saranno sostenibili, ha affermato un alto funzionario del settore, riporta Bloomberg. Tanto è vero che il 28 aprile il ministero delle Finanze cinese ha annunciato il taglio delle tariffe di importazione per "tutti i tipi di carbone" dal 3-6% a zero dal 1° maggio 2022 al 31 marzo 2023. Questa decisione è stata presa mentre la Cina "è impegnata a garantire la sicurezza energetica tra l'impennata dei prezzi globali e le preoccupazioni per l'interruzione delle catene di approvvigionamento", scrive Reuters.

La crisi energetica globale e l’invasione russa dell’Ucraina metteranno a rischio gli obiettivi climatici dell’amministrazione Biden?

Se c’è un luogo che più di tutti riflette come le politiche per contrastare la crisi climatica rischino di essere messe in secondo piano in nome della sicurezza energetico in seguito all’invasione russa dell’Ucraina, questi sono gli Stati Uniti.

Durante la campagna elettorale, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden aveva fatto del cambiamento climatico uno dei pilastri del suo programma, promettendo di decarbonizzare l'economia degli Stati Uniti, porre fine alle trivellazioni su terreni pubblici e approvare una legge che guidasse la transizione energetica degli USA. L’obiettivo era rendere “carbon-free” la produzione elettrica statunitense entro il 2035 e azzerare le emissioni nette di carbonio entro il 2050. Obiettivi ambiziosi che dovevano però affrontare lo scoglio delle maggioranze risicate di cui godeva il Partito Democratico al Congresso.

A più di un anno dalla sua elezione, Biden ha però dovuto rivedere le priorità della politica energetica statunitense per fronteggiare l’inflazione dilagante e gli effetti della guerra in Ucraina, portando la sua amministrazione a liberare quantità record di petrolio dalle riserve strategiche e individuare nuove aree da perforare per nuove ricerche di fonti fossili in modo da stare al passo con la domanda di energia.

Biden si trova stretto in una morsa in vista delle elezioni di medio termine di novembre, scrive Reuters: da un lato, è sotto il mirino dei conservatori che potrebbero addebitargli i rincari dei carburanti qualora dovessero restare alti, dall’altro, i progressisti potrebbero punirlo al momento del voto nel momento in cui dovessero constatare dei passi indietro rispetto alle politiche sul clima annunciate solo un anno e mezzo fa.

“La realtà è che ci devono essere costi a breve termine per guadagni a lungo termine e non sono sicuro che questa amministrazione sia disposta a pagarne il prezzo”, ha commentato Ed Hirs, economista energetico dell'Università di Houston, riferendosi ai costi politici e finanziari della lotta al cambiamento climatico. “Stiamo continuando a perseguire gli obiettivi climatici e faremo tutto il possibile per rispettare gli impegni”, ha risposto la portavoce della Casa Bianca Jen Psaki a chi le chiedeva se il presidente fosse ancora fiducioso al riguardo.

Fatto sta che l’amministrazione sta pianificando di mettere all’asta nuovi terreni pubblici per la ricerca di fonti fossili (si parla di 145.000 acri, poco più di 58mila ettari, con tassi di royalty che saliranno dal 12,5% al 18,75%, il primo aumento dal 1920) e la Casa Bianca si è rivolta all'industria dei combustibili fossili, chiedendo ai paesi petroliferi (dall’Arabia Saudita al Brasile) di aumentare la produzione, per tenere sotto controllo i prezzi alla pompa. Secondo uno studio (precedente all’annuncio di nuove aste) pubblicato dal sito Carbon Brief, un quarto di tutte le emissioni equivalenti prodotte dagli Stati Uniti dal 2005 provengono dai combustibili fossili estratti nelle terre e nelle acque pubbliche del paese.

E intanto il Build Back Better Bill – l’ambizioso progetto di legge sul cambiamento climatico e la spesa sociale da mille miliardi di dollari, di cui alcuni destinati a nuovi finanziamenti per la ricerca e lo sviluppo di tecnologie energetiche a basse emissioni di carbonio, come combustibili a idrogeno pulito, reattori nucleari avanzati e tecniche per rimuovere l'anidride carbonica dall'atmosfera – resta in stallo al Senato, bloccato dall’opposizione del senatore conservatore democratico Joe Manchin e dei repubblicani. I democratici del Senato hanno bisogno del sostegno di tutti i 50 membri più il vicepresidente Kamala Harris per far passare la legge attraverso un voto di partito noto come riconciliazione. 

Il 22 aprile, durante le manifestazioni per la giornata mondiale della Terra in decine di città, gli attivisti ambientali hanno chiesto al governo un’azione coraggiosa sul clima e l’approvazione del progetto di legge fermo al Senato da dicembre.

Contemporaneamente, il presidente statunitense però ha preso alcune decisioni politiche per affrontare anche la crisi climatica, tra cui l'inasprimento dei regolamenti federali sulle emissioni dei veicoli, gli idrofluorocarburi e le perdite di metano, e l'annuncio che l'amministrazione avrebbe acquistato veicoli elettrici per la flotta federale e reso gli edifici federali energeticamente efficienti. 

Nei giorni scorsi la Casa Bianca ha annunciato la riduzione della quantità delle aree ammissibili per la perforazioni nella Riserva Nazionale del Petrolio in Alaska (portandola dall’82% previsto da un piano dell’ex presidente Donald Trump al 52%) e il ripristino di una legge che chiede la valutazione degli impatti sul clima e del parere delle comunità locali prima che le agenzie federali approvino autostrade, oleodotti e altri grandi progetti.

Rapporto delle Nazioni Unite sulla desertificazione: “In nessun altro momento della storia moderna l'umanità ha affrontato così tanti rischi e pericoli”

La Convenzione delle Nazioni Unite per combattere la desertificazione (UNCCD) ha pubblicato la seconda edizione del Global Land Outlook (GLO2) che analizza gli scenari futuri della terra e i contributi del risanamento del suolo alla mitigazione del clima, alla protezione della biodiversità, alla salute e agli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite. 

Il rapporto, per la cui redazione ci sono voluti cinque anni di lavoro da parte di 21 agenzie, dice chiaramente che gli esseri umani hanno avuto un impatto senza precedenti sul suolo con vaste conseguenze per il cambiamento climatico, i sistemi alimentari e la biodiversità.

Le attività umane hanno già alterato il 70% della superficie terrestre e degradato fino al 40%. La degradazione avviene in tanti modi diversi: attraverso la deforestazione, l'agricoltura intensiva, gli incendi, il consumo di suolo, l'inquinamento chimico, le guerre, la costruzione di infrastrutture, qualsiasi processo ne alteri gli equilibri biofisici.

I sistemi alimentari, ovvero come gli esseri umani producono, lavorano, trasportano e consumano il cibo, sono i maggiori responsabili del degrado della terra, dice il rapporto. Essi rappresentano l'80% della deforestazione, il 29% delle emissioni di gas serra e la quota principale della perdita di biodiversità.

Il degrado della terra, prosegue il rapporto, è collegato a forti disuguaglianze: il 70% dei terreni agricoli del mondo è controllato da appena l’'1% delle aziende, in primo luogo le grandi imprese agroalimentari.  

“In nessun altro momento della storia moderna l’umanità ha affrontato una tale serie di rischi e pericoli, conosciuti e sconosciuti”, concludono gli autori del rapporto. Se continueremo a seguire il modello di “business as usual” fino al 2050, altri 16 milioni di chilometri quadrati - un'area grande quasi quanto il Sud America - potrebbero essere degradati. Al contrario, se daremo priorità alla protezione e al risanamento del suolo, potremmo dare vita a 4 milioni di kmq di nuove “aree naturali” entro il 2050, con benefici per tutto il pianeta e nella lotta al cambiamento climatico.

Il Global Land Outlook (GLO2) arriva appena due settimane prima della COP15 sulla desertificazione, in programma ad Abidjan, Costa d'Avorio, dal 9 al 20 maggio. L'ONU spera che la COP15 sia “un momento chiave nella lotta contro la desertificazione, il degrado della terra e la siccità”, mentre le parti entrano nel Decennio delle Nazioni Unite sul ripristino degli ecosistemi dal 2021 al 2030. L’obiettivo è rispondere concretamente alle sfide interconnesse del degrado della terra, del cambiamento climatico e della perdita di biodiversità evidenziate dal rapporto.

Come le grandi compagnie petrolifere ci hanno ingannato. La docuserie ‘​​The Power of Big Oil’

“Quello che ora sappiamo sulle posizioni di alcune di queste grandi compagnie petrolifere è che... sì hanno mentito. E sì, sono stato ingannato. Altri sono stati ingannati quando avevano prove nelle loro stesse istituzioni che contrastavano ciò che dicevano pubblicamente. Voglio dire che hanno mentito”. A parlare è l'ex senatore repubblicano Chuck Hagel nel documentario “The Power of Big Oil”, tra i politici statunitensi che hanno compromesso la ratifica statunitense del trattato di Kyoto sul clima, pur avendolo firmato nel 1998. 

Nel 1997, Hagel si unì al senatore democratico Robert Byrd per promuovere una risoluzione che si opponeva all'accordo internazionale per limitare i gas serra, con la motivazione che era ingiusto per gli americani. La misura passò al Senato degli Stati Uniti senza un solo voto contrario, dopo una vigorosa campagna delle grandi compagnie petrolifere per travisare il protocollo di Kyoto come una minaccia ai posti di lavoro e all'economia, sostenendo falsamente che Cina e India potevano continuare a inquinare a loro piacimento. La risoluzione ha effettivamente bloccato la ratifica degli Stati Uniti di qualsiasi trattato sul clima da allora, scrive il Guardian.

Venticinque anni dopo Hagel riconosce che il voto era sbagliato e dà la responsabilità all'industria petrolifera per aver disinformato sul cambiamento climatico e aver affermato che la scienza del clima non era provata, quando compagnie come Exxon e Shell erano già in possesso di evidenze scientifiche che provavano il contrario di quanto sostenevano.

In tre episodi – Denial (Nega), Doubt (Dubita), Delay (Ritarda) - il documentario traccia come le compagnie petrolifere hanno manipolato l’opinione pubblica e i politici, come fatto da altre grandi industrie come quelle del tabacco. I documentaristi hanno sentito ex scienziati aziendali, lobbisti e strateghi delle pubbliche relazioni.

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Alcuni degli intervistati ammettono con vergogna le loro responsabilità nell’azione di manipolazione dei dati, discredito degli scienziati e ritardo di quelle azioni che minacciavano i profitti delle grandi aziende petrolifere. Altri invece sembrano vantarsi di quanto sia stato facile ingannare il pubblico e i politici americani, con conseguenze non solo per gli Stati Uniti ma per l’intero pianeta.

Quello che emerge è il quadro di un sistema politico così compromesso che anche quando finalmente sembrava che la verità stesse per venire a galla, la realtà veniva rapidamente nascosta.

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Il documentario mette a nudo come l’industria dei combustibili fossili sia stata in grado di adattarsi al mutare dei contesti politici e scientifici e individuare strategie capaci di instillare dubbi e ritardare l’azione necessaria per contrastare la crisi climatica.

Nel momento in cui non potevano più negare la causa antropica del riscaldamento globale, “si sono rivolti all'economia", spiega Jane McMullen, la regista del primo episodio della serie. “È diventato quasi un fatto accettato che affrontare il cambiamento climatico costerà alle nostre tasche, mentre guardate il costo dei danni economici che abbiamo affrontato fino ad oggi per la crisi climatica”.

Un'amministrazione dopo l'altra, da Clinton in poi, ha trovato delle ragioni per ritardare le azioni necessarie perché non volevano trovarsi di fronte all’accusa di rendere gli americani più poveri, prosegue McMullen. “C'è questo impulso molto forte da parte dei politici di dire, aspetteremo, non c'è bisogno di farlo ora. Ma ovviamente non c'è tempo. E più a lungo si rimanda, più ripida è la montagna da scalare”.

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The Climate Game

Climate Game

E se fossi tu a decidere le politiche sul clima? Il Financial Times ha sviluppato un gioco in cui siamo chiamati a interpretare un neo-nominato “ministro globale per le generazioni future” che deve portare per portare il pianeta a zero emissioni nette di gas serra entro il 2050.

Il gioco mette di fronte alle difficili scelte da prendere per far sì che le temperature non si alzano più di 2°C e ci fanno rendere conto che la transizione ecologica va fatta ora. “In un gioco NBA, si può essere il general manager di una squadra (posizione che esiste realmente), in uno sparatutto, si può essere un soldato (un lavoro che esiste realmente). Ma nessun singolo cittadino è responsabile della politica climatica globale”, ha commentato Robinson Meyer, giornalista che si occupa di ambiente, clima ed energia per The Atlantic.

Immagine in anteprima: Frans Berkelaar, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons

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