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La pandemia è la prova generale di quello che ci aspetta con il cambiamento climatico

15 Maggio 2020 23 min lettura

La pandemia è la prova generale di quello che ci aspetta con il cambiamento climatico

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21 min lettura

Agenzia Internazionale dell'Energia (IEA): «Le emissioni globali sono tornate a crescere dopo un calo di circa il 6% nel 2020 in seguito ai lockdown»

Aggiornamento 5 marzo 2021: La scorsa primavera, durante i lockdown in tutto il mondo nel tentativo di arginare la diffusione del nuovo coronavirus, ha iniziato a farsi strada la narrazione che la pandemia stesse paradossalmente facendo bene al pianeta. Finalmente l'uomo stava arretrando, la natura si stava riappropriando dei propri spazi, l’inquinamento stava diminuendo. Ma, come avevano segnalato molti esperti di clima, non c'era retorica più distorcente e più nociva di quella.

In un articolo su Internazionale, Gabriele Crescente aveva fatto notare come in ogni crisi economica a una iniziale diminuzione delle emissioni facesse seguito un momento di ripresa con conseguente aumento delle emissioni. È successo anche nel 2009: quando i governi hanno meno risorse e hanno fretta, sono le attività produttive tradizionali a venire privilegiate.

“Alcuni scienziati paragonano l'anidride carbonica nell'atmosfera all’acqua che scorre in una vasca che perde. Il lockdown ha girato la manopola del rubinetto, ma non lo ha chiuso. Fino a quando non ridurremo le emissioni al net-zero, in modo tale che quelle che fluiscono nell'atmosfera siano equivalenti a quelle che fuoriescono, la Terra continuerà a riscaldarsi,” scriveva Grist lo scorso maggio.

E così è stato. I lockdown non hanno chiuso la manopola del rubinetto. Secondo quanto rilevato da un rapporto dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA), in seguito al rallentamento dell’attività economica e industriale e dei trasporti a causa della pandemia, la domanda di energia primaria è diminuita nel 2020 del 4% con un calo senza precedenti di quasi 2 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, pari alle emissioni globali dell’Unione europea. Inoltre, sebbene la domanda di energia sia diminuita, si è registrato un incremento dell’energia prodotta da fonti rinnovabili, salita dal 27% del 2019 al 29% dello scorso anno.

Tuttavia, prosegue la IEA, dopo un iniziale calo delle emissioni globali nel 2020, scese del 5,8%, alla fine dell’anno si è registrato un incremento, che sta proseguendo anche in questo inizio di 2021.

La Cina, il più grande emettitore di gas serra al mondo, è stato l'unico paese che ha registrato un aumento delle emissioni dello 0,8% rispetto ai livelli del 2019, mentre in India, il terzo più grande produttore di emissioni al mondo, le emissioni hanno superato i livelli del 2019 a partire da settembre, in concomitanza con l’allentamento delle restrizioni.

“Il rimbalzo delle emissioni globali di fine 2020 è un chiaro segnale che non si sta facendo abbastanza per accelerare la transizione verso l’energia pulita in tutto il mondo”, ha commentato Fatih Birol, direttore esecutivo di IEA. “In assenza di importanti cambiamenti politici nelle maggiori economie del mondo, è probabile che le emissioni globali aumenteranno anche nel 2021”.

In questo approfondimento del maggio scorso parlavamo di come la pandemia non fosse la soluzione per il riscaldamento globale ma, anzi, ci stesse facendo vedere in poco tempo quello che il cambiamento climatico sta incubando da decenni. Il cambiamento climatico e le pandemie sono entrambi l’esito dello stravolgimento degli ecosistemi e dell’impatto dell’uomo sull’ambiente che si manifestano però su scale temporali differenti.

Acque limpide, animali in città, cieli tersi, mappe satellitari che mostravano la riduzione dell'inquinamento sulle aree più inquinate del pianeta. Subito dopo i primi giorni di lockdown, ha iniziato a farsi strada la narrazione che la pandemia stesse paradossalmente facendo bene al pianeta. Finalmente l'uomo arretrava e la natura si riappropriava dei propri spazi. Ma non c'è retorica più distorcente e più nociva di questa. Perché dopo che oltre un terzo della popolazione mondiale ha vissuto sotto isolamento, tutte le responsabilità umane nei confronti dell’ambiente appaiono tragicamente evidenti. Come ha detto l'ex direttore del Guardian, Alan Rusbridger, la pandemia è “la prova generale di quello che ci aspetta con il cambiamento climatico”.

Crisi climatica e pandemia si assomigliano: entrambe ci stanno danneggiando, entrambe sono causate dall'intervento umano sugli ecosistemi, per entrambe la scienza ci dice a cosa stiamo andando incontro e quali strategie adottare, muovendosi tra pressioni politiche, industriali, corporative. Negli Stati Uniti, in piena campagna elettorale per le presidenziali di novembre 2020, i conservatori stanno dicendo che la crisi economica a causa del lockdown è solo l'antipasto di quello che il paese dovrà affrontare nel caso venisse approvato il Green New Deal. Nel frattempo, a causa dell'epidemia, l'annuale conferenza internazionale sul clima che avrebbe dovuto tenersi a novembre in Scozia è stata rimandata di un anno e si terrà sempre a Glasgow dall'1 al 12 novembre 2021. Gli organi preparatori che ogni anno si tengono a Bonn in estate sono stati spostati a ottobre. E le scadenze pressanti rischiano di venire dilatate.

La retorica distorcente della natura che si riappropria dei propri spazi
L’inquinamento è davvero diminuito?
La diplomazia climatica è rallentata
La pandemia è come il cambiamento climatico, accelerato
Cosa fare?

La retorica distorcente della natura che si riappropria dei propri spazi

Elefanti in Cina
Cigni a Milano
Fotomontaggio di delfini nei pressi del porto di Venezia

Alcuni video e foto che hanno fatto il giro dei social nei primi giorni di lockdown mostravano l’acqua limpida dei canali veneziani, cigni nei navigli di Milano, delfini nel porto di Cagliari (in un video scambiata per Venezia), fotomontaggi sempre di delfini nei pressi del porto di Venezia (come mostriamo in una delle immagini inserite nell'articolo), elefanti apparentemente “ubriachi” nei campi di mais in Cina. Molti hanno deciso di condividere queste immagini che rappresentavano una natura romanticizzata in un quadro vagamente apocalittico.

Il 20 marzo un articolo del National Geographic dimostrava che, quando non si trattava apertamente di falsi come nel caso dei delfini photoshoppati con la basilica di San Marco sullo sfondo, erano quantomeno strumentalizzazioni di eventi ordinari. I cigni arrivano spesso nei canali delle città e lo stesso vale per gli elefanti nella provincia di Yunnan che peraltro non si erano mai ubriacati col vino di mais. Da qui ai meme il passo è stato breve.

Pappagalli a Londra
Mammut nelle Marche
Carta igienica nei supermercati

L’intento di chi ha postato queste immagini era dimostrare che la natura, da quando le persone sono costrette in casa dal lockdown, si sta riprendendo i suoi spazi legittimi e sta guarendo da sé. Invece la frase ricorrente “dovremmo estinguerci tutti”, associata a questi fenomeni, non considera la necessità del lavoro ambientalista.

In effetti, la natura si stava riprendendo da molto prima che la pandemia di COVID-19 ci costringesse a casa e continuerà a farlo con l'aiuto di buone politiche.

«È il risultato di una tendenza più lunga, perché, se quelle specie fossero in declino, non si presenterebbero nemmeno durante l’isolamento», spiega a Valigia Blu Frans Schepers, direttore della ONG che lavora per la salvaguardia delle terre selvagge Rewilding Europe. «Dobbiamo stare molto attenti quando traiamo certe conclusioni, anche quando sarebbe bello trarre che ci fosse un collegamento. Fermo restando che gli animali si comportano in modo diverso quando tutto è tranquillo e si fanno vedere più facilmente vicino a città e villaggi».

Alcune specie rare come i rinoceronti stanno invece facendo i conti con un aumento del bracconaggio. Ne parla un articolo di Wired, in cui viene ribadita l’importanza della conservazione naturale: gli animali nei parchi in Tanzania e Namibia vengono attaccati per guadagnare qualcosa, in mancanza delle risorse provenienti dal turismo e in concomitanza con un allentamento dei controlli.

«Il fatto che possiamo vedere più animali selvatici in giro è principalmente legato ai benefici di una migliore protezione ambientale, una diminuzione di bracconaggio e caccia, un miglioramento dell'habitat», continua Schepers. «Quando si allevia la pressione umana, col tempo la natura risponde positivamente - questo è certo».

«Dagli anni '60, abbiamo osservato un ritorno spettacolare di molte specie iconiche di animali selvatici in Europa. Ciò è dovuto principalmente alla legislazione dell'Unione europea che fornisce protezione legale. Ha fatto un'enorme differenza per pellicani, lupi, orsi, cervi, castori, avvoltoi e rapaci. È molto positivo vedere che in generale le persone sono diventate più tolleranti nei confronti della fauna selvatica e hanno iniziato a goderne in un certo senso».

«C'è un'enorme capacità di guarigione in natura, il che dà molta speranza. È anche una buona notizia per noi che dipendiamo dalla natura e da tutto ciò che fornisce, come acqua e aria pulite. Crediamo fortemente che ci sia un enorme potenziale per ripristinare i nostri territori degradati. Il recupero è possibile, se scegliamo di promuoverlo».

Quella delle immagini può sembrare una manomissione fatta a fin di bene, ammesso che ne esista una, invece è proprio il messaggio finale a essere pericoloso. Considerare la specie umana come estranea agli ecosistemi in cui vive, persino come il vero virus da estirpare secondo quando sostenuto, ad esempio, da Extinction Rebellion East Midlands e altri, è problematico da almeno tre punti di vista: ecologico perché non è vero (anche gli uomini sono animali), etico perché è deresponsabilizzante (“dovremmo estinguerci tutti”) e strategico perché connota le pratiche ambientaliste come estremiste (anziché politiche).

Il tweet di XR East Midlands poi cancellato
I commenti al tweet di XR East Midlands

Il gruppo di Extinction Rebellion East Midlands ha sospeso il proprio account in seguito alle discussioni suscitate da questo post (da cui tutto il movimento, comprese le realtà locali, come Extinction Rebellion Belgium, ad esempio, hanno preso le distanze) . Non è la prima volta che succede qualcosa del genere, tanto che per questa ideologia è stato coniato il termine “ecofascismo” le cui origini risalgono al nazismo.

In un’intervista dell’anno scorso all’Huffington Post, la scrittrice e attivista Naomi Klein parlando del suo ultimo libro ‘On Fire: The Burning Case for a Green New Deal’, riassume così il concetto di eco-fascismo: “Siamo infiammabili anche politicamente.”

Non è dunque un caso se in Francia la leader dell'estrema destra Marine Le Pen ha ripreso la retorica sangue-suolo dell'era nazista, l'impegno di rendere l'Europa la "prima civiltà ecologica al mondo" e la distinzione con le persone "nomadi" che "non hanno patria" e "non si preoccupano dell'ambiente". Lo stesso vale per altri movimenti simili ovunque nel mondo: i manifesti pubblicati online dagli attentatori di Christchurch ed El Paso hanno esplicitamente citato il cambiamento climatico come motivazione per l'omicidio di immigrati e minoranze. Così il suprematismo bianco ha ripreso senza troppa fatica toni da ambientalismo colonialista che vedono alcuni popoli come oggetti da civilizzare, se non estirpare, per la salvaguardia della bellezza della natura.

“Questo è ciò che comporta avere persone così vicine al limite,” ha dichiarato Klein. “C'è una rabbia là fuori che deve rivolgersi da qualche parte e abbiamo demagoghi esperti nel dirigere quella rabbia nei confronti dei più vulnerabili, proteggendo i più potenti e i più colpevoli”.

L’inquinamento è davvero diminuito?

Oltre alle immagini, un’altra distorsione viene dai dati sull’inquinamento che sembrano mostrare un quadro incoraggiante. Ma, mentre l'aria è indubbiamente più pulita a causa di un calo delle emissioni legate ai trasporti, l'impatto dell'isolamento individuale sull'ambiente è tutto sommato inferiore a quanto si pensi.

Mappa emissioni Co2 via International Energy Agency

In un articolo su Internazionale, Gabriele Crescente ha fatto notare come in realtà tutte le crisi economiche sono state gli unici momenti storici in cui la crescita costante delle emissioni ha subito un calo. Ogni volta si è trattato di un episodio di breve durata seguito dalla ripresa e il conseguente aumento delle emissioni. È successo anche nel 2009: quando i governi hanno meno risorse e hanno fretta, sono le attività produttive tradizionali a venire privilegiate.

Quindi non sarà la pandemia a risolvere il cambiamento climatico, anzi. Il think tank Ember ha registrato un drastico calo della domanda di elettricità ovunque in Europa - con l'Italia in testa. La domanda di elettricità in Italia è calata del 25% in tre settimane, seguita dalla Spagna al 10-15% e Germania, Regno Unito e Polonia finora all’8%. Da allora, il valore del petrolio è crollato. Secondo Bloomberg, il prezzo è così basso che gli attivisti possono comprarlo.

Richiesta di energia elettrica giornaliera – via EMBER
Andamento mercato del carbonio – via EMBER

Anche il mercato europeo del carbonio è stato colpito. "C'era già un processo in corso per la riforma del mercato del carbonio presso la Commissione europea, e la pandemia significherà che l'estensione e l'urgenza di tali riforme saranno più grandi di quanto sarebbero state altrimenti", dice l’analista Dave Jones. "Tuttavia, è chiaro che a lungo termine i prezzi del carbonio si riprenderanno: l'Europa si è impegnata ad azzerare le emissioni entro il 2050 e anche in questo svolgono un ruolo".

Máximo Miccinilli, direttore del Centre on Regulation in Europe (CERRE), ha definito la pandemia "un punto di svolta" e sostiene che sarebbe "inaccettabile usare il pretesto di COVID-19 per indebolire i pilastri esistenti delle politiche dell'Unione europea in materia di energia e clima".

Secondo l’ONU, le emissioni di gas serra devono essere ridotte del 7,6% ogni anno per evitare che il riscaldamento globale superi 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali.

Contrariamente alla tendenza che vede l’aria generalmente più pulita nelle città dove è stato imposto il lockdown, le concentrazioni di gas serra non soltanto non si sono fermate affatto ma stanno persino raggiungendo nuove vette.

Secondo quanto riporta Grist, “la migliore delle analisi suggerisce che il mondo è ancora sulla buona strada per rilasciare il 95% del biossido di carbonio emesso in un anno tipo, continuando a riscaldare il pianeta e provocando il cambiamento climatico anche mentre noi restiamo bloccati a casa.” Le emissioni, infatti, continuano a provenire da quelle parti della produzione industriale ancora in funzione così come dalle abitazioni e dalle centrali elettriche a combustibili fossili.

Inquinamento ed emissioni, entrambe questioni ambientali legate al riscaldamento globale, non vanno dunque confuse. “Alcuni scienziati paragonano l'anidride carbonica nell'atmosfera all’acqua che scorre in una vasca che perde. Il lockdown ha girato la manopola del rubinetto, ma non lo ha chiuso. Fino a quando non ridurremo le emissioni al net-zero, così quelle che fluiscono nell'atmosfera saranno equivalenti a quelle che fuoriescono, la Terra continuerà a riscaldarsi,” conclude Grist.

La diplomazia climatica è rallentata

Da qui alla primavera 2021, alcuni mesi prima di quando si terrà  COP26 (rinviata, come detto, a novembre 2021), due cose potrebbero fare la differenza: più tempo per sviluppare una strategia di ripresa efficace e la possibilità che gli Stati Uniti si presentino ai negoziati con un altro Presidente al posto di Donald Trump, responsabile di avere ritirato il paese dall’Accordo di Parigi.

«La diffusione della pandemia non solo in Italia bensì a livello mondiale ha chiaramente avuto ripercussioni sulle attività internazionali e multilaterali, ivi incluse quelle legate al cambiamento climatico, e allo stato attuale tutti gli incontri organizzati in ambito Nazioni Unite sono stati sospesi», dice a Valigia Blu la dott.ssa Federica Fricano, che si occupa di negoziato internazionale ed europeo sul cambiamento climatico, Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare.

«Per quanto riguarda l’organizzazione degli eventi previsti a Milano, il governo italiano continua a lavorare in stretto contatto con tutti i suoi partner, incluso il Regno Unito. Continuiamo a monitorare costantemente l’evoluzione dello stato di emergenza sanitaria in modo da adattare prontamente le nostre attività al contesto internazionale in continuo cambiamento. L’Italia inoltre è membro del Bureau della Convenzione, e lavora in tale contesto con il segretariato UNFCCC, la Presidenza COP25 e COP26».

Stefano Caserini, ingegnere ambientale ed esperto di clima, aggiunge sempre a Valigia Blu: «Anche gli eventi collaterali, che sono comunque importanti per far progredire il negoziato, verranno fortemente ridimensionati».

«Non è facile per nessuno dire ora quali saranno le conseguenze sui negoziati. Questo avrebbe dovuto essere un anno importante perché dovevano esserci i rilanci degli impegni nazionali (nationally determined contributions, o NDC) previsti dall’Accordo di Parigi ogni cinque anni. Cioè si attendevano nuovi impegni in materia di riduzione delle emissioni da parte di tutti i paesi. Se le delegazioni nazionali non potranno incontrarsi, chiaramente sarà più difficile soddisfare le aspettative, aumentate nel 2019. Per quanto riguarda i negoziati bilaterali, l’Unione europea aveva già previsto un percorso di confronto con la Cina».

Avere più tempo non sarà necessariamente un vantaggio. A marzo 12 stati membri avevano scritto una lettera al vicepresidente della Commissione responsabile del Green Deal europeo Frans Timmermans, chiedendogli di presentare la proposta per gli obiettivi climatici (NDC) al più tardi entro giugno 2020. Questo avrebbe consentito di arrivare al tavolo dei negoziati più preparati e forti, però la loro proposta non è stata accolta e la stessa giovane attivista Greta Thunberg ha criticato la decisione nel suo discorso al Parlamento Europeo.

Secondo Caserini, ci sarà anche un impatto sulla mobilitazione che era in corso e soprattutto i giovani ne risentiranno.

Dopo che varie ONG ambientaliste hanno chiesto di tenere in considerazione la lotta al cambiamento climatico nei pacchetti di salvataggio economico, i leader europei hanno concordato che la ripresa non tralascerà la "transizione verde" stabilita a causa della pandemia.

Allo stesso tempo, richieste di allentare gli obiettivi della lotta al cambiamento climatico sono già arrivate da ogni parte con il pretesto della mancanza di denaro sufficiente. Gli europarlamentari del partito guidato da Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia, hanno chiesto di rinviare il Green Deal fino al termine della crisi: “Di fronte al rischio di una completa desertificazione del tessuto produttivo, con ricadute sociali devastanti in tutti gli Stati membri, continuare a perseguire ricette utopistiche in nome di un ambientalismo ideologico sarebbe folle e irresponsabile". Richieste simili di posticipare sono arrivate dall’aviazione e dall’industria delle costruzioni.

«Chi propone di aspettare ad agire e mettere da parte le politiche sul clima non ha capito la sostanza del cambiamento climatico, quali sono i tempi e la grande inerzia del problema», continua Caserini. «Mentre l’emergenza coronavirus si è presentata nel giro di pochi mesi, prima era sconosciuta e probabilmente fra qualche anno sarà soltanto un ricordo, il cambiamento climatico ha almeno 100 anni di incubazione e si farà sentire per secoli e millenni. La scala temporale del cambiamento climatico è totalmente diversa da quella del coronavirus, ma il suo impatto stimato a livello sanitario non è certo da meno».

La pandemia è come il cambiamento climatico in modalità accelerata

La pandemia, dunque, ci ha fatto vedere in poco tempo quello che il cambiamento climatico sta incubando da decenni. In altre parole, il cambiamento climatico e le pandemie sono entrambi l’esito dello stravolgimento degli ecosistemi e dell’impatto dell’uomo sull’ambiente che si manifestano però su scale temporali differenti. Invece di rilassarci e congratularci perché la natura si sta riappropriando dei propri spazi come se l’uomo fosse un alieno e non ne facesse parte, dovremmo pensare alle conseguenze delle nostre azioni e delle decisioni che i leader mondiali prendono in campo energetico, economico e di sviluppo industriale.

Il nostro rapporto con l’ambiente incide nella diffusione delle malattie, spiega ad Agi Giovanni Maga, direttore dell’Istituto di Genetica molecolare del CNR-IGM di Pavia. «I fattori coinvolti sono molteplici: cambiamenti climatici che modificano l’habitat dei vettori animali di questi virus, l’intrusione umana in un numero di ecosistemi vergini sempre maggiore, la sovrappopolazione, la frequenza e rapidità di spostamenti delle persone».

La maggior parte delle epidemie degli ultimi decenni non è stata frutto di casualità, non si è verificata per sfortuna, ma è il risultato di quello che le persone hanno fatto (e continuano a fare) alla natura, scriveva Jim Robbins nel 2012 in un articolo sul New York Times dal titolo “Ecologia dei virus”. Secondo diversi studi pubblicati in questi anni, il 60% delle malattie infettive e il 75% di quelle emergenti che colpiscono gli esseri umani sono zoonosi: cioè provengono dagli animali, in oltre due terzi dei casi da fauna selvatica, e arrivano all’uomo tramite un salto di specie.

Il salto di specie può avvenire anche dopo che i virus per tantissimi anni, anche millenni, si sono trasmessi e replicati all’interno di specie serbatoio senza infettare l’uomo e senza avere effetti devastanti. Ad esempio, si stima che i primi coronavirus siano nati tra i 10mila e i 300 milioni di anni fa e, nel caso del nuovo coronavirus, alcuni suoi lontani progenitori sembrano risalire a 140 anni fa (in particolare una linea di discendenza trovata attualmente nei pangolini, uno degli animali ritenuti tra i possibili intermediari tra i pipistrelli e l’uomo) e a 40-70 anni fa (un lignaggio presente in una specie di pipistrelli trovati in una grotta dello Yunnan in Cina).

L’ospite intermedio che ha consentito il salto di specie e la diffusione della SARS nel 2002 si pensa fu lo zibetto, un animale selvatico di media taglia, venduto nei mercati selvatici cinesi insieme ai pipistrelli da cui il virus era probabilmente partito. Otto anni prima, nel 1994, in Australia, 13 cavalli e il loro istruttore morirono a causa dell’Hendra virus. In questo caso i vettori intermedi erano stati i cavalli che si erano infettati dopo essere entrati in contatto con le feci della volpe volante (o il pipistrello della frutta).

Nel 2005, in Malesia, ci fu un’epidemia di nipah. Anche in questo caso il virus aveva avuto origine dalle volpi volanti. È probabile che un pipistrello abbia lasciato cadere un pezzo di frutta in un porcile in una foresta. I maiali s’infettarono e fecero da amplificatore del virus, consentendo poi il salto di specie nella forma evoluta nell’uomo. Su 276 persone contagiate in Malesia, 106 morirono e molte altre hanno poi sofferto di disturbi neurologici permanenti e paralizzanti.

Anche nel caso della MERS, la sindrome respiratoria del Medio Oriente, rilevata per la prima volta in Arabia Saudita nel 2012 e propagatasi negli anni successivi in 25 paesi (con quasi 3mila casi di contagio e oltre 850 morti), si ritiene che il virus si sia originato nei pipistrelli e poi trasmesso, in un’era remota, ai dromedari. E sempre i pipistrelli della frutta sono tra i possibili ospiti serbatoio di Ebola, rilevata per la prima volta nel 1976 e che ha visto una grande diffusione tra il 2014 e il 2016 nell’Africa occidentale e dal 2018 nella Repubblica Democratica del Congo.

La colpa dei contagi, ovviamente, non è degli animali, né dei pipistrelli, ma dell’uomo, spiega Simone Re su Rivista Micron: “Prelevare animali selvatici dal loro ambiente naturale e indurre artificialmente un’elevata concentrazione di individui di diverse specie esotiche in uno spazio limitato crea le condizioni ideali per la trasmissione di zoonosi”. Ma questo, aggiunge Re, è solo uno degli esempi di alterazione degli habitat e delle conseguenze poi imprevedibili generate dal contatto dell’uomo con animali selvatici ed ecosistemi vergini: “Diversi studi mostrano che la deforestazione aumenta il rischio di esposizione ad agenti patogeni, come il virus Nipah, il virus Lassa, la malaria e la malattia di Lyme, amplificandone la diffusione”.

Qualsiasi malattia infettiva emergente negli ultimi 30 o 40 anni è stata causata dall'invasione da parte dell’uomo di aree selvatiche e dai cambiamenti demografici, affermava al New York Times già otto anni fa Peter Daszak, zoologo consulente dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) e presidente di EcoHealth Alliance, un'organizzazione che studia le connessioni tra salute umana e fauna selvatica.

L'HIV, ad esempio, è passato all’uomo dagli scimpanzé negli anni '20, quando i cacciatori di carne selvaggia in Africa li hanno uccisi e massacrati. In Australia, la trasmissione dell’Hendra è stata facilitata dalla suburbanizzazione che ha attirato pipistrelli infetti che un tempo popolavano le foreste. La volpe volante si nutre, infatti, di frutti distribuiti nelle foreste. Con la riduzione delle risorse naturali a causa della deforestazione, questo pipistrello si è adattato ad ambienti forestali delle zone urbanizzate, entrando così a contatto con i cavalli e poi con gli uomini, scrive Laura Scillitani su Scienze in Rete.

La deforestazione e la creazione di allevamenti intensivi di maiali che si cibavano degli scarti di frutta lasciati cadere dai pipistrelli ha creato le condizioni per il salto di specie del virus nipah, mentre la frammentazione delle foreste ha consentito densità di animali inusuali e convivenze forzate tra specie che altrimenti si incontrerebbero raramente, favorendo la diffusione dell’ebola. E sempre la frammentazione degli habitat ha agevolato la diffusione di patologie molto pericolose per l’uomo come la borrelliosi di Lyme, la meningoencefalite virale e la febbre congo-crimea, i cui serbatoi sono diverse specie di piccoli roditori. La riduzione delle foreste nell’America settentrionale ha portato all'allontanamento di lupi, volpi, gufi e falchi e all’incremento di cinque volte dei topi dai piedi bianchi. Questi roditori, spiegava alcuni anni fa al New York Times Richard Ostfeld, studioso della malattia di Lyme, producono un numero enorme di ninfe infette, uno stadio delle zecche portatrice di queste patologie.

Uno studio di alcuni anni fa, infine, aveva mostrato che un aumento della deforestazione del 4% in Amazzonia aveva portato a un incremento del 50% dell’incidenza della malaria perché si era creato un mix di luce solare e umidità che faceva prosperare le zanzare veicolo della malattia.

"Quando tagliamo gli alberi, riduciamo le foreste, sostituiamo i boschi con campi agricoli, erodiamo la biodiversità e ci sbarazziamo di specie animali che svolgono un ruolo protettivo”, aggiungeva il prof. Ostfeld.

Il sovrappopolamento (ndr, entro il 2050, secondo le Nazioni Unite, il 68% della popolazione mondiale dovrebbe vivere nelle aree urbane), la deforestazione, il consumo di suolo, l’aumento delle aree urbanizzate e l’intrusione dell’uomo negli habitat naturali, il disboscamento a favore di allevamenti e agricoltura intensivi ed estrazioni minerarie stanno portando al depauperamento degli ecosistemi e alla riduzione della capacità dei sistemi naturali di immagazzinare carbonio, creando a loro volta le condizioni per la diffusione di agenti patogeni.

Il cambiamento climatico aggrava la situazione, con un impatto diretto sulla sopravvivenza dei microbi nell’ambiente. Alcuni effetti sono già visibili come dimostra lo spostamento di diversi generi di zanzare (tra cui le Anopheles e le Aedes, vettori di malattie come la febbre gialla, il dengue, lo zika) verso le zone tropicali di alta quota dove prima erano assenti, o di zecche presenti nelle zone alpine a causa delle temperature invernali più elevate.

Inoltre, gli agenti patogeni stanno mutando geneticamente man mano che si evolvono, diventando resistenti anche ad antibiotici, antimicotici, antiretrovirali e antimalarici, spesso a causa dell’uso improprio di questi farmaci da parte di persone e veterinari. Questo consente loro di sfruttare nuovi ospiti e sopravvivere in nuovi ambienti.

Studi suggeriscono che le epidemie diventeranno più frequenti man mano che il clima continua a cambiare, scrive il Programma per l’ambiente delle Nazioni Unite (UNEP). Secondo l’OMS, ci sono 7.000 segnali di potenziali focolai ogni mese e, a giugno 2018, per la prima volta in assoluto, il mondo ha affrontato sei delle otto malattie indicate come quelle prioritarie su cui fare ricerca. Entro il 2080, il riscaldamento globale estremo potrebbe esporre 1 miliardo di persone a malattie trasmesse dalle zanzare in regioni precedentemente non colpite come l'Europa e l'Africa orientale, secondo il Rapporto sui rischi globali del World Economic Forum.

Insomma, il nuovo coronavirus non è un’eccezione ma è strettamente connesso alla vita che viviamo. E a fare da amplificatore delle possibilità di contagio c’è la sempre maggiore interconnessione tra aree del mondo prima non collegate tra di loro.

Siamo una popolazione globale sempre più mobile, che viaggia sempre di più per lavoro, affari o piacere. Nel 2018, 4,2 miliardi di persone hanno preso un aereo, nel 1970 erano 310 milioni. Gli agenti patogeni viaggiano con noi e questa mobilità ha contribuito alla rapida diffusione del nuovo coronavirus dalla Cina a oltre 60 paesi in due mesi.

Cosa fare?

“Dobbiamo imparare una volta per tutte che la pandemia da coronavirus non è qualcosa che ci è capitato, ma è il risultato delle cose che facciamo, di come dominiamo l’ambiente, delle scelte che prendiamo. Tutti ne siamo responsabili”. David Quammen, autore del libro “Spillover. L’evoluzione delle pandemie”, spiega in un’intervista a Il Manifesto che se vogliamo essere in grado di gestire future epidemie dovremo cambiare prospettiva e pensare soluzioni che tengano conto del fatto che viviamo in ecosistemi delicati di cui l’uomo fa parte e non è estraneo. La soluzione non è ovviamente uccidere i pipistrelli, ma lasciarli in pace, perché i nostri ecosistemi hanno bisogno di loro: sono importanti bioindicatori, essenziali per il mantenimento di determinati ecosistemi, come i tropici e i deserti, attraverso la dispersione dei semi e l’impollinazione.

«Dobbiamo trovare il modo di vivere in equilibrio con la natura. I virus hanno convissuto con gli animali selvatici per millenni, la loro presenza non è niente di nuovo; quello che è cambiato è il modo in cui noi interagiamo con la fauna selvatica: crescita demografica, urbanizzazione, sfruttamento intensivo delle risorse naturali e distruzione dell’ambiente hanno portato l’uomo più che mai in stretto contatto con la fauna e reso più facile il salto di specie dei virus», dice a Valigia Blu Ilaria Di Silvestre, capo-programma per la fauna selvatica presso Eurogroup for Animals.

La strada da seguire è quella di «maggiori investimenti pubblici, di più istruzione pubblica, di finanziare adeguatamente istituti come lo statunitense Centres for Disease Control and Preventing, e organizzazioni equivalenti sparse per il mondo», spiega ancora Quammen in un’intervista a NPR (qui nella traduzione su Il Tascabile). «Dobbiamo formare scienziati che diventeranno cacciatori di virus, che vadano in quelle grotte, in quelle foreste, facendo il lavoro sporco e che poi tornino nei laboratori a fare il lavoro d’indagine, per aiutarci a identificare questi virus. E abbiamo bisogno che le istituzioni sanitarie pubbliche siano pronte, con risorse e informazioni per affrontare le epidemie».

Il modo migliore per prevenire nuovi focolai, dicono gli specialisti ormai da decenni, è “One Health Initiative”, un programma mondiale, che coinvolge centinaia e centinaia di scienziati e altri professionisti e si basa sull’aspetto ecologico delle malattie: la salute umana, animale ed ecologica sono indissolubilmente collegati e devono essere studiate e gestite in modo olistico. Secondo quest’approccio, le pandemie vanno affrontate con una strategia multidisciplinare, tenendo insieme epidemiologia, scienze del clima, salvaguardia delle specie, comunicazione del rischio.

Uno dei progetti attivi era Predict, finanziato dall'Agenzia per lo sviluppo internazionale degli Stati Uniti fino a marzo 2020 quando l’amministrazione Trump ha tolto i fondi, salvo poi prorogarli per altri 6 mesi dopo l’esplosione di COVID-19 negli USA. In questi anni, l’equipe di Predict ha cercato di capire, in base al modo in cui le persone modificano il paesaggio, quali sono i luoghi dove è probabile che le prossime malattie si riversino negli umani, prima che possano diffondersi, raccogliendo campioni da specie selvatiche ad alto rischio.

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In futuro, e in una società sempre più connessa, la lotta alle epidemie non sarà più di esclusiva responsabilità degli esperti della sanità pubblica, ma richiederà la collaborazione dei leader sia pubblici che privati, nonché l'aiuto della popolazione in generale. «L’Unione Europea ha proprio in questi giorni l’opportunità di cambiare le cose e dimostrare di aver imparato questa dolorosa lezione. La nuova Strategia Europea per la Biodiversità fino al 2030 attualmente è in via di definizione da parte della Commissione Europea come componente cruciale dell’EU Green Deal», commenta Ilaria Di Silvestre.

Di certo c’è che la strada è ancora lunga, la ricerca richiede tempo e spesso i risultati non sono - non possono essere - sotto gli occhi dei più. Se in futuro avremo imparato la lezione del 2020, potremo scrivere come immagina Ed Yong su The Atlantic: “Nel 2030, SARS-CoV-3 emerge dal nulla e viene messo fuori gioco entro un mese”. In questo crisi climatica e virus si assomigliano: entrambi ci stanno già danneggiando e la scienza ci indica chiaramente quali cambiamenti dovremmo adottare per debellarli.

Immagine in anteprima via pixabay.com

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