Dopo tre anni di Covid, siamo ancora impreparati di fronte alle minacce globali
12 min letturaL’esplosione dei contagi in Cina e i tamponi obbligatori agli aeroporti prima e dopo le partenze. Di colpo, sembra di essere tornati indietro di tre anni, tra la fine del 2019 e i primi mesi del 2020, quando tutto è iniziato e ci si illudeva di poter fermare il virus alle frontiere mentre i contagi, silenti, già dilagavano nei singoli Stati. Come allora la prima risposta è stata controllare le entrate – anche Giappone, Corea del Sud, India, Francia e Regno Unito, oltre all’Italia, hanno ripristinato i tamponi per chi arriva dalla Cina, mentre gli Stati Uniti e Unione Europea chiedono un tampone negativo almeno 48 ore prima della partenza, con l'immediata reazione di Pechino che ha parlato di misura “eccessiva” e “non fondata scientificamente” – catalizzando l’attenzione su una minaccia esterna e tacendo che l’epidemia non si è mai fermata all’interno dei confini. Come se in tutti questi anni non avessimo imparato che gli strumenti diagnostici, i vaccini e i programmi di test e trattamento, i dispositivi di protezione individuale, il sequenziamento dei campioni virali, una strategia di salute pubblica adeguata sono più efficaci delle misure di restrizione ai viaggi per controllare l’epidemia, come hanno mostrato più studi.
Come scrive Ettore Meccia in un post su Facebook, "il controllo degli arrivi dalla Cina potrebbe essere utile se fosse mirato non ad impedire l'ingresso di altro virus oltre a quello già presente (in 3 anni ci abbiamo provato con WU1, con delta, con omicron, ma abbiamo imparato che è inutile. Confermato del resto proprio dall'arrivo di omicron in Cina nonostante tutti i controlli), ma a controllare quello che entra, facendo il sequenziamento di tutti i casi positivi in ingresso. O come qualcuno propone, applicando le stesse analisi che già si fanno per il monitoraggio delle acque reflue urbane agli scarichi delle toilettes degli aerei. E oggettivamente sarebbe utile farlo non solo per quelli in arrivo dalla Cina. Ovviamente ormai è ci è chiaro che sapere che da qualche parte c'è una nuova variante non gli impedirà di arrivare anche da noi, ma sarebbe sicuramente meglio saperlo prima piuttosto che scoprirlo dopo". Fermandoci all’Italia, “la nostra capacità di sequenziare i campioni virali è tra le più basse d’Europa. Negli ultimi sei mesi, nei laboratori italiani sono stati effettuati appena cento sequenziamenti al giorno in media”, sottolinea Andrea Capocci su Il Manifesto.
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D’altronde questa reazione non deve stupire considerato che il calo della mortalità da COVID-19 a livello globale, la minore attenzione politica e l'allentamento delle misure di salute pubblica (distanziamento fisico, utilizzo delle mascherine, ecc…) ha portato in molti paesi alla percezione prematura che la pandemia fosse finita, nonostante il numero di casi di ancora elevato a livello globale. Solo alcuni mesi fa, il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, annunciava “la fine della pandemia” negli Stati Uniti. Una questione puramente “semantica”, si era affrettato a dichiarare Anthony Fauci, ma sufficiente a edulcorare una realtà che invece è molto meno rosea. A novembre la COVID-19 uccideva ancora ogni settimana un numero di americani pari a quello dei morti dell'11 settembre, il CDC stima che 19 milioni di adulti siano affetti da long COVID.
“La situazione è indubbiamente migliorata rispetto al picco della crisi, ma dire che la pandemia è ‘finita’ è come definire un combattimento ‘finito’ perché l'avversario ti colpisce alle costole invece che in faccia”, commenta in un articolo su The Atlantic Ed Yong, vincitore del premio Pulitzer per la sua copertura della COVID-19.
Dietro quest’approccio c’è l’idea che le pandemie siano eventi eccezionali che si verificano ogni cento anni. Ma le pandemie non sono eventi rari, scrivono in un articolo su Foreign Affairs gli epidemiologi ed esperti di malattie infettive Larry Brilliant, Mark Smolinski, Lisa Danzig e Ian Lipkin, direttore del Centro per le infezioni e l'immunità della Columbia University, direttore fondatore dell'Alleanza globale per la prevenzione delle pandemie e consulente di Pandefense Advisory. E se è vero che la COVID-19 è arrivata praticamente un secolo dopo l’influenza spagnola del 1918, la vera anomalia non è stata questa pandemia, ma i precedenti cento anni di relativa calma.
Questo modo di pensare non solo continua a rivelarsi inadeguato e a far sì che il nuovo coronavirus sfrutti – come avvenuto sin dall’inizio – le criticità dei nostri sistemi di gestione della pandemia, ma ci rende vulnerabili ad altre epidemie. Il rischio di pandemie è aumentato costantemente. Negli ultimi decenni sono emerse regolarmente nuove malattie infettive e il cambiamento climatico sta accelerando il ritmo di questi eventi. Le cause sono numerose: la crescita della popolazione, l'urbanizzazione, il maggior consumo di carne e la crescente vicinanza alla fauna selvatica. L'insieme di questi fattori aumenta il rischio di diffusione dei virus animali all'uomo. Una volta che i nuovi virus infettano le persone, altri fattori rendono più probabile la loro rapida diffusione. Con l'aumento dei viaggi a lunga distanza, un agente patogeno può ora attraversare il globo in poche ore, e la crescita dei raduni di massa aumenta le probabilità di eventi che possono infettare un gran numero di persone in una sola volta.
È difficile dire quanti virus circolino tra gli animali, ma il numero è impressionante: secondo una stima, ci sono più di 300.000 virus animali che gli scienziati devono ancora caratterizzare. All'incirca ogni minuto, da qualche parte sulla terra, un virus animale si diffonde a un essere umano, un evento noto come "salto zoonotico". Nella maggior parte dei casi, la storia finisce lì, con la persona che riceve il salto di specie che non infetta nessun altro. In altri casi, lo spillover porta a piccoli gruppi di malattie che si estinguono rapidamente. Si pensi che nell'estate del 2021, mentre il mondo era concentrato sulla COVID-19, l'OMS ha ricevuto segnalazioni di oltre 5.000 nuovi focolai in tutto il mondo, pochi dei quali hanno fatto notizia.
Ma se è vero che la crescita della popolazione sia animale che umana, l'industrializzazione, e l'urbanizzazione hanno aumentato il rischio che le malattie arrivino all'uomo e si diffondano, una società sempre più interconnessa e i progressi della scienza hanno permesso di trovare e sviluppare nuovi strumenti per prevenire, tracciare e contenere le infezioni, consentendoci di impedire che i salti di specie si trasformino in caos globale, osservano Lipkin e i suoi colleghi su Foreign Affairs.
In altre parole, le epidemie sono inevitabili, ma non le pandemie. Il compito più importante dell'umanità è quindi fare tutto il possibile per scongiurare un’era delle pandemie. Si tratta di un compito reso più facile che mai in precedenza dalla scienza moderna, ma che richiede tutto quello drammaticamente mancato finora: velocità, cooperazione e fiducia tra gli Stati e tra le diverse parti della società. Senza il superamento di queste criticità, continueremo a inseguire epidemie prossime a diventare pandemie. E “le generazioni future si chiederanno perché abbiamo fatto così poco per prevenire la prossima pandemia o per combattere questa”.
Future generations will wonder why we did so little to prevent the next pandemic or to fight this one even as it still rages. https://t.co/GaM7LNdzRE
— Brendan Nyhan (@BrendanNyhan in other places) (@BrendanNyhan) October 3, 2022
Continuiamo a non imparare dagli errori
Purtroppo, invece, continuiamo a mostrare la nostra incapacità di fronte alle minacce globali e a reiterare gli errori commessi in passato. Ed Yong ne individua almeno quattro.
Il primo errore è attribuire la COVID-19 alla responsabilità individuale. Le malattie sono una questione di comunità. I governi dovrebbero prendere decisioni che rispondano alla salute della collettività (obbligatorietà o meno dei vaccini, dell’utilizzo delle mascherine, ecc…) mentre i singoli individui devono essere consapevoli che le scelte di ognuno si ripercuotono indissolubilmente sugli altri. Eppure, scrive Yong, persino i funzionari governativi hanno sempre inquadrato la COVID come una questione di responsabilità personale.
Il secondo errore è stato valutare la pericolosità della malattia sulla base delle capacità delle strutture sanitarie e non sui suoi tassi di infezione, tollerando che il virus possa diffondersi finché gli ospedali sono in grado di recepire i ricoveri. Ma una strategia del genere – in base alla quale il virus esiste solo quando diventa particolarmente pericoloso – predispone di fatto alla sopraffazione delle strutture ospedaliere e della salute individuale, con i pronto soccorso presi d’assalto, il personale medico-ospedaliero esausto e perennemente sotto organico in un contesto di sistemi sanitari sotto-finanziati, ondate di malati cronici di lungo corso che non potranno avere accesso alle cure. Fino a quando la priorità sarà inseguire la pandemia, tutto questo succederà ancora.
Il terzo errore è fare della malattia una questione esclusivamente biomedica ignorando il contesto sociale della malattia. Vaccini e antivirali sono efficaci ma funzionano se raggiungono tutti. “Le cure, i vaccini e le diagnosi vanno prima alle persone con potere, ricchezza e istruzione, che poi si spostano, lasciando che le comunità più colpite dalle malattie continuino a sopportarne il peso. Lo abbiamo visto anche con HIV e parzialmente con monkeypox”, scrive Yong.
Il quarto errore è ritenere che l’endemicità del virus sia sinonimo di minore pericolosità. Che la COVID-19 diventi una malattia endemica non significa che i suoi effetti siano più leggeri e non giustifica, di conseguenza, l’inazione. Negli ultimi tre anni più volte si è parlato di ritorno alla normalità, della possibilità di poter tornare ad abitudini quotidiane ormai dismesse (al punto tale da apparire addirittura desuete), del raggiungimento dell’immunità di gregge. Ma ogni qual volta abbiamo parlato di fine della pandemia una nuova variante ci ha fatto tornare a fare i conti con la diffusione dei contagi, le misure per frenare la diffusione del nuovo coronavirus, l’efficienza del sistema sanitario e la tenuta degli ospedali, l’efficacia dei vaccini e dei farmaci. L’ottimismo è venuto meno con l'aumento dei casi e dei decessi in India, Brasile e altrove. E poi con la comparsa di varianti, per certi versi inaspettate, come Delta e Omicron. Il tempo guadagnato è stato sprecato, vivendo e governando come se il virus non ci fosse più. L’endemicità richiede invece una gestione attiva, spiega Yong.
Una cosa è chiara: la fine della pandemia non può coincidere con quando la pandemia cessa di fare notizia. Purtroppo proprio su questo aspetto stanno giocando media e leader mondiali. E se è vero che la fine della pandemia non sarà trasmessa in televisione, è altrettanto vero che far uscire la pandemia dai nostri orizzonti senza imparare dagli errori fatti con SARS-CoV-2 ci predispone a farci trovare impreparati di fronte alle epidemie future. E un esempio della reiterazione di errori recenti e passati è stato il modo attraverso il quale ci siamo approcciati a monkeypox.
Quali saranno le prossime epidemie?
Gli epidemiologi hanno individuato diverse malattie che potrebbero dare origine a una epidemia. Oltre ai coronavirus, ci sono le malattie trasmesse da vettori, come pulci, zecche, moscerini e zanzare. Fanno parte di questa categoria la febbre gialla, la febbre West Nile, la Zika, la dengue e l'encefalite giapponese. Questi virus possono diffondersi attraverso trasfusioni di sangue, trapianti di organi e il contatto sessuale.
Poi ci sono gli orthopoxvirus, una categoria che include il vaiolo, sono un'altra minaccia pandemica. Il motivo per cui gli orthopoxvirus non sono oggi in cima alla lista è che il grande killer di questo gruppo, la Variola major, che causa il vaiolo, è stato dichiarato eradicato nel 1980, dopo una campagna durata decenni.
Poi ci sono le malattie di origine batterica. La pandemia più letale della storia mai registrata - la peste nera - è stata causata dal batterio Yersinia pestis, trasmesso dalle pulci. L'epidemia, iniziata nel 1346, potrebbe aver ucciso un terzo dell'Europa. Dall'avvento degli antibiotici a metà del XX secolo, la peste e altre malattie batteriche con potenziale epidemico, come il colera e la tubercolosi, sono state tenute sotto controllo. Ma i batteri sono ancora in circolazione - nel 2021 sono stati segnalati più di 100 casi di peste negli Stati Uniti - e c'è sempre la possibilità che possano riemergere con una certa forza.
Infine, c’è quella che l’OMS definisce la “malattia X”. Potrebbe trattarsi di un nuovo focolaio di un virus a lungo nascosto, come nel caso del virus Zika che, sebbene sia stato identificato nel 1947, è emerso come una minaccia importante solo nel 2015. Potrebbe trattarsi di una malattia sconosciuta causata da una famiglia di virus animali che non era mai stata identificata prima, come inizialmente l'HIV/AIDS. Oppure potrebbe essere qualcosa di completamente diverso.
Come affrontare le prossime epidemie: prevenire il salto di specie, frenare i contagi, intervenire tempestivamente
Lipkin e altri hanno individuato tre grandi azioni per evitare che i salti di specie si trasformino in pandemie.
Innanzitutto, va fermato lo spillover. Siccome i principali fattori che determinano i salti di specie sono tendenze a lungo termine difficili da invertire - crescita della popolazione, migrazioni, cambiamenti climatici, invasione degli habitat - si potrebbe pensare che si possa fare poco. Ma le innovazioni nella sorveglianza delle malattie animali stanno permettendo agli scienziati di individuare i virus zoonotici prima che facciano il salto verso l'uomo. Attraverso applicazioni mobili e linee telefoniche dirette, le persone possono ora segnalare malattie insolite nel bestiame o nel pollame, e morti inaspettate tra la fauna selvatica, dando alle istituzioni la possibilità di identificare la malattia, abbattere gli animali infetti se necessario e mettere in quarantena gli esseri umani vicini. Questi programmi sono efficaci dal punto di vista dei costi e più pratici che mai. Inoltre, bandendo il commercio illegale di animali selvatici esotici e la loro vendita in mercati affollati, i governi bloccherebbero un altro canale di diffusione delle malattie. Infine, per ridurre il rischio di incidenti di laboratorio, i governi dovrebbero stabilire standard internazionali forti e trasparenti che richiedano precauzioni accurate, soprattutto nei laboratori che raccolgono campioni animali.
Realisticamente, tuttavia, per il prossimo futuro, un certo grado di diffusione sarà inevitabile. Gran parte del lavoro di prevenzione delle pandemie dovrà attendere fino a quando il virus non infetterà la prima vittima umana, quindi il tempo è fondamentale. Quanto più velocemente si individuano i salti di specie, tanto prima si potrà contenere la diffusione. Interrompere la trasmissione diventa più difficile man mano che i virus si adattano all'uomo, poiché gli agenti patogeni diventano più efficienti nel riprodursi e più abili nell'eludere il nostro sistema immunitario, come dimostrano le quasi 100 combinazioni e mutazioni del SARS-CoV-2. Fortunatamente, le nuove tecnologie e il maggior numero di operatori della sanità pubblica hanno permesso una più rapida individuazione. Vent'anni fa, la notizia di un focolaio in una regione remota poteva impiegare sei mesi per raggiungere un dipartimento sanitario nazionale, un'eternità in termini epidemiologici. Oggi, lo stesso focolaio potrebbe essere individuato in una o due settimane.
La seconda azione è fermare la diffusione. Anche se una malattia non viene contenuta alla fonte, si è ancora in tempo per evitare che l'epidemia si diffonda a livello globale. Come nel caso degli sforzi per individuare i focolai, le nuove tecnologie hanno migliorato notevolmente la capacità dei funzionari della sanità pubblica di riconoscere le epidemie. Albania, Bangladesh, Cambogia, Pakistan e Tanzania, ad esempio, stanno collaborando con Ending Pandemics per costruire database con dati provenienti da diverse fonti: articoli di giornali locali, post sui social media, sistemi digitali di sorveglianza delle malattie, dati sulle acque reflue.
I miglioramenti tecnologici sono stati accompagnati da miglioramenti del sistema sanitario pubblico globale. Solo pochi decenni fa, l'OMS poteva rispondere a un'epidemia solo se era stata segnalata dal governo del paese in cui si era verificata. Ma dal 2005, quando gli Stati membri dell'OMS hanno aggiornato le loro regole, l'organizzazione è in grado di rispondere a un'epidemia indipendentemente dal modo in cui ne viene a conoscenza. Nell'ambito di questa riforma, l'OMS ha anche costruito un proprio strumento ad alta tecnologia per individuare i primi segnali di potenziali pandemie. L'iniziativa Epidemic Intelligence from Open Sources passa in rassegna continuamente 20.000 fonti digitali alla ricerca di segnalazioni.
La cooperazione è un elemento chiave della sorveglianza. Sebbene le nazioni ricche possano permettersi le attrezzature, le forniture e il personale necessari per identificare e monitorare le minacce infettive, i paesi a basso e medio reddito, dove queste minacce spesso emergono, in gran parte non possono farlo. Un segnale promettente è che i diversi Stati stanno condividendo sempre più spesso le informazioni sulla salute pubblica, dando un contributo affinché la diffusione locale o nazionale non diventi una pandemia. Ventotto paesi stanno segnalando regolarmente i casi di infezione attraverso il Connecting Organizations for Regional Disease Surveillance (CORDS), un gruppo fondato nel 2009 dalla Nuclear Threat Initiative e dalla Fondazione Rockefeller e sostenuto da diverse agenzie ONU e da varie organizzazioni private. Questa condivisione precoce delle informazioni è fondamentale perché consente una risposta coordinata, dando ai funzionari della sanità pubblica maggiori possibilità di evitare che la malattia diventi globale.
La terza azione è intervenire tempestivamente e collaborare per ridurre gli impatti di un’epidemia. Oltre alle azioni per mitigare i contagi (distanziamento sociale, lavarsi le mani, indossare le mascherine, evitare gli assembramenti), il sequenziamento virale è essenziale per sviluppare test diagnostici e dovrebbe essere reso disponibile a livello globale. Anche i medici dei paesi in via di sviluppo hanno bisogno di questo potente strumento.
Poi ci sono i farmaci antivirali. Mentre un virus a RNA può evolversi con relativa facilità per eludere i vaccini, la probabilità che possa sviluppare contemporaneamente tutte le mutazioni necessarie per sopravvivere a un attacco su più fronti da parte di un farmaco antivirale è bassa. Inoltre, poiché molti virus utilizzano le stesse strategie riproduttive, i ricercatori possono sviluppare farmaci che probabilmente funzioneranno contro classi di virus che non sono ancora emerse. Questi farmaci non sostituiranno i vaccini e sono più costosi da produrre e distribuire. Ma potrebbero costituire un elemento cruciale per prepararsi a una pandemia.
Infine, va rafforzata la collaborazione tra Stati. Una cosa che nessuna somma di denaro può curare è la mancanza di fiducia, scrivono Lipkin e gli altri studiosi su Foreign Affairs. La pandemia ha messo a nudo la sfiducia tra i paesi (con alcuni governi che hanno nascosto i dati e altri che hanno fatto incetta di vaccini) e tra le popolazioni e i loro funzionari della sanità pubblica. La fiducia segna quella soglia tra chiamare un numero verde e scegliere di non farlo, tra condividere informazioni a livello internazionale e nasconderle, tra seguire le regole di quarantena e ignorarle, tra condividere i vaccini e accaparrarseli. Senza fiducia, anche le migliori politiche di salute pubblica falliranno. È soprattutto questo elemento umano che determinerà se il mondo potrà usare le scoperte scientifiche per evitare la catastrofe.
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