COVID-19, la campagna vaccinale in Italia è in ritardo rispetto agli obiettivi annunciati. Di chi è la responsabilità?
10 min letturaLa campagna vaccinale contro la COVID-19 è sicuramente molto indietro rispetto ai ritmi che erano stati annunciati e sperati a fine dicembre. In due mesi abbiamo vaccinato 1.452.000 persone con entrambe le dosi: 2 abitanti su 100. Di chi è la responsabilità di questi ritardi? Entrano in gioco diversi fattori: le complesse logiche di geopolitica del farmaco, in termini di accordi di approvvigionamento, ma anche il fatto che il sistema sanitario italiano è a tutti gli effetti strutturato in modo federalista. La sanità è gestita a tutti i livelli dalle regioni, e ciò ha provocato profonde differenze nei risultati. Ci sono regioni che stanno vaccinando più di altre, perché ogni regione può scegliere la propria modalità di interpretazione del “piano strategico vaccinale”.
Linee di indirizzo, non “piano vaccinale”
Usiamo le virgolette perché di fatto quello che chiamiamo piano vaccinale, non è un piano, ma un documento di indirizzo nazionale. E non è un vezzo lessicale. Il documento dice sostanzialmente che le regioni devono rispettare due pilastri: mettere a riparo e proteggere i fragili e mantenere il funzionamento della società. La logica di come attuare questi desiderata è stata lasciata in mano alle regioni, che hanno dovuto adattare in corsa le proprie strutture, con una certa dose di interpretazione. E farlo in fretta e in più occasioni. Il primo “piano vaccinale”, aggiornato il 12 dicembre, era diverso rispetto alla seconda versione, datata 8 febbraio 2021, che ha dovuto tenere conto delle caratteristiche del nuovo vaccino di AstraZeneca.
“Un piano è un documento dettagliato, con una serie di azioni da intraprendere, l’identificazione degli attori che devono compierle, gli strumenti da utilizzare e la tempistica da rispettare”, ci spiega Stefania Salmaso, già direttrice del Centro nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute dell'Istituto Superiore di Sanità. “Un piano va declinato a livello operativo, e definisce le risorse necessarie e quante persone si è previsto che vengano vaccinate ogni giorno per il raggiungimento degli obiettivi. A partire dagli anni Novanta i piani nazionali di vaccinazione sono stati redatti in questo modo definendo i gruppi di popolazione a cui erano rivolte le offerte di vaccinazione e la proporzione di vaccinati da raggiungere nei tempi prefissati”. Chiaramente la situazione emergenziale legata alla COVID-19, anche solo per le tempistiche che ha richiesto, non è paragonabile a una normale campagna vaccinale, tuttavia nel documento attuale mancano ad esempio gli obiettivi di copertura vaccinale per singoli sottogruppi.
“Ogni regione dovrebbe aver fatto un proprio piano attuativo rispetto a questo documento di indirizzo, ma tali documenti, se sono stati redatti, non sono disponibili e non abbiamo il polso dettagliato di come sta andando la campagna di vaccinazione”, continua Salmaso. Basta consultare il cruscotto del Ministero della Salute per notare che di fatto sappiamo il numero di dosi somministrate e di persone vaccinate, ma non la percentuale di vaccinati per categoria. Dalla proporzione di dosi utilizzate in ogni regione emergono differenze significative, anche rispetto alla raccomandazione di mantenere una quota del 30% per le somministrazioni delle seconde dosi. “In Calabria e Sardegna poco più della metà delle dosi ricevute sono state somministrate, mentre in Val d’Aosta e nella PA di Bolzano più dell’80% delle dosi sono state usate”.
Chi fa cosa?
Quanto nel dettaglio sarebbe dovuto andare il “piano nazionale”? “Nel piano non è indicato chi fa che cosa, e questo rende difficile fare una valutazione di processo durante la campagna, prima di aspettare i risultati finali”. La stessa criticità la sottolinea anche Michele Mongillo, Direttore dell’Unità Organizzativa di Prevenzione e sanità pubblica della Regione Veneto.
“Sinceramente non so dire adesso, nel bel mezzo della campagna, se è un bene o un male non aver prodotto un piano nazionale stringente, come invece hanno fatto altri paesi europei”, continua Mongillo. “Forse è stato voluto così per permettere alle regioni di adattare le direttive al proprio sistema oliato, per correre di più. A fine campagna valuteremo la bontà di questa scelta, ora come ora vediamo più gli aspetti negativi”.
Fin dall’inizio – racconta Mongillo - non era così chiaro chi fossero gli interlocutori nazionali. Operativamente è stata creata da subito una rete con un referente per ogni regione che dialogava da una parte con la struttura commissariale per l’emergenza, gestita allora dal Commissario Domenico Arcuri, con cui si discutevano i fattori logistici cioè l’approvvigionamento a la distribuzione dei vaccini man mano che venivano approvati.
Parallelamente il referente si interfacciava con l’Istituto Superiore di Sanità (ISS), il Ministero della Salute e l'Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) per la parte più tecnica e scientifica (reazioni avverse, categorie di rischio, ecc). “La mia impressione è che ci sia stato poco coordinamento fra questi due riferimenti nazionali, e il risultato è che noi regioni ci confrontavamo con due mondi separati. Sarebbe stato più utile forse avere un unico interlocutore.”
Il confine fra Stato e Regioni
La salute degli italiani è materia “concorrente” tra Stato e Regioni. In condizioni normali allo Stato spettano gli atti di indirizzo generale su cui poi le singole Regioni e PA devono organizzarsi. Tuttavia ogni servizio sanitario regionale è strutturato in modo diverso. Lo ha stabilito la legge costituzionale n. 3 del 2001, nota come “la modifica del titolo V della Costituzione”. La tutela della salute (concetto più ampio della dizione “assistenza ospedaliera” dell’ordinamento previgente) rientra nell’ambito delle materie oggetto di legislazione concorrente tra Stato e Regioni. Rimangono attribuiti allo Stato la definizione degli obiettivi fondamentali di prevenzione, cura e riabilitazione e delle linee generali di indirizzo del Servizio sanitario nazionale, l’indicazione dei livelli di assistenza da assicurare in condizioni di uniformità sul territorio nazionale, la formulazione dei progetti-obiettivo da realizzare anche mediante la integrazione funzionale e operativa dei servizi sanitari e socio-assistenziali degli enti locali, la definizione delle esigenze prioritarie in materia di ricerca biomedica e di ricerca sanitaria applicata e l’individuazione degli indirizzi relativi alla formazione di base del personale.
Due esempi molto chiari per comprendere come tutto questo si è declinato sono il sistema lombardo e quello veneto, che qualche anno fa hanno entrambe modificato il proprio assetto. In Veneto si è scelto un approccio community-based, cioè dove l’assistenza primaria è potenziata a livello territoriale, non accentrata negli ospedali. Con la Legge Regionale n.19/2016 è stata creata la cosiddetta Azienda Zero per togliere alle singole ASL il peso della gestione burocratica, accentrando quindi la programmazione territoriale delle 9 ASL, che a loro volta avevano visto un accorpamento dal momento che prima della riforma erano 21. In Lombardia si è optato per una struttura ospedalocentrica, con la Legge Regionale n.23/2015 che ha accorpato 15 ASL in 8 ARS (Agenzie di tutela della Salute) optando per un sistema su tre livelli gerarchici: la Regione, le ATS che si suddividono a loro volta in 27 Aziende socio sanitarie territoriali “Asst” le vecchie Aziende Ospedaliere.
Ognuno corre da sé
Non tutte le regioni hanno beneficiato di questa autonomia operativa e c’è chi è molto più indietro di altre con le vaccinazioni. Non dimentichiamo che inizialmente, a dicembre, si riteneva che la campagna vaccinale sarebbe iniziata verso la metà di gennaio, mentre con la disponibilità a fine dicembre di vaccini autorizzati a livello europeo, si è partiti con il famoso V-day per il 27 dicembre 2020, uguale per tutta la UE. “Per noi si è trattato di anticipare di un mese la programmazione dell’attività ed è stata una corsa contro il tempo”, continua Mongillo. “Il 22 dicembre 2020 la Regione ha approvato una delibera che sviluppava tutti i punti del piano nazionale (ambulatori, tempi, categorie) e cinque giorni dopo siamo già dovuti partire. Una cosa mai vista, ma per fortuna che c’è stato questo anticipo perché la vaccinazione è l’unica arma che ci porterà più velocemente fuori dalla pandemia”.
Il risultato è che persone con la stessa patologia o della stessa età o che svolgono la medesima professione sono già state vaccinate oppure no, a seconda della regione in cui vivono.
La Regione Lazio, per esempio, ha affidato alle ASL il compito di individuare i luoghi più adatti per la vaccinazione in tutti i presidi, con alcuni – come l’Auditorium nel caso della ASL 1 di Roma - esclusivamente per gli over 80. “A fine gennaio abbiamo aperto una piattaforma regionale dove ci si prenota scegliendo la sede e l’orario dell’appuntamento. Si può scegliere, ad esempio, di essere vaccinati magari prima in un polo più lontano dalla nostra abitazione”, ci spiega Antonietta Spadea, Direttrice della UOC Accoglienza, Tutela e Promozione della Salute e coordinatrice della campagna vaccinale presso la ASL Roma 1. “Adesso stiamo partendo con i più vulnerabili, come indicato dal piano nazionale. Non essendoci delle indicazioni dettagliate, la Regione Lazio ha deciso di selezionare i pazienti vaccinabili in un primo momento grazie ai loro codici di esenzione. Nel piano nazionale sono infatti elencate le patologie di vulnerabilità (patologie oncologiche, cardiache, respiratorie), ma non il grado di gravità delle stesse. Abbiamo chiesto ai Medici di Medicina Generale di individuare i soggetti più fragili con i codici prioritari. Solo quelli possono essere accettati dalla piattaforma in fase di iscrizione, che partirà dal 4 marzo”.
Nello stesso tempo la Regione ha stipulato un accordo con i Medici di Medicina Generale affinché a partire dall'1 marzo chi aveva già ricevuto entrambe le dosi di vaccino potesse vaccinare con il vaccino di AstraZeneca, più facilmente stoccabile. “Al 2 marzo il 50% dei Medici di Medicina Generale della ASL 1 di Roma ha aderito, prenotando il vaccino per i propri assistiti a partire dalla coorte di nati nel 1956”, continua Spadea.
Alcune regioni hanno optato per utilizzare una piattaforma per le prenotazioni, altre no. Il Veneto per esempio ha utilizzato il software già in uso da anni per l’anagrafe vaccinale, puntando su un sistema di convocazione alla vaccinazione da parte della ASL, invece di un sistema di prenotazione da parte del paziente.
Due problemi di pianificazione
Primo: se le regioni hanno autonomia nell’adattare il “piano” ma di fatto gli stock delle dosi che arrivano sono conteggiati sulla base di una specifica interpretazione delle fasi e delle categorie decisa a livello centrale, non si può fare una vera programmazione regionale. Il Veneto per esempio nella prima fase ha incluso anche tutte le comunità di alloggio e le strutture residenziali per soggetti fragili, come disabili e minori, a rischio perché vivono in comunità. “Le quote di vaccini distribuiti nelle prime settimane tuttavia erano tarate contando come target della prima fase solo gli operatori socio-sanitari e gli ospiti delle case di riposo, e solo dall’8 febbraio 2021 sono stati aggiunti nel computo gli over 80”, spiega Mongillo. In Veneto gli over 80 sono 360 mila persone, il doppio degli operatori sanitari e degli ospiti delle case di riposo e questo ha creato una difficoltà nel gestire i vaccini distribuiti in base prima a una numerosità e poi a un’altra.
Secondo: è difficile pianificare avendo una totale incertezza sulla quantità di dosi che arriveranno da qui a un mese. Le regioni hanno le informazioni sulle dosi che arriveranno nelle due settimane successive, non oltre: il 22-23 febbraio c’era una certezza solo fino all’8 marzo.
“Quello che possiamo dire è che gli over 80 nel Lazio verranno sicuramente vaccinati entro aprile, e man mano stiamo inserendo le altre categorie ampliando le sedi e assumendo molto personale. È una corsa contro il tempo”, aggiunge Spadea.
Perché arrivano poche dosi?
Perché non ce ne è per tutti al momento, e le forniture dipendono dalla capacità negoziale dei singoli con le aziende, dal momento che a oggi i vaccini per la COVID-19 sono ancora sotto brevetto. Il risultato è che c’è chi paga molto più di altri per lo stesso prodotto, chi deve affidarsi alla filantropia internazionale (per esempio all’iniziativa COVAX dell’Organizzazione Mondiale della Sanità). A oggi il 16% dei paesi si è accaparrato il 75% dei vaccini prodotti, con paesi che non riceveranno vaccini prima del 2024. Inoltre nel sud del mondo i vaccini costano di più: l’Uganda paga 8,5 dollari a dose per il vaccino di AstraZeneca, la Commissione Europea 3,5 euro a dose (in questo studio c’è la tabella con gli importi per alcuni Big del mondo).
“Sono giorni importantissimi. Mentre parliamo l’Organizzazione Mondiale del Commercio sta discutendo la richiesta di India e Sudafrica di sospendere alcuni diritti di proprietà intellettuale per liberalizzare l'accesso alla conoscenza scientifica esistente che può favorire la produzione di vaccini, rimedi farmacologici, o la produzione di presidi medicali contro la COVID-19”. A parlare è Nicoletta Dentico, responsabile del programma di salute globale di Society for International Development. Che cosa significa? Che il mondo si gioca una importante partita per il futuro: se accogliere una temporanea deroga alle regole del commercio internazionale che da sempre condizionano duramente l’accesso ai farmaci essenziali con i brevetti, oppure se invece la strada resta quella delle Licenze Volontarie da parte delle aziende, cioè la possibilità di cedere il brevetto ad altre industrie del settore su base volontaria, per non intaccare la proprietà intellettuale, e per dettare le condizioni della concessione.
“Se le aziende si organizzano fra di loro, scatta la logica del cartello”, spiega Dentico. “Prima della COVID-19, l’85% della produzione di vaccini era in mano a quattro aziende”. La Licenza Volontaria è altra cosa dalla Licenza Obbligatoria, con cui i governi (per esempio europei) si appropriano del brevetto aziendale per motivi di salute pubblica, a fronte di pagamento di royalties alle imprese, e decidono dove e chi può produrre vaccini o altri prodotti necessari in uno o più dati paesi, mettendo a punto una filiera di produzione mirata al bisogno sanitario. “L’Europa in questo si sta muovendo molto lentamente a mio avviso, nel confronto con altri paesi come Cina e Russia, che si stanno orientando in tale direzione. La Cina sta stipulando accordi con diversi paesi a medio reddito come Tailandia, Malesia, Indonesia, che potrebbero diventare presidi di produzione di vaccini. E la Russia con il medio Oriente e l’America Latina. A me pare che in Europa non si sia ancora capito che il vaccino è diventato lo strumento principe della diplomazia internazionale. Attraverso il vaccino si ridisegna una nuova geopolitica e un nuovo multilateralismo del sud del mondo”.
*Avevamo contattato anche la Regione Toscana e la Regione Sardegna, ma non abbiamo avuto risposta.