La crisi idrica non sta arrivando. È già qui
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Osservato dall’alto, il fiume Colorado sembra un serpente color smeraldo per il colore delle sue acque rosse che negli anni hanno eroso gli altipiani di Colorado, Utah e Arizona negli Stati Uniti. Ha impiegato milioni di anni, il fiume, per scavare il Grand Canyon e disegnare uno dei paesaggi più suggestivi al mondo, ce ne sono voluti meno di cento per renderlo un solco che taglia il deserto nel suo tragitto verso il Golfo di California.
“Un mastodontico sistema di chiuse, dighe e grandi opere idroelettriche lo hanno ridotto a poco più di una conduttura idraulica” che sostiene 35 milioni di persone che popolano le numerose metropoli nate nel deserto del Southwest degli Stati Uniti dopo l’arrivo di pensionati provenienti da altre regioni e di immigrati ispanici impiegati nell’agricoltura e nei servizi, raccontava alcuni anni fa Luca Celada sul Manifesto. Il Colorado è il fiume più controllato al mondo: “una miriade di enti statali, amministrazioni locali, distretti agricoli e municipalità in una mezza dozzina di Stati hanno spremuto ogni goccia possibile delle sue acque”. E così quella che solo 50 anni fa era un’area piena di uccelli e fauna selvatica e che sosteneva centinaia di piccole fattorie e attività di pesca, è diventata “una ciotola di polvere incrostata di sale”, probabilmente irrimediabilmente devastata, secondo il parere di alcuni geologi e idrologi.
Dall’altra parte del mondo, Città del Capo, in Sud Africa, ha rischiato seriamente di diventare nel 2018 la prima grande città a corto d’acqua. Anni di siccità hanno impoverito i bacini idrici della metropoli. Il governo aveva pianificato il “Giorno Zero” in cui sarebbe cessato l’approvvigionamento idrico e i 3,7 milioni di abitanti della capitale legislativa sudafricana avrebbero potuto prendere l’acqua solo nelle stazioni di raccolta indicate dallo Stato. Le dure restrizioni sull’uso dell’acqua e le piogge frequenti hanno consentito a Città del Capo di evitare il “Giorno Zero” nel 2018 ma non di scongiurare la siccità negli anni successivi.
Il fiume Colorado e Città del Capo sono due esempi degli effetti combinati di sovrappopolamento, cambiamento climatico e consumo eccessivo di acqua. Secondo l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite sul consumo di acqua nel mondo, si stima che 3,6 miliardi di persone vivono in aree in cui per almeno un mese all’anno non è garantito l’accesso all’acqua. E la situazione non migliorerà in futuro perché ci si aspetta che la popolazione mondiale cresca di ulteriori 3 miliardi di persone entro il 2050 e la richiesta di acqua aumenti di un terzo. Allo stesso tempo il cambiamento climatico potrebbe aver provocato il prosciugamento di alcuni bacini idrografici e una loro contaminazione a causa delle inondazioni. La combinazione di questi fattori potrebbe portare a un numero di 5,7 miliardi di persone che per almeno un mese all’anno non avranno accesso all’acqua.
Nel nostro recente passato, gli esseri umani potevano permettersi di pensare all'acqua come a una risorsa più o meno una costante ma, prosegue il rapporto, l’accesso all'acqua sarà una delle principali lotte dei prossimi decenni (e a tutti gli effetti già del decennio che stiamo attualmente vivendo). La crisi idrica non sta arrivando, è già qui e le conseguenze possono essere terribili, scrive Peter Green su Quartz. L'acqua sarà per il XXI secolo quello che è stato il petrolio per il XX: la ricchezza di alcune nazioni e aziende, e la causa del declino economico e dell'instabilità politica di altre.
L'importanza dell'acqua
Il 96,5% dell’acqua è salata. Si trova negli oceani, nei mari e nelle baie e per essere utilizzata deve essere desalinizzata, un processo costoso e potenzialmente dannoso per l’ambiente. La maggior parte dell’acqua dolce immediatamente disponibile è di difficile accesso, bloccata nei ghiacciai o nel sottosuolo. I laghi, i fiumi e i corsi d’acqua rappresentano solo una piccola parte della fornitura globale.
Contestualmente cresce la popolazione mondiale e aumenta il numero di persone che si spostano dalle aree più povere e più depauperate dagli effetti dei cambiamenti climatici verso one più fertili e prospere. Inoltre, con la crescente industrializzazione e l’incremento delle classi di consumatori, aumenta anche il fabbisogno idrico richiesto.
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Non consumiamo, infatti, l’acqua solo per bere. Qualsiasi prodotto o alimento ha la sua “impronta idrica” (vale a dire, il volume totale, comprendente l’intera catena di produzione, di acqua dolce impiegata per produrre un bene o un prodotto): ad esempio, quando indossiamo una T-shirt, che pesa circa 250 grammi, in realtà stiamo indossando anche 2700 litri di acqua, quando mangiamo un hamburger, assieme alla carne, abbiamo consumato anche 2400 litri di acqua, dietro la tazza di caffè che beviamo ogni mattina ci sono 37 litri d'acqua usati per coltivare, produrre, confezionare e spedire i chicchi, più o meno la stessa quantità d’acqua utilizzata in media da un abitante del Regno Unito per bere e per le sue necessità domestiche. Come scrivevamo in un altro pezzo sugli impatti del consumo di carne sui cambiamenti climatici, uno dei fattori più rilevanti è rappresentato proprio dall’elevata impronta idrica di tutte le fasi della produzione del bestiame, dal pascolo alla distribuzione degli alimenti.
Attualmente circa 850 milioni di persone non hanno accesso all’acqua potabile e oltre 2,3 miliardi vivono in condizioni igieniche inadeguate e, spiega Peter Green su Quartz, da qui al 2040 molti paesi faranno fatica a sostenere la richiesta di acqua in tutto il mondo a causa dell’ulteriore incremento della popolazione mondiale e, conseguentemente, dei fabbisogni domestici e industriali.
L’acqua – ha dichiarato recentemente il direttore dell’intelligence statunitense Dan Coates – potrebbe diventare negli anni a venire una fonte di nuove guerre e instabilità politica. Secondo il rapporto sulle Minacce Interne USA del 2018, “la crescente scarsità d’acqua fresca causata dal cambiamento climatico, dall’urbanizzazione e dallo sviluppo inciderà sulla salute umana e alimenterà il malcontento economico e sociale”. Destinata a diventare bene sempre più prezioso, prosegue il rapporto, “la diminuzione dell’acqua a disposizione, la mancata gestione cooperativa di quasi la metà dei bacini idrografici internazionali del mondo e il nuovo sviluppo di dighe unilaterali porteranno probabilmente ad un aumento delle tensioni tra i paesi”.
Per quanto l’ONU abbia dichiarato che l’accesso all’acqua è un diritto umano, renderla potabile è un business. Le più grandi società del settore si contano sulle dita di una mano: la francese Veolia gestisce circa 8500 impianti di trattamento delle acque reflue in tutto il mondo e fornisce acqua potabile a 96 milioni di persone; l’American Water Works, fondata nel 1886, gestisce servizi idrici in 16 Stati degli Stati Uniti raggiungendo un totale di 15 milioni di persone; Suez, con sede a Parigi, gestisce impianti di trattamento delle acque da Dacca, in Bangladesh, a Barcellona, in Spagna,da Amman, in Giordania, a Bora Bora, nell’Oceano Pacifico; Thames Water, il più grande fornitore di servizi di acqua e acque reflue del Regno Unito, serve 15 milioni di clienti; Companhia de Saneamento Básico do Estado de São Paulo S.A. (Sabesp), per metà proprietà del governo di San Paolo, in Brasile, fornisce acqua dolce e raccoglie e tratta le acque reflue per 27,8 milioni di utenti.
Il rapporto sulle Minacce Interne 2018 individua 4 aree conflittuali in particolare: il bacino del Nilo, il fiume Mekong, la zone dell’Eufrate e il fiume Indo.
Nel bacino del Nilo, condiviso da 10 paesi, la crescente tensione sul controllo delle sue acque potrebbe portare a conflitti armati. L'Etiopia, fonte del Nilo Azzurro, sta costruendo dighe per migliorare le sue aziende e generare energia, mentre il Sudan sta vendendo vaste aree di terra irrigata dal fiume a paesi della Cina e del Golfo Arabo, riducendo la quantità di acqua che scorre in Egitto, la cui popolazione è in forte crescita.
Nel sud-est asiatico c’è grande preoccupazione sulla gestione del fiume Mekong, che nasce nel Tibet e scorre attraverso Myanmar, Thailandia, Laos, Cambogia e Vietnam. Dal 1995 la Cina ha costruito 7 dighe e ha in programma la costruzione di altre 20. Il rifiuto della Cina di unirsi alla Mekong River Commission (un'organizzazione intergovernativa che gestisce congiuntamente le risorse idriche condivise) ha fatto preoccupare i membri dei paesi a valle circa le intenzioni da parte della Cina, attraverso la realizzazione delle nuove dighe, di espandere la propria giurisdizione come fatto nel Mar Cinese meridionale.
L’Eufrate costituisce un’altra zona potenzialmente conflittuale. La Turchia ha avviato il "Southeastern Anatolia Project", un piano che prevede la costruzione di 22 dighe e 19 centrali elettriche lungo il fiume, in modo da dimezzare il flusso d'acqua in Siria e Iraq. La siccità e la gestione della parte siriana dell'Eufrate sono una della cause di malcontento che hanno portato poi alla guerra civile in Siria.
Il più importante fiume del Pakistan e il terzo più grande dell’Asia per portata annua, l’Indo è stato principalmente sotto il controllo indiano dalla divisione dell’India Britannica in India e Pakistan nel 1947. La costruzione di dighe a monte da parte dell'India e la riduzione del flusso di acqua sono una fonte di tensione costante tra i due paesi.
Le soluzione prospettate dall'ONU
Che fare, dunque, per evitare una crisi ambientale e geopolitica mondiale? Nel suo rapporto annuale sul consumo di acqua nel mondo pubblicato nel marzo 2018, l’ONU ha suggerito alcune pratiche per evitare conflitti e sprechi suggerendo un mix tra gestione cooperativa delle risorse e costruzione di dighe.
In particolare le Nazioni Unite consigliano di seguire i cosiddetti metodi utilizzati dai popoli indigeni nella gestione dei bacini idrografici per ottimizzare il consumo d’acqua. I popoli indigeni conoscono le “leggi” della natura ma i loro approcci sono stati ignorati preferendo interventi su scala industriale, come le dighe, si legge nel documento.
Attualmente gli indigeni “rappresentano il 5% della popolazione mondiale, si prendono cura di circa il 22% della superficie terrestre e proteggono quasi l’80% della biodiversità presente sul pianeta, alla base dei processi dell’ecosistema” e vitale per contrastare la crisi idrica mondiale. La perdita di alberi e piante rende le foreste meno stabili e meno resistenti alle tempeste e riduce il contributo delle foreste alla distribuzione dell’approvvigionamento idrico e a prevenire forti deflussi d’acqua. Allo stesso modo, in agricoltura, la perdita di biodiversità nei campi porta a terreni impoveriti che non possono più trattenere l’acqua.
Gli indigeni, però, prosegue il rapporto, vengono esclusi dalla pianificazione urbana e rurale e, se davvero si vuole fare tesoro delle loro conoscenze per risolvere le sfide che crisi idrica, sovrappopolamento e cambiamento climatico pongono, è necessario un loro coinvolgimento: “affinché [ndr, le soluzioni basate sulla natura] beneficino in modo adeguato dei contributi delle popolazioni indigene e di altre fonti di conoscenza, è imperativo che le loro vulnerabilità socio-economiche e ambientali siano affrontate e che i loro diritti siano rispettati”. Ma non sembra questa la strada intrapresa. Ultimo esempio è il Brasile, dove uno dei primi atti del nuovo presidente Juan Bolsonaro è stato sottrarre la giurisdizione delle proprie terre ai nativi per affidarla alle grandi imprese agrarie. Attualmente, solo l’1% degli investimenti a livello globale sono destinati a soluzioni basate sulla natura.
Tuttavia, qualcosa sta cambiando. La Cina investirà miliardi nel trasformare 12 aree urbane in "città di spugna" entro il 2020, progettando pavimentazioni permeabili e tetti verdi e ripristinando le aree umide. L'obiettivo è conservare l'acqua piovana in eccesso, che in genere allaga le strade e travolge le strutture, e fare in modo che la pioggia filtri attraverso un sistema di tamponi viventi che in modo naturale rimuovono gli agenti inquinanti. Al di sotto di questi tamponi è previsto un sistema di bacini che catturare l'acqua da riutilizzare.
Inoltre, è stato realizzato il “South-to-North Water Diversion Project”, un progetto da 48 miliardi di dollari che ha visto la realizzazione di due canali per portare 25 miliardi di tonnellate di acqua all'anno dal sud ricco fino a Pechino e alle terre aride del nord. Il progetto potrebbe aumentare il PIL di 0,3 punti percentuali e ha rianimato ecosistemi gravemente compromessi come il Lago Juyanhai nella Mongolia Interna, che si era prosciugato nel 1992.
A Houston, negli Stati Uniti, è stato realizzato un impianto da 1,3 miliardi di dollari di purificazione dell’acqua in modo tale di garantire un approvvigionamento di 1,5 miliardi litri al giorno dal lago di Houston e far fronte all’esaurimento delle falde acquifere e alla crescita della popolazione di un milioni di persone ogni dieci anni.
In Arabia Saudita, Riyad, è stato costruito il più grande impianto al mondo di dissalazione dell’acqua marina. Costato 7,2 miliardi di dollari, la struttura produce quasi 1 miliardo di litri di acqua fresca al giorno per 3,5 milioni di persone.
Nella Contea di Orange, in California, le acque reflue vengono depurate, rese potabili e poi pompate nuovamente nelle falde acquifere grazie a un impianto da 481 milioni di dollari che genera 1,4 miliardi di litri al giorno, sufficienti per gli 850mila residenti. Inoltre è stata creata una barriera per evitare che l'acqua salata dell'oceano si infiltri nelle acque sotterranee.
Nella valle di Puebla-Tlaxcala, in Messico, la Volkswagen ha lavorato per 6 anni con l'agenzia di protezione ambientale messicana per piantare alberi, scavare buche e costruire banchi di terra riuscendo in questo modo a garantire oltre 1,3 milioni di metri cubi di acqua all’anno nelle falde acquifere dell’area. Una quantità di acqua maggiore di quella che “il Gruppo Volkswagen consuma annualmente in Messico", secondo il rapporto delle Nazioni Unite.
"Abbiamo acqua a sufficienza ma ne sprechiamo troppa"
La questione, dunque, non riguarda le quantità d’acque presenti sul nostro pianeta, ma l’utilizzo che ne facciamo. Sprechiamo troppe risorse per rifornire le industrie e le nostre abitazioni, per produrre quel che consumiamo ogni giorno e per coltivare cibo spiega Peter Gleick, ricercatore sui temi ambientali e del cambiamento climatico e co-fondatore e presidente emerito del Pacific Institute. Circa un terzo di tutta la produzione alimentare viene coltivata con acqua proveniente da falde acquifere non rinnovabili e che si esauriscono rapidamente. L’intero flusso di alcuni fiumi come il Colorado, il Nilo o il Fiume Giallo è consumato per attività antropiche per parte (o addirittura tutto) dell’anno.
La migliore strategia da perseguire, prosegue il ricercatore, è risparmiare acqua. Ogni litro non sprecato è acqua che non viene presa da fiumi, falde acquifere o ecosistemi vulnerabili. Ogni litro risparmiato è acqua che non ha bisogno di essere trattata, convogliata e poi di nuovo trattata per essere depurata, riducendo così anche l’energia e le emissioni di gas serra necessari per far funzionare i sistemi idrici. Nelle nostre città oltre un terzo di tutta l’acqua viene sprecata a causa di perdite o inefficienze.
Non sprecare acqua non è un compito impossibile, scrive ancora Gleick. E lo dimostra la storia dei nostri elettrodomestici o dei servizi igienici d’uso quotidiani. Se un wc in passato negli Stati Uniti richiedeva in media 20 litri d’acqua per ogni getto, oggi ce ne vogliono 6 e i modelli più recenti ne utilizzano ancora meno. Se negli anni ‘20, esattamente un secolo fa, ci volevano 200 tonnellate di acqua per produrre una tonnellata di acciaio, oggi, negli impianti più efficienti, se ne consumano 3 o 4 per la stessa quantità.
Alcune aziende stanno fissando degli obiettivi per ridurre le loro impronte idriche. La Coca Cola, ad esempio, si è impegnata entro il 2020 a ridurre l’acqua utilizzata nelle fasi di produzione del 25% rispetto a 10 anni prima e restituire la quantità d’acqua usata. Inoltre, secondo uno studio del Pacific Institute, si potrebbe ridurre il consumo di acqua nell’agricoltura del 15% passando dall’irrigazione a pioggia all’utilizzo di irrigatori di precisione o a goccia.
"Toilet-to-tap": la soluzione del futuro?
In alcuni posti si sta sperimentando un sistema ad acqua a ciclo chiuso, in cui l’acqua che beviamo ed espelliamo, viene trattata, resa potabile e, dunque, pronta per essere bevuta di nuovo. Gli esperti lo chiamano “toilet-to-tap”, dal wc al rubinetto, in estrema sintesi.
È il modo utilizzato dagli astronauti per dissetarsi, ad esempio, spiega la giornalista ambientale Zoë Schlanger. Alla Stazione Spaziale Internazionale, un sistema idrico ad alta tecnologia raccoglie l'urina, il sudore, l'acqua della doccia e persino la condensa che gli astronauti immettono nell'aria. La miscela viene centrifugata finché il vapore acqueo non emerge, viene ricondensato, quindi riscaldato, ossidato e corretto con lo iodio.
In Namibia, il paese più arido dell'Africa sub-sahariana, la capitale Windhoek trasforma le acque reflue in acqua potabile da 50 anni, Singapore lo fa dal 2003. «Fondamentalmente, bevi l'acqua, vai in bagno, fai la pipì, la raccogliamo e la rendiamo potabile. È una scelta naturale per un paese che non ha risorse naturali di acqua dolce», ha detto George Madhavan, direttore del servizio pubblico di Singapore, a USA Today nel 2015. Il governo prevede di ottenere il 55% del suo approvvigionamento idrico da acque reflue entro il 2060.
Le tecnologie di filtraggio e depurazione delle acque reflue continuano a evolversi per stare al passo con il numero sempre crescente di sostanze chimiche e farmaceutiche che si trovano nell'acqua, anche se – spiega Schlangler – si tratta di una sperimentazione che fatica a farsi strada perché il “fattore disgusto” (associato all’idea della depurazione delle acque reflue) è ancora troppo alto e in gran parte dei paesi la minaccia della riduzione delle scorte d’acqua viene percepita ancora come lontana.
Ma così non è. E lo stanno sperimentando i cittadini del Texas che vivono in aree desertiche dove piove pochissimo. Big Spring, una cittadina di 28mila abitanti, convoglia acqua reflua riciclata dal 2014. El Paso, al confine con il Messico, 700mila abitanti, più arida e secca della capitale della Namibia, si sta attrezzando per fare lo stesso.
Negli ultimi trant'anni i cittadini di El Paso hanno notevolmente ridotto i loro consumi di acqua passando dai 210 galloni (794 litri) per persona al giorno agli attuali 128 (484 litri), tuttavia sempre al di sopra della media nazionale (meno di 378 litri). Nel 1985 l’acqua costava poco e i consumi erano insostenibili per una città che si trova nel deserto e così i livelli d’acqua nelle falde acquifere sono scesi tra il 1940 e il 1999 di ben 45 metri. Così dal 1991 sono state introdotte diverse misure per conservare l’acqua – a partire da programmi educativi nelle scuole e di controllo dei consumi nelle case (i giardini potevano essere innaffiati a giorni alterni a seconda se si abitava a un indirizzo pari o dispari) – che hanno fatto in modo che ci siano scorte stabili almeno per il prossimo secolo. Entro i prossimi 10 anni El Paso avvierà un impianto di riciclo dell’acqua. Costerà 100 milioni di dollari e sarà il più grande di questo tipo negli Stati Uniti.
Immagine in anteprima di David Kovalenko via Unsplash.com