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Opportunità e rischi di una legge sul congedo mestruale

27 Maggio 2022 8 min lettura

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Opportunità e rischi di una legge sul congedo mestruale

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Un congedo dal lavoro senza limiti di giorni per le donne che soffrono di mestruazioni dolorose e invalidanti, attraverso la presentazione di un certificato medico. È una delle iniziative contenute nel disegno di legge approvato il 18 maggio in Spagna, che diventa così il primo paese europeo ad approvare una norma in materia. L’introduzione del congedo mestruale costerà al governo spagnolo circa 23,8 milioni di euro all’anno: la legge, portata avanti dalla ministra dell’Uguaglianza Irene Montero di Podemos, prevede anche iniziative in tema di salute riproduttiva, diritto all’aborto e salute sessuale. Il testo verrà adesso sottoposto al Parlamento con procedura d’urgenza, per accorciare i tempi di approvazione. Poiché però si tratta di una legge relativa a diritti fondamentali e libertà pubbliche, ci sarà bisogno della maggioranza assoluta per approvarla, a differenza delle norme ordinarie.

Il dibattito si è riaperto anche in Italia. Nel nostro paese dal 60 al 90% delle donne soffrono durante il ciclo mestruale, e questo causa tassi di assenteismo dal 13 al 51% a scuola e dal 5 al 15% sul lavoro. Sono i dati presentati dalla Camera dei Deputati nella proposta di legge 3781 del 2016, quando quattro parlamentari del Partito democratico (Romina Mura, Daniela Sbrollini, Maria Iacono e Simonetta Rubinato) avevano proposto di istituire il congedo mestruale. La norma permetterebbe alle donne di assentarsi per un massimo tre giorni al mese durante il ciclo, senza doversi mettere in malattia o chiedere ferie, continuando a percepire uno stipendio pari al 100% della retribuzione giornaliera. Tutto questo semplicemente presentando un certificato medico. Oggi però l’iter è ancora bloccato, anche se dopo il sì della Spagna si è ricominciato a parlare della norma.

La dismenorrea, termine medico utilizzato per indicare i dolori mestruali, consiste in una fitta al basso ventre, che può diventare anche particolarmente acuta e che si può accompagnare ad altri sintomi come mal di schiena, diarrea, nausea, capogiri e svenimenti. Ecco perché i dolori dovuti al ciclo creano un’inabilità temporanea al lavoro, equiparabile ad altri disturbi o patologie, anche se vengono ancora molto sottovalutati e in alcuni casi equiparati a un capriccio. Per le donne che soffrono di endometriosi, poi, il dolore mestruale diventa anche più acuto: in Italia sono circa tre milioni le persone a cui è stata diagnosticata questa patologia. Secondo la Fondazione Italiana Endometriosi, i costi sociali sono stimati in circa sei miliardi di euro l’anno (30 miliardi in Europa), anche per congedi lavorativi, con una stima di circa 33 miliardi di giornate di lavoro perse.

Opportunità e rischi

Molte associazioni e gruppi femministi proclamano l’importanza di una legge che garantisca il congedo mestruale alle donne che soffrono di dismenorrea, ma in tanti si chiedono se questa iniziativa non rischi di creare un’ulteriore discriminazione: le aziende potrebbero essere ancora più reticenti ad assumere donne, oltre che per una potenziale maternità, anche perché potrebbero avere la possibilità di rimanere a casa tre giorni ogni mese. In alcuni paesi il congedo mestruale già esiste, ma in effetti molte donne decidono comunque di non usufruirne, per paura di essere discriminate.

«Il congedo mestruale rischia di avere un effetto boomerang», dice a Valigia Blu Antonella Giachetti, presidente di Aidda, l’associazione imprenditrici e donne dirigenti d’azienda. «In questo momento ci sono altri nodi più urgenti da affrontare per andare verso una maggiore parità: dovremmo porre l’attenzione sulla ridefinizione dei ritmi di lavoro, sul sostegno alla maternità e sul supporto delle donne che fanno le caregiver di persone anziane. Il congedo mestruale potrebbe rafforzare la mentalità secondo cui è meglio assumere un uomo invece che una donna: rischia di diventare una misura demagogica con effetti controproducenti».

Secondo una ricerca di AstraRicerche finanziata dall'azienda Essity e pubblicata a febbraio 2020, il 35% delle italiane crede che il congedo mestruale potrebbe aumentare la diffidenza dei datori di lavoro verso le assunzioni di donne, mentre il 28% pensa che “sminuirebbe le donne, lasciando passare il concetto che la loro capacità lavorativa vari in base ai cambiamenti ormonali”. Il restante 35% delle donne e solo il 34% degli uomini ritengono che un paese civile dovrebbe riconoscere la possibilità a chi sta male di non lavorare. Tutto questo nonostante le mestruazioni siano vissute male da oltre la metà delle intervistate, che associa al ciclo una sensazione di dolore. I disturbi più frequenti sono gonfiore, dolore pelvico, stanchezza fisica e cambiamento dell'umore. Il 27% prova disagio ed imbarazzo e il 23% considera le mestruazioni una condizione invalidante.

«Il congedo mestruale sottolinea una differenza, quando invece in questo momento abbiamo bisogno di andare nella direzione di includere la diversità», osserva a Valigia Blu Maria Cristina Bombelli, che da 20 anni si occupa di inclusione sul lavoro e che ha fondato la società di consulenza Wise Growth. «In un mondo ideale sarebbe utile, ma bisogna stare attenti al contesto: nella nostra società creerebbe un ulteriore alibi per lasciare a casa le donne. Esiste già la malattia, perché non usare quello strumento quando stiamo male?».

Un diritto su cui non transigere

La pensa diversamente Esmeralda Rizzi dell’ufficio Politiche di genere della Cgil nazionale, secondo cui la diffidenza verso il congedo mestruale deriva da una cultura del lavoro ancora arretrata. «Il sistema imprenditoriale ragiona ancora come Elisabetta Franchi, pretendendo dalle lavoratrici e dai lavoratori di essere disponibili 24 ore su 24», spiega Rizzi a Valigia Blu. «È per questo che le aziende continuano a chiedere una serie di deregolamentazioni del mercato del lavoro, che creano forme di precarietà che non esistono in altri paesi. Se prendiamo l’idea del dipendente che deve essere sempre a disposizione e la applichiamo alla donna, ecco allora che avere un figlio diventa un problema, e persino avere le mestruazioni». 

L’assenza sul lavoro, insomma, è penalizzata anche quando è giustificata: nel 2008 il decreto 112, meglio noto come decreto Brunetta, ha stabilito la decurtazione dello stipendio dei dipendenti pubblici nei primi dieci giorni di malattia, e anche nelle aziende private i premi di produzione, che sono parti essenziali della retribuzione, spesso tengono conto dei giorni di malattia. In questo contesto, le donne sono quindi penalizzate. «Noi donne viviamo in mondo a misura di uomo», continua Rizzi. «Il congedo mestruale deve diventare allora un elemento di cultura, ancor prima che una forma di tutela per le donne: deve servire a riconoscere la diversità femminile e mettere la donna allo stesso livello dell’uomo. Per farlo servono strumenti di rottura: se continuiamo ad accettare l’emarginazione e la ghettizzazione delle donne, ci adattiamo. È necessaria una politica più coraggiosa, anche da parte delle donne stesse».

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Anche Irene Facheris, scrittrice e fondatrice del sito femminista Bossy, sostiene il congedo mestruale come un diritto di civiltà. «Si tratta di un gesto umano che riconosce il dolore che moltissime donne devono sopportare», afferma a Valigia Blu. «Il principio è lo stesso del diritto alla maternità: certo, sappiamo che molti datori di lavoro chiedono alle donne, prima di assumerle, se abbiano intenzione di rimanere incinta a breve. Questa però non è una buona ragione per non portare avanti una legge come quella sul congedo mestruale. Vogliamo continuare a sottostare alle discriminazioni facendo del nostro meglio per ‘non dare troppo fastidio’, o vogliamo combatterle per far valere i nostri diritti?».

Certo, il problema è più grande e non riguarda solo i datori di lavoro e la cultura aziendale, ma la società dove tutti noi viviamo. «All’inizio si faceva lo stesso discorso anche per le quote rosa: si pensava che anche quella strategia creasse un’ulteriore ghettizzazione delle donne», continua Facheris. «Negli anni invece siamo arrivati a dire che l’unico modo per non avere più bisogno delle quote rose consiste proprio nell’imporre inizialmente le quote rosa. Parallelamente, è necessario fare un lavoro culturale, in particolare sulle giovani generazioni, affinché queste iniziative non rimangano sempre una soluzione monca e non legittimata, ma si inseriscano all’interno di un cambiamento più ampio».

Il congedo mestruale nel resto del mondo e il rischio pink washing

Il congedo mestruale esiste da quasi 80 anni: il primo paese a introdurlo è stato il Giappone nel 1947, seguito nel 1953 dalla Corea del Sud. Più recentemente, il congedo è stato adottato nel 1992 nella regione indiana di Bihar, con una legge che dà diritto alle donne di assentarsi dal lavoro due giorni al mese per “ragioni biologiche”. Leggi simili sono poi state emanate anche in Indonesia (2003) e a Taiwan (2014). Nel 2016 si è diffuso anche in alcune regioni della Cina: in Oriente si pensa infatti che se le donne non si riposano nei giorni del ciclo avranno poi numerose difficoltà durante il parto. L’ultimo paese ad approvarlo prima della Spagna è stato lo Zambia, nel 2017. 

A prescindere dalle leggi dei diversi Stati, ci sono imprese che concedono comunque alle loro dipendenti il congedo mestruale all’interno del proprio regolamento. La Nike negli Stati Uniti lo ha inserito nel proprio codice di condotta sin dal 2007. Nel 2016 è stata la volta dell’inglese Coexist, che ha introdotto nello statuto l’esenzione dal lavoro per le impiegate con il ciclo mestruale, valutando che appena dopo le donne sono tre volte più produttive. Nel 2020 lo ha fatto anche la multinazionale indiana di food delivery Zomato.

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«Sono sperimentazioni interessanti, nonostante anche in questo caso sia importante chiedersi che tipo di cultura del lavoro vige realmente nelle aziende che si fanno promotrici di queste iniziative», dice Maria Cristina Bombelli. «Ci sono grandi imprese che sottopongono i lavoratori a ritmi molto stressanti e che poi parlano di inclusione e attenzione ai bisogni del singolo. È stato coniato anche il termine pinkwashing, che sta a indicare una strategia di marketing per promuovere un prodotto o un’azienda attraverso un apparente atteggiamento di apertura nei confronti dell'emancipazione femminile». 

La parola pinkwashing nasce dalla crasi tra pink, rosa, e whitewashing, ovvero imbiancare o nascondere. È stata usata per la prima volta negli Stati Uniti all’inizio degli anni Duemila da un’associazione per la lotta contro il cancro al seno, la Breast Cancer Action, la cui principale attivista, Barbara Brenner, è morta nel 2013 dopo aver condotto la campagna “Think before you pink”. La campagna era nata contrastare la mercificazione della malattia attraverso un crescente numero di prodotti – soprattutto di cosmesi – contrassegnati con il nastro rosa, venduti con la promessa di raccogliere fondi e sensibilizzare sul tumore al seno. In realtà le aziende approfittavano della particolare sensibilità dei consumatori per tacere il fatto che alcuni ingredienti contenessero sostanze potenzialmente cancerogene.

«Come in quel caso, anche riconoscere il congedo mestruale a chi ha un ciclo doloroso potrebbe essere una mossa delle aziende per catturare l'attenzione dei consumatori e guadagnare in reputazione», conclude Bombelli. «Molto spesso, purtroppo, l’obiettivo principale non è certo quello di tutelare la salute delle donne».

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