Serbia-Kosovo: il rischio di un nuovo conflitto e chi è Milan Radoicic, il Prigozhin balcanico
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Gli scontri dello scorso 24 settembre tra la polizia kosovara e la formazione paramilitare serba presso il monastero di Banjska, nel nord del Kosovo, rappresentano la peggiore escalation tra Belgrado e Pristina, i cui rapporti erano già compromessi da oltre un anno di tensioni. Nell’attacco, iniziato nelle prime ore del mattino, un commando composto da una trentina di serbi ha ucciso un poliziotto kosovaro, Afrim Bunjaku, e ha poi avuto un lungo scontro a fuoco con la polizia del Kosovo, terminato con l’uccisione di tre assalitori e con l’arresto di sei persone. Il premier Albin Kurti ha subito definito l’episodio come un atto di terrorismo, mentre il presidente serbo Aleksandar Vucic accusa il primo ministro di aver creato un clima di terrore contro i serbi del Kosovo, anche se non giustifica l’uccisione del poliziotto. Per il 27 settembre, in Serbia è stato dichiarato lutto nazionale e i media filogovernativi hanno totalmente distorto gli eventi di Banjska, definendo “eroi” i serbi uccisi ed evitando di menzionare il sofisticato arsenale di guerra – tra cui veicoli blindati, lanciarazzi, mitragliatrici, kalashnikov, bombe a mano e un’infinità di munizioni – rinvenuto dalle autorità kosovare.
Mentre la comunità internazionale lanciava appelli per la de-escalation, Belgrado ha nuovamente schierato esercito ed artiglieria pesante lungo il confine col Kosovo, per poi rimuoverli in seguito alle pressioni degli USA. Dal canto suo, l’Unione Europea ha richiesto la collaborazione di Belgrado sulle indagini, e alcuni paesi membri invocano misure contro la Serbia qualora sia provato il suo coinvolgimento nell’attacco. Nel frattempo, il Regno Unito dovrebbe aumentare il proprio contingente nella missione KFOR a guida della NATO.
Di cosa parliamo in questo articolo:
Quali sono le responsabilità di Belgrado?
Le indagini successive all’attacco hanno portato alla luce elementi che sembrano confermare il carattere terroristico dell’operazione. Secondo le autorità kosovare – che hanno sequestrato anche mappe e piani dettagliati contro 37 avamposti della polizia di Pristina – l’obiettivo era l’annessione alla Serbia dei quattro comuni del nord del Kosovo, dove si concentra circa la metà dei centomila serbo-kosovari. Inoltre, Pristina sostiene che il piano a lungo premeditato sia stato accompagnato da addestramenti presso basi militari in Serbia, che avrebbe quindi fornito le strutture logistiche oltre che un arsenale di guerra dal valore stimato intorno ai 5 milioni di euro.
A rendere ulteriormente evidente la connivenza di Belgrado c’è poi il documentato coinvolgimento di Milan Radoicic, vicepresidente del principale partito serbo-kosovaro, la Lista serba (LS), che attraverso il suo avvocato si è assunto la totale responsabilità dell’accaduto, dall’organizzazione del piano alla sua realizzazione, escludendo però il coinvolgimento delle autorità serbe. In un’intervista per la CNN, alla domanda sulle responsabilità di Radoicic, il presidente Vucic ha detto che il pubblico ministero farà il suo lavoro e investigherà su chi è accusato di azioni criminali. Martedì 3 ottobre, infine, Radoicic è stato arrestato in Serbia. Ma non è accusato né di terrorismo né di omicidio, e il sospetto è che sia un arresto di facciata, per dare una parvenza di collaborazione all’Occidente: non si sa ancora dove siano gli altri membri del commando ed è improbabile che Belgrado accolga le richieste di estradizione di Pristina.
Chi è Milan Radoicic?
Nato a Djakovica, in Kosovo, 45 anni fa, Milan Radoicic è un personaggio controverso, conosciuto al pubblico soprattutto per la sua partecipazione alle barricate nel nord del paese. Proprietario di un ristorante a Mitrovica nord, così come di altre aziende in Serbia, Radoicic è noto ai tribunali di Belgrado almeno dal 2011, quando venne accusato di appropriazione indebita.
Mentre Belgrado e Pristina dagli accordi di Bruxelles del 2013 iniziano quel lungo e travagliato processo chiamato “normalizzazione dei rapporti”, Radoicic aumenta la propria influenza a livello locale tra i serbi dei quattro comuni del nord. Nel 2017, il presidente Vucic lo annovera tra coloro che difendono i serbi del Kosovo, omaggiandolo pubblicamente. Nello stesso anno, è in piazza a stappare champagne insieme ai politici locali e Marko Djuric, allora ministro per il Kosovo, quando la LS vince le elezioni municipali.
A gennaio 2018, quando il politico d’opposizione serbo-kosovaro Oliver Ivanovic viene ucciso a sangue freddo davanti alla sede del suo partito, le autorità di Pristina credono che Radoicic abbia responsabilità nell’omicidio e spiccano un mandato d’arresto internazionale contro di lui che, nel frattempo, scappa in Serbia, dove viene nuovamente difeso pubblicamente dal presidente Vucic. Pochi mesi prima di essere ammazzato, in un’intervista a BIRN, Ivanovic disse che lo preoccupava enormemente che il Presidente prendesse Radoicic a modello di salvaguardia dei serbi del Kosovo.
A giugno dello stesso anno, Radocic diventa vicepresidente della LS, partito telecomandato da Belgrado e che nei comuni del nord raggiunge percentuali nordcoreane (mai al di sotto del 90%), anche grazie a pratiche intimidatorie. Il mandato d’arresto viene cancellato nel 2021, ma ne viene emesso un altro nel 2022 per corruzione: mentre si trova al passaggio di confine, Radoicic fa retromarcia e scappa dai doganieri.
Da dicembre 2021, si trova nella black list del dipartimento del tesoro USA, che lo considera il leader di una cosca criminale dedita al traffico illegale di armi, narcotici, così come denaro e altra merce tra il Kosovo e la Serbia. Radoicic avrebbe stretti legami con i servizi segreti di entrambi i paesi e sarebbe l’uomo che decide ogni cosa nel nord del Kosovo, come lo descrisse anche l’ex premier Ramush Haradinaj. Dallo scorso dicembre, è nella lista nera anche del Regno Unito. La scorsa settimana, la polizia kosovara ha pubblicato il video dell’abitazione dove viveva Radoicic: una moderna villa di lusso con giardino e piscina che affaccia sul lago Gazivode.
In tutti questi anni, Radoicic, insieme ad altri leader serbo-kosovari, è stato visto più volte al fianco di Vucic, così come a diverse plenarie del parlamento, o ad altre occasioni informali, come il compleanno del quotidiano Informer, il maggior tabloid filogovernativo. Sebbene Vucic abbia sempre negato di conoscerlo, il loro lungo rapporto di conoscenza è stato certificato in diversi momenti. Ed è proprio chiarire la natura di questo rapporto che potrebbe fare la differenza, sia per le indagini sui fatti di Banjska, che per il futuro del nord del Kosovo. Come emerge da diverse inchieste, prima ancora che signore della guerra locale, Radoicic sarebbe uno degli anelli di giunzione tra la Serbia, l’amministrazione serbo-kosovara e la criminalità organizzata transfrontaliera. Un rapporto indispensabile per mantenere il controllo sia sui serbi del Kosovo che sulla politica nazionale: se anche Vucic dovesse mai perdere le elezioni, i legami tra criminalità organizzata e istituzioni serbe sarebbero difficili da recidere.
Cosa potrebbe succedere ora?
Una possibile interpretazione di quanto accaduto a Banjska è il tentativo di Belgrado di dimostrare come i serbi del Kosovo agiscano autonomamente, senza aiuto né coordinamento dell’esercito regolare o di altre strutture, politiche o istituzionali. Una tesi che sembrerebbe confermata dalla notizia dell’arresto di Radoicic. Questo scenario è, in parte, un copione già visto e ha funzionato sia per Slobodan Milosevic che, più recentemente, per Vladimir Putin. Durante la guerra degli anni Novanta, il presidente serbo cercò di dimostrare di non avere controllo né influenza sui serbo-bosniaci Radovan Karadzic o Ratko Mladic, i cui crimini – tra cui il genocidio di Srebrenica – sarebbero stati compiuti senza la sua consapevolezza. Parimenti, quando nel 2014 gli “omini verdi” occuparono i palazzi del potere in Crimea, il Cremlino si giustificò sostenendo che l’esercito russo non c’entrasse nulla. In modo simile, anche i mercenari Wagner sono sempre stati ritenuti estranei dalle catene di comando militari russe.
Quanto all’assetto internazionale, il presidente Vucic ha sin qui goduto di un rapporto di favore da parte di UE e USA, che non hanno mai concretamente insistito sull’applicazione degli accordi di Ohrid raggiunti, ma mai firmati, lo scorso marzo. E soprattutto, dopo le violenze di fine maggio a danno dei soldati KFOR, sia Washington che Bruxelles hanno avuto poca equidistanza diplomatica, sbilanciandosi contro il governo Kurti, sanzionato per aver provocato i disordini forzando, senza il benestare occidentale, l’insediamento dei sindaci di etnia albanese. In questi mesi, dunque, il governo di Vucic ha goduto della scarsa imparzialità dei partner occidentali, il cui obiettivo principale sarebbe prevenire un più marcato allineamento tra Belgrado e Mosca, accomodando così le richieste serbe sul Kosovo, dove insistono sulla necessità di costituire l’Associazione dei comuni serbi, come prevista dagli accordi, e colpendo il governo Kurti per averla ostacolata.
Una benda geopolitica sugli occhi delle potenze occidentali, affinché la Serbia faccia una scelta di campo sul dossier ucraino, ma senza accorgersi che questa persegue politiche domestiche e regionali che ricordano l’autoritarismo e l’aggressività russi tanto nei modi quanto negli obiettivi.
Un conflitto tradizionale, come quello a cui si assiste dall’invasione russa dell’Ucraina, resta ad oggi un’opzione da escludere per via della missione KFOR, che è prossima a ricevere rinforzi sul campo. I fatti di Banjska dimostrano però il profilarsi di uno scenario in cui le tensioni vengono preservate e istigate con altri mezzi. Uno scenario che, ad ogni modo, fa nuovamente arenare il dialogo tra Belgrado e Pristina e che colpisce duramente la stabilità politica e geopolitica dell’intera regione.
Immagine in anteprima: frame video ATV via YouTube