L’occupazione è illegale, Israele deve restituire i territori al popolo palestinese e le colonie vanno smantellate. E ora?
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Venerdì 19 luglio, la Corte Internazionale di Giustizia, il tribunale delle Nazioni Unite incaricato di risolvere le controversie tra Stati e di fornire pareri agli organi dell'ONU, ha emesso un parere consultivo in risposta alla richiesta dell’Assemblea Generale dell'ONU di chiarire quali fossero le conseguenze giuridiche derivanti dalla continua presenza israeliana nei territori palestinesi occupati a seguito della Guerra dei Sei Giorni del 1967 (Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est).
In estrema sintesi, nelle sue 83 pagine di parere, la Corte dell’Aja ha dichiarato che l’occupazione dei territori palestinesi è illegittima secondo il diritto internazionale e deve essere terminata. La Corte ha stabilito che Israele non sta occupando temporaneamente i territori, ma sta cercando di annetterli in modo permanente. Pertanto, Israele deve smantellare le colonie, restituire i territori al popolo palestinese, che ha il diritto all’autodeterminazione, e compensare i danni causati durante questi anni. Inoltre, la Corte ha affermato che le politiche israeliane nei territori occupati costituiscono una discriminazione sistemica e una segregazione della popolazione palestinese. La Corte ha anche sottolineato che tutti gli Stati della comunità internazionale hanno l'obbligo di collaborare con le istituzioni internazionali per porre fine a questa situazione il prima possibile e non possono riconoscere le conseguenze dell’occupazione.
Il parere è già stato definito dagli esperti come il più importante degli ultimi decenni nell'attività della Corte e influenzerà con tutta probabilità lo sviluppo del conflitto israelo-palestinese per gli anni a venire, fornendo le coordinate giuridiche essenziali per guidare la discussione politica e le negoziazioni tra le parti. Di seguito cercheremo di fornire una panoramica del suo contenuto, trattando le questioni più rilevanti e cercando di analizzare il tipo di impatto che questa pronuncia potrà produrre su più larga scala.
Di cosa parliamo in questo articolo:
Cosa è un’opinione consultiva?
Innanzitutto, è importante chiarire che non si tratta di una sentenza, ma di un parere consultivo. Come suggerisce il nome, si tratta di un parere che la Corte può emettere su richiesta di un altro organo delle Nazioni Unite.
Il parere consultivo consente alla Corte di pronunciarsi su qualsiasi questione giuridica e serve affinché le istituzioni delle Nazioni Unite possano ottenere dei chiarimenti dalla Corte sullo stato del diritto internazionale per svolgere al meglio le proprie funzioni.
La Corte non è di norma obbligata a emettere i pareri e può astenersi a sua discrezione se ritiene che esistano delle ragioni per tutelare l'integrità della propria funzione giudiziaria. In questo caso, Israele aveva richiesto alla Corte di non pronunciarsi, motivando tra le altre cose che la richiesta dell’Assemblea generale fosse formulata in modo fazioso e che il parere poteva compromettere la risoluzione del conflitto tra le parti in via negoziale. La Corte tuttavia non ha accettato queste motivazioni.
I pareri consultivi possono essere richiesti dal Consiglio di Sicurezza, dall’Assemblea Generale e dagli altri organi o agenzie specializzate delle Nazioni Unite. Consiglio e Assemblea possono richiedere pareri su ogni questione. In questo caso, la richiesta era stata presentata dall’Assemblea Generale il 19 gennaio 2023 , con le seguenti questioni [nda, traduzione nostra]:
- (a) Quali sono le conseguenze giuridiche che derivano dalla continua violazione da parte di Israele del diritto del popolo palestinese all'autodeterminazione, dalla sua prolungata occupazione, insediamento e annessione dei territori palestinesi occupati dal 1967, comprese le politiche volte a alterare la composizione demografica, il carattere e lo status della Città Santa di Gerusalemme, e dall’adozione delle correlate leggi e misure discriminatorie?
- (b) In che modo le politiche e le pratiche di Israele indicate nel paragrafo (a) influenzano lo status giuridico dell'occupazione, e quali sono le conseguenze giuridiche che ne derivano per tutti gli Stati e per le Nazioni Unite in relazione a tale status?
Le richieste non vincolano la Corte, che può sempre riformularle, quando lo ritenga opportuno, per inquadrarle più correttamente dal punto di vista giuridico. In ogni caso, la Corte si è pronunciata sulla sostanza delle due richieste dell’assemblea: sulla natura dell’occupazione israeliana, e delle politiche israeliane all’interno dei territori occupati; e sulle conseguenze che ne derivano sia per Israele che per gli altri Stati della Comunità internazionale e per le Nazioni Unite. Poiché la richiesta dell’Assemblea era stata introdotta prima dei fatti del 7 ottobre 2023, la Corte non ha preso in considerazione la situazione nei territori palestinesi successiva all’operazione militare speciale avviata da Israele in risposta agli attacchi di Hamas.
L’occupazione israeliana è illegale?
La Corte si è dapprima soffermata sulla natura dell’occupazione israeliana nei territori palestinesi. Tali territori sono una “singola unità territoriale” (para. 78) e comprendono anche la Striscia di Gaza, nonostante Israele abbia ritirato la presenza militare nella Striscia dal 2005 (fino al 2024). Israele infatti dispone ancora di un notevole potere di controllo effettivo sulla Striscia, per cui non può essere assolto – dice la Corte – dagli obblighi che gli derivano dal diritto umanitario.
La Corte non ha affermato che l’occupazione dei territori sia di per sé illecita, ma ha chiarito che è illecita la maniera in cui Israele l'ha condotta negli anni e continua a condurla. Secondo il diritto internazionale umanitario, un’occupazione non è mai di per sé lecita o illecita. Durante un conflitto armato, l’occupazione è una situazione puramente di fatto, temporanea per sua natura, dalla quale derivano obblighi per la potenza occupante e diritti per la popolazione del territorio occupato.
Secondo la Corte l’occupazione israeliana è illecita perché mira a realizzare, attraverso la trasformazione della composizione demografica e dello stato dei luoghi, l’annessione permanente dei territori palestinesi. La durata prolungata dell'occupazione e le politiche israeliane – inclusi gli insediamenti, la confisca dei territori palestinesi, l'estensione delle leggi israeliane ai territori occupati, le politiche di trasferimento forzato e espulsione dei palestinesi, le demolizioni di edifici palestinesi e le misure insufficienti a proteggere i palestinesi dalla violenza dei coloni – sono progettate per rimanere in essere in via definitiva e creare effetti irreversibili. Queste azioni sono vietate dalle norme internazionali che proibiscono l'annessione dei territori attraverso l’uso della forza.
Inoltre, non solo le politiche di annessione, ma anche le violazioni dei diritti umani che Israele continua a perpetrare nei territori occupati contribuiscono a rendere l'occupazione illegittima secondo il diritto internazionale. Per la Corte, infatti, le politiche israeliane che impongono restrizioni ai permessi di soggiorno, limitano la libertà di movimento dei cittadini palestinesi nei territori e portano alla demolizione delle loro proprietà, costituirebbero una forma di discriminazione sistemica e di segregazione razziale, in violazione delle norme internazionali a tutela dei diritti umani.
Israele sta commettendo apartheid?
Questo è uno dei punti delicati della pronuncia della Corte. La Corte non si è spinta fino ad affermare che le politiche israeliane all’interno dei territori costituiscono “apartheid”. In termini più sfumati, la Corte ha affermato che le pratiche israeliane servono a mantenere una “separazione quasi-completa” (paragrafo 229) tra la popolazione israeliana e quella palestinese, e dunque violano l’Articolo 3 della Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale (CERD). L’Articolo 3 della CERD, tuttavia, vieta sia la “segregazione razziale” che l’“apartheid”, e non c’è modo di capire con certezza a quale delle due fattispecie la Corte abbia fatto riferimento.
Il presidente della Corte, il giudice Salam, chiarisce nella sua opinione separata che il riferimento nel paragrafo 229 andrebbe interpretato nel senso di riferirsi all’apartheid: “Israel’s commission of inhumane acts against the Palestinians as part of an institutionalized régime of systematic oppression and domination, and its intention to maintain that régime, are undeniably the expression of a policy that is tantamount to apartheid” (Dichiarazione del Presidente Salam, para. 29). Tuttavia, è chiaro come la Corte abbia voluto appositamente mantenere una certa ambiguità nell’uso del linguaggio, di modo che sul punto potesse esserci un sostanziale consenso tra i giudici, i quali verosimilmente non avrebbero unanimemente accettato una formulazione differente.
Quali sono le conseguenze dell’occupazione illecita per Israele?
La Corte ha chiarito che lo Stato di Israele è soggetto a tutte le tipiche conseguenze che derivano dal commettere un illecito internazionale: cessazione dell'illecito, garanzia che l'illecito non si ripeta e riparazione del danno.
Israele deve pertanto porre fine all'occupazione di tutti i territori occupati dal 1967 il più rapidamente possibile, restituendoli al popolo palestinese, che ha diritto ad autodeterminarsi in uno stato sovrano. Inoltre, Israele deve cessare le politiche di annessione, discriminazione e segregazione razziale nei territori occupati, smantellare gli insediamenti illegali, evacuare i coloni e consentire il ritorno pacifico dei palestinesi espulsi. Infine, Israele è tenuto a risarcire i danni causati durante l'occupazione, compresi quelli causati dalla demolizioni delle proprietà palestinesi (più di 11.000 edifici dal 2009 secondo i dati a disposizione della Corte).
Quali sono le conseguenze per gli Stati della comunità internazionali?
In considerazione della particolare gravità delle violazioni commesse da Israele, la Corte ha dichiarato che insorgono delle conseguenze giuridiche anche in capo agli altri Stati della Comunità internazionale. Spetta all’Assemblea Generale e al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite decidere le modalità per assicurare la fine dell’occupazione illegittima. Tutti gli Stati della Comunità internazionale devono cooperare con le istituzioni internazionali per portare l’occupazione a termine il prima possibile. Inoltre, gli Stati non devono prestare alcuna forma di supporto e assistenza al mantenimento dell'occupazione e, soprattutto, hanno l’obbligo di non riconoscere le conseguenze che ne derivano, comprese le variazioni nella composizione dei territori.
Che impatto avrà il parere della Corte Internazionale di Giustizia?
A differenza di una sentenza, un parere consultivo non è giuridicamente vincolante. Tuttavia, poiché la pronuncia proviene dal massimo organo giudiziario delle Nazioni Unite, il parere è particolarmente autorevole.
Il parere può produrre un impatto significativo anche per quella che è la sua funzione intrinseca. Infatti, nel rispondere alle questioni poste, la Corte chiarisce quale è lo stato attuale del diritto internazionale in una data materia. Le sue determinazioni chiariscono le norme in vigore e hanno il potere di influenzare gli attori della comunità internazionale che con tali norme si trovano ad operare.
All'interno di questa pronuncia diversi sono gli elementi capaci di influenzare le relazioni internazionali e i rapporti della Comunità con lo Stato di Israele.
In diversi passaggi del parere, la Corte chiarisce, ad esempio, che né un’interpretazione degli accordi di Oslo (para. 140) né le preoccupazioni per la sicurezza di Israele (para. 254) possono giustificare l’esigenza di annettere i territori palestinesi. Questo contraddice sostanzialmente la retorica israeliana prevalente che sostiene che la creazione di uno Stato palestinese debba essere impedita per garantire la sicurezza e la pace di Israele.
La Corte altresì chiarisce che, dal punto di vista del diritto internazionale, i territori occupati dopo il 1967 (Cisgiordania, Striscia di Gaza, Gerusalemme Est) costituiscono un’unica unità territoriale, su cui il popolo palestinese ha diritto di esercitare l’autodeterminazione. Questo è un aspetto che non potrà essere ignorato in sede di definizione negoziale dello status territoriale della Palestina.
Inoltre, la Corte ha chiarito che gli Stati non possono riconoscere come legittime le conseguenze che derivano dall’occupazione illegittima dei territori palestinesi, incluse le variazioni nella sovranità territoriale. Pertanto, sembra improbabile che alcune politiche del passato, come quella statunitense che aveva attuato il trasferimento dell’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, possano essere mantenute, perché ciò comporterebbe un riconoscimento, diretto o indiretto, delle conseguenze dell’occupazione.
In più, la Corte ha stabilito che gli Stati non possono fornire aiuto e assistenza a Israele per il mantenimento della sua occupazione illegittima. Questo implica che uno Stato che fornisca assistenza militare a Israele per sostenere in maniera diretta o indiretta l'occupazione contravverrebbe alle indicazioni della Corte e violerebbe il diritto internazionale. Sebbene ci possa essere spazio per interpretazioni sfumate di questa parte del parere – ad esempio, l'assistenza militare potrebbe essere giustificata se destinata a sostenere Israele nell'esercizio del diritto alla legittima difesa – tale rischio potrebbe influenzare le relazioni di Israele con i propri alleati, specialmente in paesi come la Germania (dove il tema è al centro del dibattito da tempo) o gli Stati Uniti (dove è diventato recente argomento di discussione in vista dell’imminente cambio di amministrazione) portando a una riduzione significativa dell'assistenza militare.
Il supporto ad Israele potrebbe anche diminuire su più larga scala per gli effetti reputazionali che il parere inevitabilmente produrrà. Sebbene non direttamente legato a quanto affermato dalla Corte dell’Aja, il Regno Unito ha fatto sapere a pochi giorni dall’adozione della pronuncia che ritirerà il proprio intervento a favore di Israele nei procedimenti giudiziari di fronte alla Corte penale internazionale.
Per giunta, poiché la Corte ha stabilito che gli Stati devono rimuovere qualsiasi ostacolo che impedisca al popolo palestinese di esercitare il diritto all'autodeterminazione (para. 279), ciò potrebbe tradursi in un obbligo per i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza di non ostacolare, attraverso l'uso del veto, l'accoglimento della Palestina come Stato membro a pieno titolo delle Nazioni Unite. Questa accettazione contribuirebbe, infatti, al processo di autodeterminazione della Palestina come Stato sovrano.
Inoltre, il parere potrebbe offrire agli Stati le basi giuridiche per giustificare l’adozione di sanzioni internazionali nei confronti di Israele, analogamente a quanto accaduto nei confronti della Russia a seguito dell’invasione dell’Ucraina, anche nell’assenza di iniziative istituzionalizzate decise nel quadro delle Nazioni Unite. A seguito del parere, il Giappone ha già provveduto ad imporre sanzioni nei confronti di quattro coloni israeliani per le violenze causate sulla popolazione palestinese. L’Australia ha affermato di non escludere tale possibilità.
Non è nemmeno da escludere che le considerazioni della Corte riguardo alle responsabilità israeliane nei confronti della popolazione palestinese possano produrre effetti a catena sull’accertamento delle responsabilità israeliane per eventuali crimini di genocidio o altri crimini internazionali. Le due ipotesi sono attualmente al vaglio della Corte Internazionale di Giustizia e della Corte Penale Internazionale.
The Jewish people are not occupiers in their own land, including in our eternal capital Jerusalem nor in Judea and Samaria, our historical homeland. No absurd opinion in the Hague can deny this historical truth or the legal right of Israelis to live in their own communities in…
— Benjamin Netanyahu - בנימין נתניהו (@netanyahu) July 19, 2024
Vale infine una considerazione di carattere generale sul rispetto del diritto internazionale così come identificato dal parere. Sebbene non esista un vincolo formale di rispettare i pareri della Corte, il rifiuto di conformarsi colloca lo Stato che adotta tale comportamento al di fuori delle norme che regolano la convivenza civile e pacifica tra gli Stati e in contrasto con la comunità internazionale nel suo complesso. In aggiunta alle altre recenti e conclamate violazioni del diritto internazionale (tra cui il mancato rispetto dell’ordinanza della Corte in Sudafrica c. Israele e della risoluzione del Consiglio di Sicurezza che aveva ordinato un cessate-il-fuoco temporaneo durante il mese del Ramadan) e ai comportamenti intimidatori mostrati verso la Corte penale internazionale, ignorare il parere della Corte conformerebbe ulteriormente la volontà dello Stato di Israele di isolarsi dalla comunità internazionale, quasi fino a volerne uscire. Una posizione che non solo è difficile da mantenere sul lungo periodo, ma che anche difficilmente potrà essere tollerata dagli altri Stati per molto tempo.
Immagine in anteprima: frame video Democracy Now! via YouTube