Il consumo di suolo in Italia rallenta, ma non si ferma
7 min letturaL'Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) ha pubblicato l'edizione 2017 del rapporto sul consumo di suolo (Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici). Il rapporto descrive l'evoluzione e lo stato di questo fenomeno in Italia, analizzando le trasformazioni urbane che sono avvenute a livello nazionale e il loro impatto sul territorio.
Il consumo di suolo in Italia
Il consumo di suolo è la sottrazione di aree agricole e naturali che avviene con l'espansione del tessuto urbano sul territorio. È ciò che chiamiamo comunemente "cementificazione", ma riguarda anche le coperture in asfalto delle infrastrutture stradali.
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L'anno scorso avevamo pubblicato un approfondimento su questo tema. Avevamo parlato dei costi ambientali, ma anche economici, dovuti all'eccessivo consumo di una risorsa importante come il suolo. Avevamo spiegato, inoltre, come i suoi effetti debbano essere esaminati al di là delle percentuali di superfici libere perdute. Soprattutto in aree come la pianura padana, dove dal dopoguerra a oggi la crescita delle aree residenziali, industriali e commerciali, nell'intorno delle grandi città ma anche di molti centri di medie e piccole dimensioni, ha modificato in modo profondo l'assetto del territorio e il rapporto tra zone urbane e rurali.
Abbiamo accennato al tema del paesaggio, che è strettamento collegato a quello del consumo di suolo. La quantità e la qualità di ciò che è stato costruito in questi decenni hanno entrambe inciso, spesso negativamente, sulla immagine del territorio. Il paesaggio ha subito quella che alcuni osservatori chiamano "banalizzazione", per descrivere l'impoverimento della sua immagine e della sua forma (non solo ai margini delle città ma anche nelle campagne), impressa anche dall'intervento dell'uomo nel corso dei secoli. Senza considerare il degrado rappresentato da edifici incompiuti e lottizzazioni abbandonate.
Abbiamo poi ricordato le cause del consumo di suolo: le politiche urbanistiche adottate dal dopoguerra a oggi. Il mancato contenimento della rendita immobiliare che ha spesso orientato lo sviluppo edilizio in senso speculativo. Le dinamiche demografiche e quelle legate al mercato immobiliare e al settore delle costruzioni. Le scelte adottate dalle amministrazioni comunali all'interno dei piani regolatori. E una prassi di pianificazione del territorio frammentata tra i diversi Comuni.
Dal dopoguerra a oggi il suolo consumato in Italia è aumentato del 184%
Nella presentazione del rapporto Stefano Laporta, presidente designato dell'ISPRA, scrive:
Il consumo di suolo con le sue conseguenze, rallenta ma non accenna a fermarsi. Il rallentamento non sufficiente della sua velocità, dovuto alla crisi economica degli ultimi anni, rende evidente che non vi sono ancora strumenti efficaci per il governo del consumo di suolo, e ciò rappresenta un grave vulnus in vista della auspicata ripresa economica, che non dovrà assolutamente accompagnarsi ad una ripresa della artificializzazione del suolo
L'ISPRA, insieme alle Agenzie per la Protezione dell’Ambiente regionali e delle province autonome, ha realizzato una cartografia del consumo di suolo sul territorio nazionale, con dati aggiornati al 2016, esaminando in particolare il periodo compreso tra novembre 2015 e maggio 2016.
In questo periodo la velocità di consumo di suolo è stata di 3 metri quadrati al secondo (circa 30 ettari al giorno). Negli anni 2000, in una fase di grande espansione edilizia, ha toccato gli 8 metri quadrati al secondo, passando poi a 6-7 tra il 2008 e il 2013 e a 4 tra il 2013 e il 2015. Si registra dunque un significativo rallentamento, ma non ancora un arresto.
La percentuale di suolo consumato, sull'intera superficie nazionale, è il 7,64% (l'aggiornamento ha permesso di definire meglio questo dato, che nel rapporto dell'ISPRA dello scorso anno era fissato al 7%). Negli anni '50 era il 2,7%. Un incremento, a oggi, del 184%. È un po' come se avessimo completamente ricoperto una superfice pari, all'incirca, alla Liguria e alle Marche.
La regione con la percentuale maggiore di suolo consumato è la Lombardia (12,96%), seguita dal Veneto con il 12,21%. Sopra al 10% c'è la Campania, mentre tra l'8 e il 10% si collocano Lazio, Emilia Romagna, Liguria, Puglia e Friuli-Venezia-Giulia.
Il consumo di suolo non è distribuito in modo omogeneo sul territorio. Si concentra in quelle aree (le pianure, le zone costiere, i fondovalle) dove la conformazione del terreno agevola la crescita delle aree urbanizzate. A livello nazionale è consumato il 23,2% della superficie a 300 metri dalla costa e l'11,9% tra gli zero e i 300 metri di quota. Tra le Regioni, per esempio, il suolo consumato tra gli 0 e i 300 metri di quota in Lombardia sale al 18,5%, rispetto al 12,96 a livello regionale.
I "costi nascosti" del consumo di suolo
Consumare suolo significa perdere una risorsa che svolge importanti funzioni. Si parla di "servizi ecosistemici" per definire tutti i benefici che noi riceviamo dall'ambiente e che possono essere compromessi dal suo eccessivo sfruttamento.
Il suolo ospita una quota rilevante della biodiversità presente sulla Terra. Costituisce il supporto per lo sviluppo della biomassa vegetale ed è quindi la risorsa primaria per l'agricoltura. Ha un ruolo rilevante nel ciclo dell'acqua, che assorbe e filtra nel suo percorso verso le falde sotterranee (per questa ragione l'impermeabilizzazione diminuisce la capacità del suolo di assorbire e regolare il flusso dell'acqua durante le precipitazioni). Il suolo partecipa ai cicli biogeochimici globali, come il ciclo del carbonio. È un carbon sink, cioè un sistema capace di immagazzinare il carbonio atmosferico, principalmente attraverso la vegetazione. Per questo oggi si ritiene che una corretta gestione dei suoli possa contribuire al contenimento del riscaldamento globale, causato dall'aumento della concentrazione atmosferica di gas serra, soprattutto anidride carbonica.
Alcuni metodi di valutazioni economica dei servizi ecosistemici permettono oggi di quantificare, in termini monetari, il valore di queste funzioni. Quindi, i costi economici che devono essere sostenuti in seguito alla loro perdita. Già lo scorso anno l'ISPRA aveva svolto delle stime relative al consumo di suolo avvenuto tra il 2012 e il 2015. In questo nuovo rapporto l'Istituto aggiorna queste cifre, calcolando i costi del suolo consumato tra il 2012 e il 2016.
Si tratta, come scrive il rapporto, di «stime indicative e preliminari» che esprimono i «costi annuali aggiuntivi» che dovremo sostenere dal 2017 in poi. A livello nazionale, le stime collocano questi costi tra 625,5 e 907,9 milioni di euro l’anno (tra 30591 e 44400 euro per ogni ettaro di suolo consumato).
Come precisa l'ISPRA:
Le stime economiche ottenute non considerano la totalità dei servizi ecosistemici, ma solo una loro parte. I “costi nascosti” del consumo di suolo, quindi, potrebbero essere ben maggiori rispetto ai valori riportati.
La funzione che incide maggiormente su questi costi è la produzione agricola (45%, se si considera il valore massimo dell'intervallo stimato).
La nuova legge sul consumo di suolo e le sue criticità
Il rapporto si sofferma anche sulla legge sul contenimento del consumo del suolo e riuso del suolo edificato, approvata lo scorso anno alla Camera e che dovrebbe iniziare a essere discussa in Senato. Come già aveva fatto l'anno scorso, l'ISPRA segnala che la legge in discussione presenta una particolare criticità nelle definizioni dei termini impiegati, tra le quali le stesse definizioni di «consumo di suolo» e di «superficie agricola, naturale e seminaturale».
Scrive il rapporto che le definizioni «appaiono limitative, non considerando il consumo di suolo in tutte le sue forme e rappresentando allo stesso tempo un potenziale ostacolo al suo reale contenimento». Dal calcolo del suolo effettivamente consumato verrebbero escluse alcune tipologie di superfici:
Le aree destinate a servizi di pubblica utilità di livello generale e locale, le infrastrutture e gli insediamenti prioritari, le aree funzionali all’ampliamento di attività produttive esistenti, i lotti interclusi, le zone di completamento, gli interventi connessi in qualsiasi modo alle attività agricole.
Queste eccezioni determinerebbero una stima del suolo consumato inferiore alla percentuale reale. Gli autori aggiungono inoltre che «la procedura di definizione dei limiti è estremamente complessa e che non sono stabilite le percentuali di riduzione da raggiungere nel corso degli anni».
Quanto suolo continueremo a consumare in Italia?
Il 2050 è l'anno per il quale l'Unione Europea ha fissato l'obiettivo del consumo di suolo netto zero. Immaginando uno scenario "ideale" di diminuzione progressiva e lineare, con «interventi normativi significativi e azioni conseguenti», l'ISPRA stima che entro il 2050 potremo aver consumato in Italia altri 1635 chilometri quadrati di superficie libera. Se la velocità media di consumo si mantenesse invece sui valori del periodo 2015-2016 avremmo perso altri 3270 chilometri quadrati (una superficie pari circa a quella della Valle d'Aosta). Il terzo scenario prevede che, in seguito alla ripresa economica (e quindi del settore edilizio), il consumo di suolo ritorni immediatamente ai ritmi dei decenni scorsi, fino a consumare nell'ipotesi peggiore altri 8326 chilometri quadrati.
Sono scenari "virtuali", ma utili per farci capire l'impatto nel lungo periodo. Quale prevarrà tra questi? Come detto, in questo momento, stiamo consumando suolo a una velocità molto più bassa di quella che si registrava all'apice della "bolla immobiliare" degli anni 2000. Eppure, se continuasse a questa velocità, il consumo di suolo nel lungo periodo sarebbe ancora significativo.
Andrea Arcidiacono, vicepresidente dell'Istituto Nazionale di Urbanistica, ricorda nel rapporto che i piani regolatori dei comuni lombardi, attualmente vigenti, «contengono previsioni di trasformazione per usi urbani di suoli liberi pari a oltre 50 mila ettari». Un potenziale consumo di nuovo suolo superiore a quello che si è verificato in Lombardia tra il 1999 e il 2009, in un periodo di grande espansione edilizia.
A maggio la Lombardia ha approvato una integrazione al Piano territoriale regionale. Il Piano deve stabilire le soglie di riduzione di consumo di suolo a cui si dovrebbero attenere Province e Comuni. La modificazione del Piano regionale lombardo restituisce ai Comuni il potere di pianificazione urbanistica. Ma permette loro anche di stabilire nuove previsioni di suoli urbanizzabili, nel rispetto di un "bilancio ecologico del suolo" che tuttavia considera come già consumate anche le aree che i piani regolatori classificano come edificabili, ma che sono ancora libere. Queste aree sfuggirebbero alle soglie di riduzione prescritte dal Piano regionale. Così, tutte le previsioni contenute nei piani regolatori comunali non verrebbero calcolate come nuovo consumo. Si tratta in sostanza, secondo Arcidiacono, di un «artefatto normativo» che permetterebbe ai comuni "meno virtuosi" di confermare le trasformazioni urbane già previste nei piani.
Del resto, se in questo istante stiamo sacrificando meno aree agricole e naturali che in passato, lo dobbiamo in massima parte alla crisi delle settore edilizio, più che alle decisioni delle amministrazioni locali. Commentando nel rapporto il caso del Veneto Anna Marson, della Università IUAV di Venezia, nota:
Non è dunque sufficiente rallentare il consumo (a questo ha già pensato il mercato). È necessario in primo luogo cambiare la logica dell’intervento pubblico, finanziando soltanto interventi che non comportino nuovo consumo di suolo e che contribuiscano invece a recuperare le aree già consumate in stato di degrado, e togliere legittimità a un nuovo consumo di suolo che oramai – in questo contesto – non serve davvero più ad alcuna esigenza, né sociale né economica.
Sono in molti a spingere perché il Parlamento approvi al più presto in via definitiva la legge sul consumo di suolo oggi ferma al Senato. Ma per essere davvero incisiva la legge dovrebbe recepire i dati e le osservazioni contenute nel rapporto dell'ISPRA. Sono necessari provvedimenti chiari ed efficaci, sia a livello nazionale che regionale, per fermare quel consumo di nuovo suolo che «non serve davvero più ad alcuna esigenza, né sociale né economica».